"C'è chi crede in dio o nel denaro. Io credo nel cinema, nel suo potere. L'ho scoperto da ragazzino, mi ha aiutato a fuggire da una realtà in cui ero infelice. È una delle forme d'arte più alte che l'uomo ha concepito. Credo nel suo futuro."
(John Carpenter)

lunedì 30 agosto 2010

Venezia 2010

Venezia 2010

Si torna a Venezia, ancora una volta. A un festival che sulla carta promette scintille, soprattutto considerando il flop di Cannes (certificato dagli addetti ai lavori): sarà, ma il rischio in questi casi è quello di falsare le aspettative e non sarà un caso se di fronte al ricco programma ciò che risalta è quello che manca. A iniziare dall’attesissimo The Ward di John Carpenter, dato per certo fino a poche settimane fa e poi misteriosamente scomparso. O l’altrettanto atteso Burke & Hare di John Landis: solo una citazione in conferenza stampa per loro e la speranza che siano inseriti a sorpresa nel programma.
 
Concentriamoci dunque su quello che c’è, magari lasciando fuori l’ennesima retrospettiva sul cinema italiano che continua a sembrare un corpo estraneo, a metà strada fra la “buona intenzione” di chi in quelle pellicole ci crede (e fa bene, è solo il contesto a essere sbagliato) e la forzatura di un programma che le impone per ciò che non sono: torna alla memoria la retrospettiva western di qualche anno fa, dove pure si affrontò l’argomento da una interessante prospettiva culturale, ma che fu clamorosamente snobbata dal pubblico. Non so perché, ma ho la sensazione che le retrospettive a Venezia non funzionino, complice anche un programma-monstre che finisce per fagocitare ogni cosa e in questo senso valorizza soprattutto le conferme, più che le scoperte. L’omaggio a Vittorio Gassman con la presentazione dell’indimenticabile Profumo di donna in versione restaurata va però subito nella lista degli imperdibili!
 
E dunque speriamo di farla comunque qualche sorpresa, teniamo d’occhio la Settimana della Critica e le Giornate degli Autori, che in passato hanno fatto molto a proposito e confidiamo nelle scelte della giuria presieduta da Quentin Tarantino. E poi vedremo le conferme (speriamo), fra i vari Aronofsky, Rodriguez, Martone, Bellocchio e tanti altri. Magari se l’ultimo John Woo sarà un bel film avremo insieme la conferma e la riscoperta di un regista per il quale da tempo bisogna usare i verbi al passato: sarebbe forse il regalo più bello.
Appuntamento al Lido!


Collegati:

venerdì 27 agosto 2010

Rifugiarsi al cinema

Rifugiarsi al cinema

Esce oggi nelle sale italiane Il rifugio, il bellissimo film di Francois Ozon presentato in anteprima al Torino Film Festival del 2009, quando se ne era scritto in questa sede (il link è in calce). Il periodo non è dei migliori per ciò che riguarda la distribuzione, confusa fra le “rimanenze” di fine estate, ma conferma il buon trend di una stagione che, ben lungi dal soffrire il caldo, ha invece dimostrato vitalità e capacità di offrire buon cinema.
La distribuzione è curata da Teodora Film, naturalmente per tutti l’invito è di “rifugiarsi” nelle sale in cui la pellicola viene proiettata!

Come già in passato la recensione si adegua all’uscita italiana proponendo la nostra locandina (invero meno efficace di quella originale che pertanto riporto in questa segnalazione affinché ne resti traccia) e alcuni nuovi link. Per chi soffre da insofferenza per la rivelazioni, la recensione si sofferma anche sul finale, quindi se ne consiglia la lettura dopo la visione.

mercoledì 25 agosto 2010

Yamato Takeru/Orochi

Yamato Takeru/Orochi

Il principe Ousu nasce come secondo di una coppia di gemelli e per questo la sua figura è presaga di sventure per la famiglia reale di Yamato. Viene per questo dapprima allontanato e poi riammesso a corte dove si rende però responsabile della morte del fratello a causa di un misterioso potere distruttivo che alberga nel suo cuore e che si libera nei momenti di crisi. Ousu è infatti visto come una minaccia dallo stregone di corte, che esercita grande influenza sul sovrano. Inviato a contrastare un feudatario ribelle, Ousu riceve da questi il nome di Yamato Takeru (“eroe di Yamato”). Nel suo destino è inoltre scritto che gli dei lo hanno scelto per affrontare il ritorno del dio Tsukiyomi, esiliato dalla Terra e pronto a scatenarsi nella forma del drago a otto teste Orochi.

La forma probabilmente più nota in Italia del drago a otto teste Yamato no Orochi è quella della spaventosa astronave della Regina Himika nella serie animata Jeeg Robot – Uomo d’acciaio: si tratta però soltanto di uno dei tanti segni che hanno reso la leggenda del drago e quella dell’eroe Yamato Takeru (in verità alquanto distinte) popolari attraverso i secoli e capaci di riverberarsi e mutare alla luce di istanze sempre differenti, tanto da costituire fertile materia per trasposizioni di vario tipo.

Il film realizzato dalla Toho nel 1994, attraverso lo stesso staff che si occupava all’epoca dei kaiju eiga è stato lanciato in Occidente (in Italia è però inedito) ponendo furba enfasi sul mostro, relegando dunque l’eponimo eroe a un ruolo di sfondo, ma in realtà la pellicola è da ascrivere più al fantasy che alla sci-fi, dal momento che il suo approccio oscilla fra l’epica meravigliosa e lo spettacolo grandioso, dai risvolti un po’ kitsch, secondo una direttrice ascrivibile a certe opere del decennio precedente. In questo, Yamato Takeru conferma in effetti di essere un film a cavallo fra istanze difformi, similmente a come sempre accade al Mito che passa necessariamente attraverso continue rimodulazioni ed esiste in quanto racconto interstiziale, capace di abbracciare epoche, fonti e rinnovamenti continui.

Ecco dunque che, più della facile catalogazione in questo o quel settore, ciò che più interessa in questa sede è rimarcare alcuni aspetti precipui di un progetto senz’altro affascinante, commercialmente anche sfortunato (era stato pensato come capostipite di una serie poi abortita) e in grado di reggere sicuramente la visione anche da parte di un pubblico che non conosce a menadito le fonti, poiché la narrazione è lineare e si premura di spiegare e tracciare i confini all’interno del quale l’avventura si andrà snodando.

Si scriveva poc’anzi della differenza semantica fra il titolo originale e quello occidentale, che sposta l’attenzione sull’eroe o sul mostro: in effetti qualcosa di simile avviene anche all’interno del racconto, dove il principe Ousu appare un protagonista afflitto da una perenne indeterminatezza. La sua storia non è soltanto il semplice percorso di formazione di un eroe che deve trovare se stesso superando varie prove, ma quello di un uomo “a metà” (non casualmente è il secondo di due fratelli) che riesce a raggiungere la propria completezza solo attraverso l’interazione con una controparte, riverberando in questo senso il dualismo alla base di concetti come yin e yang. La sua “metà” arriva così a incarnarsi nella compagna Oto Tachibana, che conferisce alla storia un punto di vista femminile attraverso la figura di un’eroina non passiva, ma invece attiva rispetto alle minacce che l’eroe deve affrontare.

La componente affettiva, sebbene mai destinata a sfociare nel mero sentimento, riesce a ispessire una vicenda che in effetti si snoda all’interno di uno schema totalmente immerso nei legami familiari, dove anche gli elementi apparentemente esterni (come può essere la figura dello stregone) vengono in realtà ricondotti a “parte di sé” (l’uomo nasce infatti da una zanna di Orochi) e quindi testimoniano ancora una volta la natura intestina del conflitto. D’altronde Yamato Takeru è storicamente una figura che si pone come simbolica di un processo di unificazione del Giappone dalla creazione del primo protostato di Yamato in poi.

Il resto è pura avventura, infarcita da effetti speciali molto spettacolari che solo in alcuni casi indulgono nelle dinamiche del kaiju-eiga (pensiamo alla mutazione finale di Takeru e Oto, che ricorda certe creature roboticheggianti del tokusatsu, la fantascienza seriale televisiva). Su tutto resta comunque l’ombra di un lavoro che, nella propria aderenza totale al Mito, manca di alcuni guizzi capaci di testimoniare un’impronta che vada al di là dell’approccio meramente industriale. Un interessante paragone, in questo senso, si può muovere con il coreano Pulgasari, che nasce come prodotto dichiaratamente propagandistico, ma si dimostra invece capace di assorbire spunti personali che rendono l’insieme composito e foriero di spiazzanti derive. In questo senso Yamato Takeru condivide con il suo protagonista un percorso preordinato dall’alto, dove il punto d’arrivo è la ricomposizione di un’armonia universale dove lo spazio personale è ricondotto alla sola accettazione del proprio ruolo.

Yamato Takeru/Orochi the 8 Headed Dragon
Regia: Takao Okawara
Sceneggiatura: Wataru Minura
Origine: Giappone, 1994
Durata: 105’

martedì 24 agosto 2010

Piranha

Piranha

L’investigatrice assicurativa Maggie McKeown raggiunge la località di Lost River, in cerca di due ragazzi che hanno fatto perdere le loro tracce. Aiutata dal burbero Paul Grogan, Maggie giunge in un laboratorio militare abbandonato dove venivano compiuti misteriosi esperimenti e qui, per errore, libera alcuni piranha geneticamente modificati nel fiume. Dopo aver capito il danno commesso, Maggie cerca di impedire che gli abitanti del luogo siano sterminati dai voraci pesci carnivori.

E’ utile recuperare un classico b-movie come Piranha, soprattutto ora che iniziano a circolare con insistenza le immagini del suo secondo remake (il primo fu realizzato dal produttore Roger Corman nella metà degli anni Novanta), diretto da un Alexandre Aja ormai prigioniero della spietata logica dei rifacimenti. E’ utile perché aiuta a capire molte cose, la natura del talento e quali esigenze agitino il mercato e mi piace pensare che il recente The Hole chiuda un cerchio che il grande Joe Dante aveva iniziato qui, divertendosi a sperimentare i limiti e le possibilità della macchina-cinema.

I retroscena sono noti: Piranha nasce come tentativo cormaniano di porsi in coda all’enorme successo dello Squalo spielberghiano. Che già di per sé è un bel cortocircuito, perché è come se Corman volesse “riportare a casa” quello spirito exploitation che le major stavano iniziando a saccheggiare con la forza dei loro megabudget. Di per sé l’operazione è però interessante soprattutto perché si tratta del tipico caso in cui un regista è messo di fronte, con disarmante sincerità, al fatto che non può mentire. Il basso budget e l’intento meramente esploitativo, infatti, costringono ad adottare soluzioni molto precise e, soprattutto, a mantenere le promesse di emozioni “forti” fatte allo spettatore. Ciò è in particolare paradigmatico per il genere dell’animal horror (o eco-vengeance che dir si voglia), dove in realtà più di una volta si è trasgredito alla programmaticità dei titoli, basti pensare a casi come Frogs o Barracuda o Tintorera, dove l’animale eponimo è quasi del tutto assente nelle pellicole e le promesse di orrori apocalittici si stemperano nella noia di una narrazione immobile.

Joe Dante invece riesce a compiere un piccolo miracolo, rispettando a menadito la programmaticità dell’intento, senza però disperdere una cifra personale che invece emerge in modo molto chiaro, a dimostrare come il suo agire anarchico in realtà sia sempre andato di pari passo con una profonda conoscenza delle regole narrative e una altrettanto grande capacità di adattamento ai formati di volta in volta affrontati. Ecco dunque che Piranha riesce a rispettare le regole canoniche del filone in cui si situa, ma allo stesso tempo riflette la capacità dantesca di riecheggiare un immaginario più composito, dove riferimenti cinematografici e popolari si intrecciano e a volte si incarnano in determinati volti attoriali.

L’operazione è pertanto affine a quella di The Hole nella misura in cui si stempera in una mimesi che rende il film superficialmente indistinguibile da un qualsiasi prodotto exploitation, ma in realtà è attenta a veicolare un’idea di cinema personale. I volti iconici di Kevin McCarthy, Dick Miller e Barbara Steele (a onor del vero l’unica che appare sottoutilizzata) rimandano rispettivamente agli Ultracorpi siegeliani, al mentore Roger Corman e all’amato Mario Bava, come sintesi di una capacità di unire creatività e mezzi ridotti, ma anche come affinità ideologica a un’idea di fantastico vecchio stile che, di fatto, rende Piranha intimamente distante dalla parabola spielberghiana e invece più vicino ai classici film di invasione aliena degli anni Cinquanta, con la minaccia che attacca l’isolata cittadina e comporta l’intervento dei militari, spesso in realtà veri responsabili del disastro che ha creato il mostro.

Non si tratta comunque di un mero capriccio nostalgico: Dante e lo sceneggiatore John Sayles (che due anni dopo regalerà al filone un altro gioiellino come Alligator) comprendono infatti come questi omaggi inseriscano il film all’interno di un sistema di riferimenti che è sia cinefilo che socialmente critico: essi infatti creano l’immaginario ideale, ma allo stesso tempo stabiliscono come gli errori del passato continuino a tornare sotto nuove formule, e come dalla Guerra Fredda si sia passati al Vietnam ma con le ossessioni belliciste ancora intatte. Ecco dunque un videogame dedicato a Lo squalo, un cartoon con un pesce carnivoro, immagini e suggestioni che mantengono viva la forza del film anche laddove i piranha risultano fisicamente assenti e che spesso aprono letteralmente il progetto a svirgolature impreviste, come la bizzarra creatura in stop-motion che fa capolino nel laboratorio militare, autentico gesto di volontà autoriale e fantasy in un contesto estremamente realistico.

Pertanto il film riesce a contraddire i propri intenti superciali, senza però diventare mai auto-sabotaggio del genere. Al contrario l’arguto script affonda la storia in un’ironia “scorretta” che non abdica mai all’intento orrorifico, irride ogni forma d’autorità (in risposta all’eroe spielberghiano che era un poliziotto qui il protagonista è un burbero ubriacone), nega il catartico happy ending e non sfocia nella mera parodia: Dante anzi applica a perfezione una delle regole teorizzate da John Landis secondo la quale l’oggetto della satira deve avere successo e funzionare in sé.

Quando poi i pesci entrano davvero in azione la storia non perde colpi, ma diventa anzi puro artificio di regia, grazie a trucchi di montaggio che conferiscono grande ritmo all’azione (gli attacchi sono girati a otto fotogrammi al secondo per rendere la voracità dei piranha) e a sopperire alle mancanze tecniche di creature realizzate pure con professionalità e in grado perciò di apparire ripugnanti e feroci. Un classico che ha pienamente meritato il suo status!

Piranha
(id.)
Regia: Joe Dante
Sceneggiatura: John Sayles (soggetto di John Sayles e Richard Robinson)
Origine: Usa, 1978
Durata: 90’

lunedì 23 agosto 2010

Splice

Splice

Clive Nicoli ed Elsa Kast sono due giovani e ambiziosi ricercatori impiegati nell’ambito dell’ingegneria genetica. Impegnati nella ricerca di nuove forme di vita che possano fornire elementi utili a debellare alcune gravi malattie, i due danno vita a una misteriosa creatura che unisce DNA umano e animale. Nasce così Dren, con la quale Elsa instaura un ruolo quasi materno, mentre Clive sembra quello più consapevole dei limiti etici che l’esperimento ha inevitabilmente valicato, ma non riesce a opporsi alla compagna.

Si erano perse le tracce di Vincenzo Natali, rivelatosi ormai 13 anni fa con il sorprendente Cube e poi rimasto nel limbo dei non distribuiti finché l’estate 2010 ha portato al recupero di questo Splice, realizzato nel 2008 e poi curiosamente rimasto “congelato”. Un progetto ambizioso, la cui gestazione ha richiesto almeno un decennio e che è stato subito paragonato a certe opere del primo David Cronenberg, in realtà più che altro per rimarcarne i limiti, in ossequio a una fastidiosa tendenza critica.

In effetti l’eco cronenberghiana si avverte nel recupero di una cifra corporale che trova consistenza nella creatura attorno alla quale ruota l’intera vicenda, fatto che però rischia di ricondurre tutto a un tardo cascame anni Ottanta, distante da un presente che, al contrario, continua invece a interiorizzare i traumi provocati da una ingegneria genetica che fa passi da gigante, senza però elaborarli più. In questo senso Dren costituisce sicuramente l’evoluzione di un modello che sin dai primi passi evolve la mostruosità insita nella placenta di Brood o nell’indimenticabile Mosca, per porsi come nuovo possibile approdo in grado di affascinare con la sua natura ora infantile, ora sensuale. Se, insomma, la dinamica interna alla coppia è sicuramente connotata secondo il caratteristico triangolo che chiama in causa dinamiche psicanalitiche, l’elemento di novità è costituito dal fatto che il gioco stavolta si allarga allo spettatore, in precedenza lasciato invece nella posizione dell’occhio raziocinante, unico capace di distinguere la mostruosità di quanto elaborato sullo schermo.

D’altra parte, e qui il parallelo con Cronenberg è ancora più calzante, il punto non sta tanto nel demonizzare la creazione quanto nel comprenderla all’interno di un quadro che chiama in causa l’evoluzione umana e le sue reazioni di fronte al “diverso”. In questo modo il triangolo Clive/Elsa/Dren diventa un quadrilatero che chiama in causa lo spettatore e ispessisce i termini di un rapporto già complesso per la capacità della storia di partire dal particolare per poi scavare nel passato dei protagonisti fino a intrecciare le proprie dinamiche con fobie dal sapore più universale. Ecco dunque che la storia lascia emergere sottotraccia una pulsione disgregante che riflette l’incomunicabilità fra i sessi: il rapporto fra Elsa e Clive, infatti, è connotato nel senso della totale incompiutezza, laddove lei sente mancarle un termine di paragone che possa realizzarla come donna e madre, ma anche come perpetuatrice delle dinamiche vessatrici di cui era stata vittima nell’infanzia. Il suo rapporto con Dren, dunque, evolve lungo le direttrici di amore/odio, attraverso la protezione della creatura, ma anche la sua punizione quando ella disubbidisce agli ordini che le vengono impartiti.

Clive, dal canto suo, stante la sua pretesa figura raziocinante all’interno della coppia (è l’elemento prudente del duo, quello che si pone degli interrogativi sull’esperimento in corso), è in realtà un elemento caratterizzato da profonda debolezza, incapace di resistere alle pulsioni eterodirette e diventa in tal modo succube tanto del decisionismo di Elsa quanto del fascino di Dren.

Natali dunque prosegue un percorso iniziato con Cube, che ponga i risultati più paradossali raggiungibili dalla tecnologia come punto di snodo per l’analisi dei meccanismi umani: i suoi protagonisti sono cavie in un labirinto che è entità vivente e agente di sensazioni e emozioni che incidono direttamente sulla psiche e sul corpo dei prigionieri. In questo senso Dren diventa naturalmente il personaggio più interessante del film, poiché, dopo aver fatto propria la problematicità dei suoi genitori di cui è stimolatrice e causa, rovescia poi i termini del rapporto ponendosi come seduttrice dell’uomo e inseminatrice della donna, adottando quindi un ruolo di primo piano che ne sancisca la natura di specie che intende legittimare la propria essenza.

Tutto questo naturalmente porta a completamento la sua definizione e rende pertinenti le sensazioni ambivalenti suscitate nello spettatore, affascinato dalla sua sensualità, ma anche spiazzato dalla violenza di certe sue azioni, che equivalgono ai suoi cambiamenti nel corso della storia. Figurativamente Dren diventa quindi una sorta di punto di contatto fra le mostruosità cronenberghiane (ma nel mucchio andrebbe inserito anche lo pseudopode del bellissimo Possession, di Andrzej Zulawski), la Creatura di Jeepers Creepers e quel certo tono algido e affascinante tipico dei Precog di Minority Report: tutti film che, chi più chi meno, intrecciano non a caso pure temi personali, riflessioni sui confini fra etica e progresso, e pulsioni fisiche che si riflettono nei traumi dei protagonisti.

Un esempio di fantascienza virtuosa, insomma, ben sorretta da una fotografia metallica e da una prevalenza d’interni che favorisce l’immedesimazione e le dinamiche narrative del dramma da camera. Nota di merito infine per il cast, che annovera il sempre più versatile Adrien Brody, la sempre ottima Sarah Polley (in grado di trasmettere bene il passaggio dalla fragilità alla nevrosi) e, naturalmente, l’eccellente Delphine Chanéac, che non soccombe al makeup e ai doppi digitali per dare invece piena vita al personaggio di Dren.

Splice
(id.)
Regia: Vincenzo Natali
Sceneggiatura: Vincenzo Natali, Antoinette Terry Bryant, Doug Taylor
Origine: Canada/Francia, 2008
Durata: 104’

domenica 8 agosto 2010

Stagione cinematografica 2009/2010

Stagione cinematografica 2009/2010

Strana stagione questa che vado a chiudere con il consueto “riepilogo”, con un bel sussulto d’orgoglio nel silenzio di luglio, che ha visto sfilare sugli schermi ottime quanto poco pubblicizzate pellicole (Solomon Kane, The Box) e che sembra voler proseguire il trend nella ripresa d’agosto (già visto l’interessante Pandorum e il bellissimo Il rifugio di Ozon che arriverà a fine mese). La discontinuità nella proposta in sala è andata di pari passo con una certa sensazione inerziale, dovuta in realtà più che altro al fatto che è stata una stagione di conferme più che di scoperte.

D’altronde non poteva essere diversamente, considerando che già programmaticamente il picco sarebbe stato costituito dal ritorno più atteso, quello di James Cameron che ha dominato l’inizio anno con il suo strepitoso Avatar. E poi Herzog, Romero, Eastwood, Mann, Coppola fino alla Pixar che ormai non la prende più nessuno e a quei titoli visti, ma rimasti sfortunatamente fuori dal computo e che conto di recuperare prossimamente, primi fra tutti il grandissimo Polanski de L’uomo nell’ombra e lo Scorsese di Shutter Island, fra le sue opere migliori da molto tempo a questa parte. Quando troveranno anche loro posto nel Nido saranno come sempre aggiunti all’elenco sottostante, che ricordo essere non una classifica (che qui non piacciono), ma un semplice riepilogo alfabetico per ricostruire il percorso di suggestioni, visioni, emozioni che hanno caratterizzato quest’annata.

Chi invece assesta due bei colpi inaspettati è il sonnolento cinema italiano, che ci regala il miglior Virzì di sempre e l’irresistibile esperienza di Basilicata Coast to Coast (in attesa di rivedere/ristudiare Shadow al riparo dalle noiose polemiche che ne hanno accompagnato l’uscita). Per il resto cinema spettacolare americano in evidente affanno, con la trappola del 3D diventata troppo facilmente un escamotage per rendere appetibile ciò che resta comunque indigesto (basti pensare al vergognoso remake di Scontro di titani) e con il quale si dovrà continuare a riflettere, considerando il modo del tutto sconsiderato con cui ci si preoccupa di inserirlo nelle pellicole senza realmente riflettere su quanto la sua presenza costituisca davvero un valore aggiunto. La stagione che va a iniziare sarà un interessante banco di prova a proposito, visti i molti titoli annunciati e soprattutto l’ibridazione con il cinecomic, genere che forse più di ogni altro potrà offrire interessanti prospettive, in un confronto serrato con la bidimensionalità dell’origine disegnata. Ci sarà tempo per ritornarci su.

Ora l’inevitabile pausa-riposo e poi si riprende a fine agosto!

sabato 7 agosto 2010

The Box, di Richard Kelly

The Box, di Richard Kelly

1976. La vita di Norma e Arthur Lewis è resa difficile dalla crisi economica e dalle occasioni mancate che la vita mette loro di fronte. Un giorno, alla porta di casa, si presenta però Arlington Steward, un uomo orribilmente sfigurato, che consegna a Norma una scatola con un meccanismo a pulsante e la promessa di regalarle un milione di dollari se lo premerà entro ventiquattro ore. Se il meccanismo sarà però attivato una persona a lei ignota morirà. Norma e Arthur sono increduli e confusi di fronte a quella strana opportunità e alle implicazioni morali che essa comporta, ma anche di fronte alla possibilità che possa trattarsi di uno scherzo. Ma infine Norma decide di premere il pulsante.

C’era molta attesa per il ritorno di Richard Kelly, e chiariamo subito che da queste parti la possibilità ch’egli possa o meno ripetere l’exploit di Donnie Darko è argomento di nessun interesse, soprattutto a fronte dell’ottima fattura di questa sua nuova opera, che conferma un talento curioso e intelligente. E’ ancora presto per potersi lanciare in previsioni certe, ma è stimolante pensare che probabilmente Kelly sia oggi uno dei pochi registi capaci di far compiere al citazionismo un ulteriore passo in avanti lungo la strada che lo porterà a diventare linguaggio cinematografico compiuto, sganciandolo dal semplice meccanismo autoreferenziale della riconoscibilità (o dell’ammiccamento) che si innesca con lo spettatore. Al contrario, Kelly ripesca schegge di immaginario multiforme perché le considera elementi qualificanti di un discorso filmico (visivo e tematico) capace di stimolare nello spettatore sensazioni e riflessioni ben definite.
 
Ecco dunque che The Box cerca sì una filiazione netta dalla serie Ai confini della realtà che già aveva sfruttato lo stesso racconto originale di Richard Matheson, ma soprattutto da certa fantascienza fra gli anni Cinquanta e Settanta, situata cioè in un’epoca di incertezze e ancora distante dal positivismo spielberghiano: lo fa per dare corpo alla propria parabola ossessiva, capace per questo di rendere qualificante sia il suo discorso morale sui limiti dell’altruismo umano che il clima perturbante e claustrofobico degli interni in cui la storia spesso si svolge. Non a caso la splendida regia unisce le atmosfere sci-fi con un tocco che guarda alla compattezza thriller di Alfred Hitchcock e a quella sensazione di algida perfezione che era propria di Stanley Kubrick. Morbidi carrelli esplorano lo spazio dell’azione regalando una sensazione di bellezza formale che non diviene fine a se stessa proprio perché sfrutta il citazionismo come veicolo di relazione con la memoria dello spettatore cinefilo.
 
D’altra parte ci pensano poi i rimandi alla terribile crisi economica di fine anni Settanta a calare la storia nella nostra contemporaneità (anche se l’idea è antecedente ai recenti eventi finanziari) e a porre lo spettatore di fronte all’evidenza di una realtà che cede all’egoismo soprattutto in virtù della necessità di far fronte alla direttrice economicista che condiziona ogni rapporto umano. In questo senso la paranoia del racconto viene coniugata lungo una direttrice che tenda a lasciare i coniugi Lewis in una perenne situazione di incertezza, ondeggianti fra estremi che i due non sono capaci di codificare. Norma e Arthur, a conti fatti, si trovano nella medesima situazione del figlio Walter quando viene privato dei sensi principali e deve annaspare in cerca della salvezza. E’ il tema della scelta che lo spettrale Mr. Steward pone al centro del racconto attraverso il suo perverso meccanismo a pulsante, valutazione cinica del valore del proprio senso morale, che non ammette spiegazioni e affida al caso e alle valutazioni istintive la propria soluzione. L’ironia macabra insita nello scherzo omicida (che si può sicuramente ascrivere all’amore per il paradosso caro a Matheson) costituisce un geniale contrappunto all’idiozia di un mondo basato su regole burocratiche ed economiche che possono facilmente decidere del destino di un nucleo familiare senza lasciare possibilità d’azione a personaggi non a caso destinati a una mutilazione che è fisica ma anche metaforica.
 
Steward, dunque, non fa altro che lasciar deflagrare una tensione che è già latente nel corpo del racconto poiché fa appello a una condizione di congenita disgregazione sociale già in atto e chiama in causa lo spettatore attraverso la struttura del thriller, utile a guidare con mano chi guarda lungo gli intrecci di una storia che solo alla fine troverà la sua finitezza. La soluzione finale, che annoda i fili del racconto mostrando la concatenazione degli eventi messi in modo dal meccanismo di Steward, in realtà non è un semplice twist propedeutico alla sorpresa, ma più che altro la quadratura del cerchio di un discorso paranoico che la storia è riuscita abilmente a portare avanti. In questo senso un altro dei possibili nomi che è possibile chiamare in causa è David Lynch, acido cantore dei sentimenti nascosti in una realtà middle-class apparentemente rosea ma in cui serpeggiano invece pulsioni misteriose che il tono ossessivo riesce a portare allo scoperto, ponendosi a metà strada fra la fiaba e il racconto grottesco e surreale. In effetti ciò che più colpisce di The Box è proprio la sua straordinaria capacità di stare a in bilico fra la meraviglia evocata dalla bellezza della regia e dal matematismo della sceneggiatura e quella perenne sensazione di disagio che la componente umana mette in campo e riesce a riflettere allo spettatore. Merito in questo senso anche di una straordinaria composizione del cast, con una Cameron Diaz che riesce ad apparire fragile e nello stesso tempo profondamente umana, perfetta contrapposizione all’eleganza formale del sempre grande Frank Langella.

The Box – C’è un regalo per te
(The Box)
Regia e sceneggiatura: Richard Kelly (dal racconto Button, Button di Richard Matheson)
Origine: Usa, 2009
Durata: 115’

giovedì 5 agosto 2010

Basilicata Coast to Coast

Basilicata Coast to Coast

Nicola Palmieri è un professore di matematica di Maratea che decide di partecipare insieme ad alcuni amici al festival musicale di Scanzano Jonico. Per rendere il senso dell’impresa, il gruppo decide di percorrere a piedi la distanza che li separa dal luogo della manifestazione, regalandosi in tal modo una dieci giorni fra il Mar Tirreno e il Mar Jonio. Durante il viaggio affiorano problemi personali, nascono e si disfano nuovi amori e si risolvono vecchie questioni rimaste in sospeso. Il tutto sullo scenario caratteristico fornito dalle cittadine della Basilicata.

Negli ultimi anni abbiamo assistito a una sorta di filone cinematografico “meridionalista”, volto ad esplorare le contraddizioni e i meriti del Mezzogiorno d’Italia, attraverso storie eterogenee, spesso purtroppo in odore di pietismo, che nei casi più virtuosi (pensiamo a certe opere di Sergio Rubini) riuscivano a far esplodere quel coacervo di sentimenti contrapposti fra una realtà che appare immobilizzata in un eterno passato e le nuove spinte che provengono dai sogni di chi ha deciso di non andarsene e vivere appieno il rapporto con la propria terra. E’ interessante notare come in effetti proprio la Basilicata fosse rimasta fuori da questo fermento, schiacciata com’è fra le realtà della Puglia, della Campania e, perché no, anche della Sicilia.

Ci ha dunque pensato Rocco Papaleo, realizzando questo bel film che si pone a metà strada fra la formula, cara al recente cinema italiano, del road-movie e certe svirgolature ironico-surreali tipiche del miglior circuito indipendente. Già il casting viene a dichiarare gli intenti se, fra l’allure statuario/divistico di Alessandro Gassman e la vena timido/malinconica di Paolo Briguglia, trovano posto anche le presenze altere dello stesso Papaleo, dallo sguardo perennemente spiritato, e del lieve Max Gazzé privato della parola e che si inventa una sorta di figura fra Chaplin e Harpo Marx. Si tratta quindi di stare fra la terra e il cielo, lungo un percorso che ha chiaramente finalità esplorative dello spazio lucano (ritratto con affetto, sincera devozione e una punta di malizia propagandistica) ma che diventa, più in generale, una riflessione sullo stato dell’essere sospesi in un non-tempo e non-luogo. In effetti, il merito di una storia che chiaramente affronta molti passaggi sul filo dell’improvvisazione e della “semplice” complicità che esiste fra i personaggi (gli attori sono tutti amici di vecchia data), sta tutto nel riuscire ad armonizzare le storie personali nel contesto dei luoghi.

La contrapposizione dunque fra la modernità incarnata dal “divo” Rocco Santamaria (Gassman) e i sogni mai avveratisi dei vari Nicola (Papaleo), Salvatore (Briguglia), fino all’estremo del trauma che ha colpito Franco (Gazzé) si ritrova tutto nei sentimenti che evoca lo scenario lucano. Papaleo gioca infatti le sue carte giustapponendo passaggi in cui la modernità trascolora bruscamente, ma in modo anche affascinante nella tradizione e così le pale eoliche, la diga, il pannello solare che accompagna come presenza surreale il viaggio dei quattro, finiscono per unirsi alla processione cattolica, alle feste di paese, fino alla bella rievocazione storica dell’esilio di Carlo Levi. La meraviglia evocata da questi contrasti si sposa quindi alla contrapposizione di essere figli di una armonizzazione non pienamente riuscita di tempi diversi. D’altronde, come giustamente ricorda Santamaria, “ormai tutto è contaminato” e il film fa sua questa direttrice unendo finzione scenica (i numeri musicali in cui a tratti i protagonisti si rivolgono direttamente allo spettatore) e excursus “turistici”, dove l’arma del film-cartolina viene abilmente aggirata attraverso l’espediente del backstage portato avanti dalla giornalista Tropea, interpretata da Giovanna Mezzogiorno.

“Se ci credi è vero”: è proprio Tropea a pronunciare queste parole, in uno dei passaggi più significativi del film e il suo racconto va collegato alla voce fuoricampo dello stesso Papaleo, che nell’incipit, si erge al ruolo divino per riportare al centro della scena quella Basilicata assente dalla carta geografica, perché luogo dimenticato, in perenne fuoricampo. Il fuoricampo, o meglio l’incapacità di essere al centro della propria vita è in effetti la figura retorica che meglio sintetizza il percorso dei quattro amici, che sembrano trovare la propria dimensione unicamente nei momenti in cui imbracciano i loro strumenti musicali e intonano le loro canzoni usandole come dichiarazioni d’amore, esaltazione dei piaceri (il sesso, il cibo) o come dichiarazione d’intenti rispetto alla vita che vorrebbero.

Perché in effetti i quattro “perdenti” riescono a ribaltare il loro status, non di fronte al mondo né alla realtà che attraversano (eccezion fatta per la trionfale esibizione nella festa di paese), ma rispetto a se stessi e al proprio microcosmo, dove l’unico spettatore possibile è la moglie di Nicola, l’unica che non a caso conosce le debolezze umane del protagonista e la sua incapacità di portare a termine qualcosa.

Il finale è dunque dolceamaro perché, sebbene apra nuove speranze a chi decide di riprendere gli studi o di terminare l’effimera ricerca del successo, non implica necessariamente un approdo sicuro, ma soltanto il riallineamento a una realtà sospesa come è quella di una Basilicata in cui ancora resiste la forza arcaica del passato. Non a caso la conclusione è affidata a una storia d’amore che sembra sul punto di rompersi e non è dato sapere se sarà realmente portata a termine.

Cosa resta dunque del divertente viaggio dei quattro perdenti? La consapevolezza dell’essere parte di una zona di mezzo, quella in cui il sogno si avvera solo parzialmente, come una notte d’amore rubata in tenda fra sconosciuti prima del matrimonio, o come, più semplicemente, quel Sud che aspetta le sue occasioni e vede intanto la vita scivolare via.

Basilicata Coast to Coast
Regia: Rocco Papaleo
Sceneggiatura: Rocco Papaleo, Walter Lupo
Origine: Italia, 2010
Durata: 107’

mercoledì 4 agosto 2010

Predators

Predators

Alcuni uomini si ritrovano misteriosamente su un altro pianeta: sono mercenari, assassini, trafficanti, soldati. L’unica eccezione alla composizione del gruppo è un giovane medico. Non sanno chi li ha portati lì, ma capiscono ben presto di essere preda di una razza di cacciatori extraterrestri, per i quali il pianeta è una riserva dove praticare il loro sport preferito. Nel gruppo si distingue Royce, che ha le capacità del leader, ma non è minimamente intenzionato a legare con i suoi improvvisati compagni. A lui si oppone la coraggiosa Isabelle, che invece predica l’importanza del rimanere uniti di fronte al pericolo.

Solo una lettera separa questo nuovo sequel dall’originale Predator, diretto nel 1987 da John McTiernan. E riesce a fare la differenza nella misura in cui marca la vicinanza e, nello stesso tempo, il ribaltamento prospettico rispetto al capostipite, attraverso un’operazione che vanta la supervisione del “nume tutelare” Robert Rodriguez e la regia del bravo artigiano Nimrod Antal.

Se, infatti, il titolo del primo Predator non lasciava dubbio alcuno su chi fosse l’intestatario dello stesso (il cacciatore alieno), qui il plurale chiamato in causa dalla “s” riconduce il ruolo del predatore non soltanto agli extraterrestri, che in ossequio ai tempi fanno sfoggio di look differenti e introducono anche alcune fiere del loro pianeta natale: predatori sono infatti anche gli uomini scelti per il gioco al massacro, secondo uno schema che comunque è coerente con quello del capostipite, dove a cadere nella trappola del mostro erano dei mercenari.

L’aspetto più innovativo del classico di McTiernan stava naturalmente nella sua capacità di mettere i protagonisti e in particolare il Dutch di Arnold Schwarzenegger di fronte alla consapevolezza del loro essere fondamentalmente degli archetipi di bestialità. Il film, infatti, procedeva attraverso una progressiva de-civilizzazione del guerriero super accessoriato per ricondurlo alla matrice di quel comportamento animalesco che lo poneva sulla stessa lunghezza d’onda del cacciatore alieno. La parte finale, dunque, affondava in un magistrale primitivismo che sembrava guardare più a John Milius che al Rambo di Stallone (sull’argomento potrà essere interessante tornare in futuro).

Questi presupposti vengono rovesciati con intelligenza nel nuovo film, che si pone dunque in prospettiva critica rispetto a un capostipite invocato come unico referente. Sebbene nulla ci impedisca infatti di considerare anche il Predator 2 di Stephen Hopkins e i due Alien vs Predator come parte della saga, è comunque evidente come la storia chiami in causa soltanto l’originale, secondo una formula che abbiamo già imparato a conoscere (pensiamo ad Halloween: 20 anni dopo, che si ricollega ai primi due film della serie saltando i capitoli intermedi).

Anche in questo caso, dunque, abbiamo un gruppo di combattenti nella giungla e un protagonista che, in particolare, fa suo il senso del racconto attraverso una progressione narrativa che diventa percorso di riconsiderazione e consapevolezza del proprio ruolo di eroe. Si rovescia in questo caso l’assunto originale: laddove il Dutch di Schwarzenegger ci teneva a rimarcare di non essere un assassino, ma un professionista della guerra che quindi eseguiva un lavoro con la sua squadra, qui Royce è consapevole di come il “mestiere” del mercenario lo abbia portato nel tempo a praticare l’omicidio con sottile piacere, tanto da renderlo refrattario a ogni rapporto umano. La sua tendenza isolazionista è rimarcata dal serrato confronto con Isabelle, che invece sembra incarnare quella propensione alla necessità di fare il proprio sporco lavoro che era di Dutch (e non a caso è lei a rievocare i fatti di quella storia).

Pertanto, se Dutch doveva infine soccombere alla consapevolezza di essere un corpo dispensatore di morte, qui Royce compie un percorso inverso, arrivando infine a sviluppare empatia per i compagni, che aiuterà infine a salvarsi dalle trappole degli alieni. Royce, dunque, attraverso il confronto con una minaccia più grande di lui recupera la sua umanità.

A cambiare è anche il tono del racconto, che, nonostante alcune concessioni allo splatter, è comunque estremamente sobrio e non si preoccupa di eludere alcuni dettagli (chi ha trasportato gli umani su quel pianeta?) in nome del puro spettacolo. Ci troviamo insomma di fronte a un recupero della cifra estetica tipica dei B-movie, dove la mancanza di un sottotesto pure non implica un approccio comunque estremamente diretto e stringato alle regole della narrazione di genere. In virtù di tutto questo il gioco di ribaltamenti e citazioni che il film innesca non solo con il precursore, ma anche con altre saghe fantascientifiche diventa pienamente contestualizzato e coerente con le tendenze attuali. In particolare è il cast a funzionare secondo questa direttrice: Danny Trejo è infatti corpo iconico del cinema di Robert Rodriguez, così come Laurence Fishburne rimanda alla trilogia di Matrix e la sua astronave abbandonata sembra uno scampolo della saga “gemella” di Alien.

Su tutti svetta la scelta sicuramente anticonvenzionale (e ai limiti dei miscasting) del protagonista, un Adrien Brody che rovescia coraggiosamente la muscolarità ipertrofica dello Schwarzenegger originale apparendo come un derivato del Jack di King Kong. Aiutato (nella versione italiana) dallo strepitoso doppiaggio di Alberto Angrisano, Brody è davvero la variabile incontrollata che permette al film di stazionare su quella linea di confine (molto cara a Rodriguez) fra il kolossal di fine stagione e il b-movie estivo, rendendo possibile considerare questo Predators, al di là dei suoi meriti o demeriti, come un interessante esperimento di genere. In attesa di vedere cosa ci riserverà il prossimo sequel, che promette di essere più ampio e spettacolare.

Predators
(id.)
Regia: Nimrod Antal
Sceneggiatura: Alex Litvak & Michael Finch (basata su personaggi creati da Jim e John Thomas)
Origine: Usa, 2010
Durata: 107’

lunedì 2 agosto 2010

Haeundae (Tidal Wave)

Haeundae (Tidal Wave)

Busan, Corea del Sud. Il distretto balneare di Haeundae è il teatro di numerose storie di personaggi differenti: Man-sik è innamorato della giovane Yeon-hee, ma è allo stesso tempo affranto dai sensi di colpa per non essere riuscito a impedire la morte del di lei padre durante una tempesta; il suo vicino Dong-choon è un tipo irascibile che peraltro condivide l’interesse per Yeon-hee; Hee-mi è invece una studentessa che, dopo essere caduta in mare, si innamora di Hyeong-sik, il guardacoste che l’ha salvata; Kim Hwi è infine uno scienziato che deve far fronte alle accuse della moglie che lo accusa di essere stato un marito e un padre assente, al punto da non voler rivelare la sua identità alla giovanissima figlia. Kim Hwi è però alle prese anche con un problema più grosso: alcune scosse di terremoto lasciano presagire l’arrivo di una gigantesca onda anomala, che rischia di scagliarsi con devastate potenza su Haeundae. Un simile evento non è però calcolabile con precisione assoluta e così le autorità prendono tempo rifiutando di dare seguito all’evacuazione dei civili.

Lo slittamento fra il nome della località (Haeundae) e l’evento catastrofico (Tidal Wave, ovvero “Onda anomala”) ravvisabile nei differenti titoli (quello originale e quello scelto per la distribuzione internazionale) marca la differenza di significato fra due diverse concezioni di cinema catastrofico. Se, infatti, l’Occidente preferisce concentrarsi sulla forza spettacolare del disastro provocato dallo tsunami, il regista e sceneggiatore Yoon Je-kyoon preferisce focalizzare la propria attenzione sul microcosmo di variegata umanità e sulle traiettorie amorose che uniscono fra loro i personaggi che si agitano sullo sfondo della (autentica) località balneare.
 
In ragione di questa differente prospettiva, non stupisce notare come Haeundae attui un autentico rovesciamento rispetto alla concezione di film catastrofico codificata da decenni, e renda le vicende personali non strumentali rispetto all’impatto provocato dall’evento disastroso, ma anzi le elevi a inedito territorio di sperimentazione linguistica: il disastro viene in questo modo a iscriversi in un più ampio panorama di sentimenti rendendo la struttura del film, pur tipica nella sua progressione, straordinariamente fresca e sorprendente.
 
E’ per questo motivo che le storie dei protagonisti non soltanto assorbono la maggior parte della durata (con il disastro concentrato soltanto nell’ultima parte), ma non contribuiscono a creare alcuna suspance, e accompagnano invece lo spettatore in un viaggio fra esperienze diverse dove l’ironia arriva a toccare punte di umorismo slapstick e i tormenti amorosi si accompagnano a problematiche personali che affondano tanto nei drammi del passato quanto nei problemi di un presente interessato unicamente al profitto.
 
Man-sik, che possiamo identificare come il protagonista di questo racconto corale, è infatti in bilico fra il senso di colpa per non essere riuscito a impedire la morte del padre di Yeon-hee, e i tentativi dello zio imprenditore di mandarlo via dal suo negozio per edificare nella zona un nuovo edificio. La dinamica, perfettamente ascrivibile alla dicotomia fra uomo e progresso che è matrice stessa del catastrofico (pensiamo alla tecnofobia e all’antimodernismo dei disaster-movie americani anni Settanta) rinnova in chiave moderna la tensione fra diverse concezioni del futuro che finisce per iscrivere l’umanità in una situazione di perenne incertezza. In questa situazione “di mezzo”, quindi, la realtà sembra attendere un evento più grande che porterà alla risoluzione di molte storie che si trascinano inerzialmente: non a caso tutti i personaggi coinvolti attraversano una fase di transizione, con situazioni personali (e spesso sentimentali) in sospeso, che possono costituire la chiave di volta per il completamento della propria vita e personalità. E’ il caso ad esempio di Hyeong-sik, tanto eroico sul posto di lavoro quanto goffo e indeciso quando è alle prese con le divertenti avances di Hee-mi.
 
La leggerezza ironica della prima parte viene naturalmente capovolta dall’evento disastroso, in un modo che serve a marcare sia l’appena citata necessità di un punto di svolta, sia la caducità della vita come momento che tende a sfuggire nella perenne stasi (il film fa riferimento in modo esplicito ai fatti del Sud-est asiatico del 2005): Yoon marca in maniera molto precisa lo stacco fra un “prima” e un “dopo”, attraverso la bella sequenza dei fuochi d’artificio, che vede tutti i protagonisti spettatori e che ritaglia un autentico momento di calma e meraviglia fra gli eventi solari ma concitati della prima parte e quelli travolgenti della seconda. Diventa in questo modo palese l’intento empatico che il regista tenta di stabilire con lo spettatore, ormai coinvolto negli eventi e pronto a ricevere l’impatto delle sequenze spettacolari in tutte le loro dirompenti implicazioni.
 
La seconda parte, quindi, lascia ampio spazio agli effetti speciali che, sebbene non all’altezza delle produzioni occidentali, risultano in ogni caso funzionali alla resa spettacolare e al completamento delle vicende umane che hanno intessuto il racconto. Anche in questo caso Yoon non rinuncia alla sperimentazione, giocando con le aspettative e posticipando o marcando all’improvviso la scomparsa di alcuni personaggi più o meno iconici, dimostrando anche in questo caso di avere ben chiare le direttive principali del catastrofico. D’altronde, per sovvertire le regole occorre conoscerle e Haeundae in questo senso si dimostra un progetto estremamente lucido. Il cambio netto di direzione impresso al racconto favorisce l’affondo pieno nel melodramma, che capovolge totalmente la levità della prima parte per lasciare lo spettatore attonito di fronte all’improvvisa piega degli eventi. La meraviglia e l’orrore per la forza dell’evento spettacolare si mescola così alla tensione drammatica, che contribuisce a rendere anche il finale del film un momento qualificante di un’opera che non si adagia sulla tradizione, ma sa invece porsi con essa in prospettiva critica, regalandoci un bell’esempio di kolossal intelligente e in grado di resistere allo scorrere dei titoli di coda.

Haundae/Tidal Wave
Regia e sceneggiatura: Yoon Je-kyoon
Origine: Corea del Sud, 2009
Durata: 103’