"C'è chi crede in dio o nel denaro. Io credo nel cinema, nel suo potere. L'ho scoperto da ragazzino, mi ha aiutato a fuggire da una realtà in cui ero infelice. È una delle forme d'arte più alte che l'uomo ha concepito. Credo nel suo futuro."
(John Carpenter)

martedì 31 maggio 2011

Armando Bandini: il volto dietro la voce

Armando Bandini: il volto dietro la voce

Un signore di mezza età corre trafelato per recarsi alle Poste. Sembra la cosa più facile del mondo, ma il caso vuole che quei pochi metri che separano casa sua dall'ufficio postale lo portino a incrociare conoscenti che non vedeva da tempo, costringendolo così a fermarsi e rendendo quel facile impegno una autentica avventura sul filo dei minuti prima della chiusura degli sportelli: a chi non è mai capitato in fondo? Mi piace ricordare Armando Bandini con questo sketch, che in realtà era uno spot pubblicitario: il ruolo era infatti quello di un cittadino qualunque che doveva correre a rinnovare l'abbonamento Rai. Roba di pochi anni fa, francamente non ricordo con precisione quando. Ma sicuramente ricordo il piacere di rivedere sullo schermo uno dei pochi e meno conosciuti caratteristi del nostro cinema, spesso ridotto a figura di contorno in pellicole come Don Camillo monsignore ma non troppo o Il mantenuto di Ugo Tognazzi.

Il fatto che sia questa l'immagine che per prima associo a Bandini non è casuale: evoca infatti due sentimenti opposti. Da un lato il talento dell'attore comico che riesce a imbastire una situazione divertente partendo da presupposti poco elaborati. Dall'altro la familiarità e il clima di quotidiana consuetudine evocato da una situazione-tipo come l'essere in ritardo a un appuntamento o il dover svolgere un compito mentre il tempo scorre troppo in fretta. Una situazione che, dunque, abbatte lo steccato fra l'attore e l'uomo qualunque e permette a una persona speciale (come era Bandini) di sviluppare quella mimesi che le permette di essere credibile nei panni del semplice cittadino.

Come hanno ricordato alcuni suoi colleghi, infatti, Armando Bandini aveva la vocazione del caratterista e, in contesti diversi, magari sarebbe riuscito a emergere con maggior forza: la sua particolare voce profonda ma al tempo stesso nasale era infatti l'ideale per colorare caratteri comici, unitamente alla sua figura minuta e allo sguardo sempre un po' spaesato capace di suscitare immediata simpatia nel pubblico. Una personalità in bilico, insomma, che dalla forza degli opposti traeva la sua ragione d'essere e il punto di forza.

Proprio la voce è rimasta comunque la sua arma vincente, al punto che a dargli maggiore notorietà presso il grande pubblico è stato alla fin fine il doppiaggio, dove aveva potuto mettere a frutto le caratteristiche di quel timbro così particolare, in accordo con la sua capacità di creare personaggi dal grande talento comico. Lo ricordiamo perciò come ultima voce del Barney de Gli antenati, come prima del Rigel di Goldrake, come controllore del Galaxy Express 999, fino al suo ultimo ruolo, quello di Mr. Piccolo in Porco Rosso di Hayao Miyazaki, che aveva interrotto una lunga assenza dal leggio delle sale doppiaggio.

Peraltro va ricordato come Bandini sia stato particolarmente attivo nei primi anni del cosiddetto “doppiaggio libero”, quando il mercato si aprì alla possibilità di utilizzare società “minori” e gli stessi attori non erano più vincolati ad essere soci delle maggiori cooperative. Ecco dunque che ritroviamo il nostro nei contesti più svariati, dal blockbuster Superman di Richard Donner al poverissimo Virus di Bruno Mattei, ai cartoon Disney, fino agli anime giapponesi, che all'epoca venivano importati e doppiati in fretta. Lo stesso peraltro si ritrova nella sua carriera cinematografica che, accanto ai nomi di Dino Risi o Alberto Lattuada, annovera anche partecipazioni in classici stracult come Giovannona Coscialunga o E' arrivato mio fratello.

Sintomo di un talento che si sprecava? In realtà no, perché a scorrere l'elenco delle sue partecipazioni (e dei suoi doppiaggi) ci si rende conto che non fu molto prolifico, non quanto la situazione di allora permettesse, e infatti resta storica una sua intervista in cui spiegava di aver anche rinunciato al doppiaggio di alcuni cartoni animati quando l'eco delle polemiche era diventata troppo forte. D'altra parte il mercato era quello che era e bisognava pur barcamenarsi e forse per questo negli ultimi anni il teatro era rimasto come la sua passione principale.

E così, in punta di piedi come sempre nella sua carriera, ci ha lasciato pochi giorni fa, tanto che la notizia della scomparsa si è diffusa in sordina. Spiace pensare che oggi lo dobbiamo ricordare in pochi. Ciao Armando.



lunedì 30 maggio 2011

Pom Poko

Pom Poko

Giappone, anni 60: l'urbanizzazione causata dal boom economico inizia a erodere gli spazi verdi intorno a quella che sta diventando la moderna Tokyo. Intere aree boschive e verdi vengono sventrate dagli escavatori per lasciar spazio alle case degli uomini e a farne le spese sono le creature che vivono fra gli alberi. Fra queste ci sono i tanuki, i cani procione giapponesi, che decidono di contrastare gli umani sfruttando l'antica arte della metamorfosi. Per far questo essi mettono da parte le lotte fra clan e si uniscono in un piano che però procede a fatica, fra l'impossibilità di fermare davvero l'urbanizzazione, i tentativi di far credere che le colline sono stregate (che si infrangono contro il cinismo dei cittadini) e le divergenze intestine sulla reale direzione verso cui far convergere le loro azioni.


L'idea che i tanuki possiedano l'arte della metamorfosi è profondamente radicata nella cultura e nel folklore giapponese e non stupisce che Isao Takahata, nel comporre questo suo sorprendente capolavoro, a tal punto la dia come dato inoppugnabile, da sfruttarla in senso espressivo: la capacità metamorfica dei cani procione, infatti, non è soltanto propedeutica alle svolte impresse alla narrazione attraverso la dicotomia umani/animali, ma serve a porre le due categorie sullo stesso piano (abbattendo le differenze fisiche) e a esprimere i vari stati d'animo dei personaggi. In questo senso si passa, senza alcuna soluzione di continuità, dalla forma animale a quella antropomorfa, transitando per stadi intermedi dove le sagome sono più indefinite: il tutto obbedisce ai sentimenti e alla relazione che in quel momento ogni tanuki intrattiene con l'ambiente circostante, e serve a ribadire lo stato di incertezza o di euforia o di inadeguatezza.

La scelta di modulare il tono del racconto sulla base della forza visiva legata alla capacità metamorfica dei tanuki, pone fin da subito Pom Poko come un inno fantastico al processo creativo connaturato a quell'animazione che ha sempre prediletto l'uso di animali “umanizzati”: tale scelta finisce così per rimarcare una cifra universale (e trasversale) che va oltre la caratterizzazione profondamente nipponica del racconto. E' infatti indubbio che lo spettatore occidentale possa sentirsi disorientato di fronte alla moltitudine di riferimenti che Takahata inserisce rispetto ai miti e alle tradizioni folkloristiche giapponesi (tanto che sarebbe consigliabile l'uso di appositi glossari integrativi alla visione), ma è pur vero che il linguaggio narrativo e visivo è comunque capace di raggiungere una dimensione universale perché pesca a piene mani dal reale e da sentimenti profondamente condivisi dal pubblico di ogni latitudine.

In questo senso Takahata rinnova una volta di più il suo piacere per una dicotomia che, nei fatti, preferisce evidenziare i punti di contatto piuttosto che quelli di differenza. Ecco dunque che la sua visione del fantastico non può mai prescindere dal reale: sebbene le continue visioni di cui è infarcito il film non nascondano un piacere quasi infantile della creazione per immagini, esse non sono mai disgiunte da uno sguardo molto lucido sulla Storia e la società nipponiche, al punto che la natura antropomorfa dei tanuki offre anche più di uno spunto satirico verso abitudini profondamente umane della società giapponese, in particolare per ciò che riguarda il rapporto con la memoria, la gerarchia e gli adulti. Qui si avvertono echi dell'indiscusso capolavoro dell'autore, il celebre Una tomba per le lucciole, dove pure l'ideale edenico incarnato da un'infanzia che cercava di rifuggire il rapporto con una realtà difficile, trovava la sua ragione d'essere proprio in rapporto alla stessa (che alla fine arrivava a vincere la sua partita).

Stavolta il gioco si fa ancora più sfumato, perché il regista non nasconde l'amarezza per la transizione verso un processo di urbanizzazione condotto in modo anche selvaggio, ma evita ogni tono inquisitorio verso ciò che inevitabilmente avverte come una deriva inevitabile, dei cui effetti si accorgono per primi gli stessi tanuki attraverso l'esperienza diretta: basti pensare non solo alle scene più esilaranti come quelle in cui li vediamo appassionarsi ai programmi televisivi, ma anche alla loro spiccata preferenza per gli edifici abbandonati dagli uomini ed eletti a loro rifugio. Il potere dei cani procione, di conseguenza, diventa non tanto un artificio magico disgiunto dal contesto, ma piuttosto un elemento che permette il ritorno a un immaginario condiviso dagli stessi umani, che non a caso sono tanto atterriti dalle presenze evocate dagli animali, quanto affascinate dalle stesse, perché le riconoscono come parte di un proprio bagaglio.

Prevale, anche nei cittadini del film, una sorta di gioia estatica per la cifra meravigliosa messa in campo dai tanuki e dallo stesso Takahata, in un gioco di rispecchiamenti che naturalmente include lo spettatore stesso. Non a caso, a prevalere fra il contrasto evidente di amarezza e dispiacere per il tempo passato e l'inevitabile durezza dello scontro che porterà al presente, è soprattutto il divertimento che passa per un ritmo narrativo sempre molto sostenuto, e per un tono mutevole e capace di illustrare una ampia gamma di emozioni, senza risparmiare chiaramente momenti più drammatici, ma in generale abbandonando il racconto a un piacere dell'essere messinscena di un disegno composito.

Pochi registi come Isao Takahata sono infatti in grado di riassumere in un'unica opera il piacere della narrazione e la gioia del vivere ogni emozione come patrimonio indissolubile del processo creativo, ed è questo a scatenare la commozione più sincera davanti alle sue opere e a rinnovare a ogni inquadratura la sorpresa e l'entusiasmo per la loro straordinaria ricchezza artistica e umana.

Realizzato nel 1994 e rimasto inedito per oltre 15 anni, Pom Poko è stato di recente recuperato e distribuito in DVD da Lucky Red, nell'ambito del suo prezioso progetto di riscoperta dell'opera dello Studio Ghibli. Imperdibile!


Pom Poko
(Heisei TanukiGassen Ponpoko)
Regia: Isao Takahata
Sceneggiatura: Isao Takahata, da un racconto di Kenji Miyazawa (idea di Hayao Miyazaki)
Origine: Giappone, 1994
Durata: 114'


giovedì 26 maggio 2011

Grattacieli e superuomini

Grattacieli e superuomini

Nella recensione di Thor scrivevo dell'interessante parallelismo che il fumetto originale Marvel pone in essere fra le realtà di Asgard e New York, in quanto entrambe esempio di luoghi dominati dal tema della verticalità. L'esempio in realtà non è isolato, e ci permette di comprendere come il concetto stesso di supereroe sia fondamentalmente legato alle dinamiche proprie dell'ambiente urbano, in cui tale mitologia prospera, dalla quale trae ampia parte della sua ragione d'essere e cui naturalmente rimanda in quanto specchio di quegli umori che si aggirano per le strade. In particolare non va trascurata quell'idea futurista di città in quanto agglomerato della particolare forma espressiva e architettonica che è il grattacielo.

Il volume scritto da Federico Pagello – e intitolato programmaticamente Grattacieli e superuomini – esplora proprio questo rapporto e si staglia come testo importante nel ribadire il concetto di reciproca dipendenza che interessa i due ambiti di analisi: ovvero quello del fumetto supereroistico americano e quello dello sviluppo urbano, esplorato attraverso le molteplici prospettive fornite dalla Storia, dai mutamenti sociali e, non ultima, dalla cultura e dall'arte. La simbiosi fra l'eroe mascherato e la metropoli, trova la sua più felice sintesi nell'immagine di copertina che propone una suggestiva sovrapposizione fra le linee del costume e della ragnatela dello Spider-Man di Sam Raimi, e le intersezioni tracciate dalle architetture dei palazzi: così come l'Uomo Ragno è esso stesso produttore di geometrie che ridisegnano lo spazio urbano e aiutano a definirlo meglio (attraverso la prospettiva offerta dall'alto dei palazzi stessi dove egli si arrampica con le sue tele/liane), così la toponomastica sembra favorire l'iconografia del suo costume, in una simbiosi difficilmente scindibile e dal chiaro significato metaforico.

Non a caso spesso la nascita stessa del supereroe è legata a un fatto tragico che esprime programmaticamente l'atmosfera della città: basti pensare al Batman che indossa la maschera da pipistrello in risposta al clima delinquenziale di quella che è conosciuta come Gotham City, città che dunque è deputata per eccellenza alla nascita di un'icona sì supereroistica ma attenta ai possibili sviluppi noir delle storie, destinate a trovare forma in alcune versioni peculiari del personaggio – e penso, prima ancora che a Tim Burton, alla splendida serie animata che da quel mirabile dittico derivò negli anni Novanta.

Il libro di Pagello, nell'intrattenere il lettore con una analisi comparata dei vari supereroi, insiste innanzitutto sullo studio della città New York, simbolo di una autentica (e tautologica) mitologia della società-spettacolo che esiste in quanto esibizione di se stessa e in quanto feticcio capace di trasfigurarsi in senso iconografico. La “Grande Mela” diventa così, prima ancora che una città, il paradigma autentico della metropoli del XX secolo, al punto da fungere come modello per la Metropolis di Fritz Lang, per alcune opere futuristiche e, attraverso il particolare look visivo dei Luna Park di Coney Island (sorta di ideale creazione avanguardista che rompe il buio della notte con la sua fantasmagoria di colori), per pittori come Joseph Stella o cineasti come J.S. Porter.

Non solo. New York funziona anche in quanto modello perfettamente immobile e fedele a se stesso, ma al contempo capace di produrre orientamenti difformi e di esplorare sapori differenti che forniscono spunti tra loro molto vari. Si passa pertanto dalla metropoli Gotica di Batman, a quella più solare di Super-Man, al modello romantico di Spider-Man che, nella trasposizione di Raimi, accentua questo aspetto eliminando quel clima di reciproca diffidenza fra la città e l'eroe dominante nei fumetti. A seguire troviamo poi la New York più viscerale di Daredevil, che deve esprimere il carattere nichilista e disperato dei noir di Frank Miller (purtroppo trattati con superficialità dalla trasposizione del 2003, nonostante il parere generoso di Pagello), fino alla “Città generica” dei Fantastici Quattro di Tim Story, dove il contesto urbano è relegato a sfondo di scarsa caratterizzazione.

L'aspetto più interessante dell'analisi condotta con scrupolo filologico da Pagello – la ricchezza delle fonti è palese, anche se tradisce un approccio eccessivamente accademico – sta nel suo porsi come lavoro trasversale alle varie epopee, ma anche ai vari linguaggi espressivi, tanto da esplorare l'evoluzione del concetto di supereroe lungo i fumetti, le serie televisive, i cortometraggi e i lunghi cinematografici dalle origini ai giorni nostri (si arriva fino ad Iron Man 2). Ma soprattutto l'autore è bravo a non delimitare con severità il suo ambito di analisi e per questo riesce a ricomprendere nel novero degli epigoni anche titoli normalmente non associati direttamente alla dicotomia pagina disegnata/pellicola cinematografica. E' il caso della Philadelphia di Unbreakable (per inciso il miglior cinefumetto di tutti i tempi, pur non essendo tratto da un comic), o – ancor più – della Città della trilogia di Matrix, saga di cui viene ribadita la centralità e l'importanza fondamentale nell'immaginario urbano e cinefumettistico contemporaneo, con buona pace di chi ha preferito accantonarla troppo in fretta.

Grattacieli e superuomini
Scritto da Federico Pagello
248 pagine, 16 euro
Le Mani editore

martedì 24 maggio 2011

Essere Nicolas Winding Refn

Essere Nicolas Winding Refn

Come è noto, da queste parti siamo guardinghi circa il reale valore dei premi (spesso frutto di troppi compromessi e non esenti da valutazioni errate), ma è chiaro che se a goderne è una personalità amata si esulta con piacere. E' dunque con grande soddisfazione che plaudo al premio alla regia attribuito dalla giuria del Festival di Cannes 2011 a Nicolas Winding Refn per il suo nuovo e già attesissimo Drive. Un premio importante, perché permette al regista danese di riscattarsi dalla prima, sfortunata, avventura hollywoodiana di Fear X (peraltro ottimo), ma anche di ottenere la giusta legittimazione dopo essere stato per anni un paladino della cinefilia più nascosta. Ora che timidamente i suoi lavori stanno iniziando anche ad arrivare nel nostro paese (anche se in edizioni DVD spesso povere o mancanti della lingua originale) si può iniziare a ragionare a dovere su una delle figure più interessanti in circolazione. A tal proposito ripropongo qui un articolo che avevo scritto nel 2009 per la rivista “Il Ragazzo Selvaggio”, in occasione della bella retrospettiva che il Torino Film Festival aveva dedicato a Refn: un momento che oggi si staglia come il primo segno tangibile dell'attenzione tributata dagli addetti all'opera di questo autore.


Il cinema come arte violenta: Omaggio a Nicolas Winding Refn

A vederlo con quell’aria allampanata, di chi è capitato lì per caso, riesce difficile credere che sia il regista di film celebri per la loro durezza come i tre Pusher, Bleeder o l’ultimo Valhalla Rising. In realtà Nicolas Winding Refn è un esempio perfetto di autore che non cerca la consacrazione in virtù di un presunto qual maledettismo chic: al contrario è un artista convinto di poter affrontare ogni tipo di genere, ma avendo sempre in mente che il cinema è un’arte violenta. Ovvero un’arte orientata a suscitare sensazioni forti nello spettatore.

Inquadrata sotto questa prospettiva, la sua produzione (8 film dal 1996 a oggi) assume una coerenza stilistica e tematica degna di iscriverlo fra gli autori significativi del cinema contemporaneo: certo, chi è aduso a valutare i film con il metro da sarto, misurando unicamente i centimetri di pelle esposta e il sangue versato potrà magari aggrottare la fronte, giacché non siamo di fronte a un sensazionalista. Al contrario, la violenza che permea i film di Refn, sebbene spesso palese, è soprattutto intima, proviene da anime tormentate e ossessive, che attraversano la realtà circostante mettendo in scena una sorta di eterna tragedia del vivere che si concretizza in una naturale propensione alla sconfitta.

Il genere di riferimento diventa pertanto il noir, quello dei tre Pusher, che seguono coordinate narrative non lineari attraverso tre storie di piccoli spacciatori alle prese con i problemi del “mestiere” (procacciarsi il denaro per pagare la “roba”, portare a segno piccoli o grandi reati), ma anche con le frustrazioni e gli imprevisti della vita quotidiana: i litigi con la compagna, la nascita inaspettata di un figlio, fino alla necessità di disintossicarsi per offrire una prospettiva alla propria famiglia, salvo sprofondare ancora di più nel baratro determinato da una criminalità che affastella nuove generazioni ancora più incanaglite delle precedenti. L’affondo finale ovviamente è in un sangue che ha ben poco di catartico e scava in profondità nelle maglie di una Copenaghen trasformata in un girone infernale attraverso l’uso espressionista e “sparato” dei rossi, una costante stilistica del cinema di Refn con le sue dissolvenze color sangue.

Certo, a scorrere cronologicamente la sua produzione si nota che l’ossequio delle regole di genere, quelle che con il primo Pusher avevano fatto parlare di uno “Scorsese della Danimarca”, diventa ben presto un limite: l’ambizione è più profonda e si estrinseca in opere più sottili e stilisticamente ricercate come l’ottimo Fear X, interpretato da un John Turturro sottotono e volutamente spaesato, che appare come una trasfigurazione dello stesso Refn. Un film che peraltro indaga anche i limiti della visione attraverso la scomposizione di una realtà, scrutata attraverso i nastri registrati dalle telecamere di un centro commerciale dove è stato commesso un omicidio. Perché Refn, non va dimenticato, è autore comunque consapevole delle potenzialità insite nel meccanismo cinematografico: la cinefilia è dunque un altro dei suoi tratti fondamentali, ma non diventa mai semplice citazionismo, quanto elemento utile a riflettere i limiti e le caratteristiche dei suoi protagonisti, per elevarli a un livello mitico.

Con Valhalla Rising, quindi, Refn raggiunge la sua maturità stilistica, trovando ancora una volta nel volto scolpito dello straordinario attore feticcio Mads Mikkelsen la chiave interpretativa della sua arte: in questo caso un viaggio metafisico nei recessi della mente umana, raccontata però con un piglio epico degno delle grandi epopee hyboriane. Il viaggio del guerriero One Eye diventa così un’ipnotica odissea che un gruppo di crociati intraprende lungo splendidi scenari nordici, passando in rassegna gli elementi tipici del cinema di Refn: la violenza come elemento qualificante del vivere, ma anche la perdizione come approdo finale e unico reinizio possibile.



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giovedì 19 maggio 2011

13 assassini

13 assassini

Giappone, epoca feudale. Un samurai si toglie la vita praticando il seppuku, in segno di protesta alle offese ricevute dal crudele Naritsugu, fratellastro dello Shogun. Naritsugu è destinato a succedere ben presto al signore di quelle terre e la sua natura instabile e violenta lo candida seriamente a diventare un rischio per la pace. Il valoroso samurai Shinzaemon Shimada viene quindi incaricato di comporre una squadra per eliminare Nartisugu. Il gruppo di 13 assassini viene così formato e sebbene la sua missione si concretizzi come un vero suicidio per l'ingente numero di truppe disposte a difendere Naritsugu, nessuno decide di tirarsi indietro.


Il rigore formale incarnato dal rituale del seppuku, dal quale il film prende le mosse, trova un perfetto controcanto nella regia di un Takashi Miike deciso ad agire con piglio rispettoso nei confronti dei suoi personaggi e del classico in bianco e nero di cui questo 13 assassini costituisce un eccellente remake. La costruzione della storia è quindi lineare e segue il formarsi del gruppo fino all'esplodere della battaglia finale (che occupa l'intera seconda parte del racconto). Così come il gesto estremo del darsi la morte arriva a interrompere e, nello stesso tempo, a definire la nettezza e l'asciuttezza dei gesti che compongono il rituale suicida, allo stesso modo il film procede attraverso una prima parte quasi geometrica nella precisione della messinscena. Abbandonato ogni orpello visivo, Miike va dritto alla sostanza dei sentimenti, costruendo l'intero racconto secondo una serie di dicotomie immediatamente percepibili.

Abbiamo dunque la staticità della prima parte contrapposta al dinamismo della seconda e la brutalità immotivata di Naritsugu che si scontra con la fierezza dei valori perseguiti dai samurai. Allo stesso tempo, però, possiamo anche chiamare in causa l'intera struttura narrativa come un ideale controcampo al già citato seppuku, in quanto momento di sostanziale ribellione alla fissità dei ruoli imposti da una tradizione che assolve il Signore dalle sue malefatte in virtù del ruolo che egli ricopre e spinge gli uomini d'onore a cercare di ricomporre la propria integrità unicamente nel suicidio. La segretezza della missione diventa quindi non soltanto una mossa politicamente strategica e propedeutica al mantenimento di quella pace che Naritsugu minaccia con la sua sola presenza, ma anche un gesto di ribellione, per la riaffermazione di una volontà e un ordine che arrivino a lasciar implodere il sistema attaccandone la sommità. Non a caso il titolo del film è esplicito a riguardo: i 13 incaricati dell'omicidio non sono eroi al servizio di un ideale più alto, ma semplicemente degli assassini. L'icasticità della loro definizione ne circoscrive le gesta in un perimetro profondamente umano, prima ancora che ideale o storico-politico.

Ciò che infatti sotterraneamente Miike compie è una ridefinizione dei parametri, per effetto dei quali non soltanto il Signore diventa il “cattivo” da abbattere e gli assassini si stagliano nel ruolo degli eroi, ma addirittura sono i concetti più alti di etica e pietas a essere sovvertiti. Naritsugu è, più che un villain classicamente inteso un agente del Caos, che finisce con il determinare come naturale il bagno di sangue del finale. Lo stesso bagno di sangue, però, è conseguenza inscindibile dalla missione cui si sono votati i 13 e costituisce al tempo stesso una concretazione del loro spirito guerriero e una rigenerazione vitale dell'ordine attraverso l'eliminazione del Caos attraverso lo stesso.

Ciò che dunque il film mette in scena è, esattamente come il seppuku iniziale, un percorso che giunge al Caos per impedire lo stesso e che, conseguentemente, trova la sua definizione e la sua costruzione nella distruzione. Ciò che il regista persegue è evidente: egli constata come la follia governi il mondo (con particolare accenno polemico a chi detiene le redini del sistema) e come ad essa debba contrapporsi una forza altrettanto devastante e violenta quale è quella della solidarietà. Seguendo una direttrice quasi miliusiana, Miike empatizza con i suoi assassini e ne celebra le gesta esaltandone lo spirito di coesione e di reciproca solidarietà, e la volontà sucida come un ideale di bellezza e di amore che li pone come angeli caduti di un sistema votato alla rovina.

Il lungo massacro finale diventa così non soltanto il momento in cui questi sentimenti trovano la loro più alta celebrazione, ma anche quello che permette alla nobiltà del modello di fondersi con lo sguardo anarchico del regista: la coreografia di corpi smembrati e fendenti di spada descrive traiettorie che ridisegnano lo spazio scenico come autentico luogo di messinscena della distruzione, secondo una direttrice che è sì lirica, ma anche profondamente libera e che diventa autentico sabotaggio della visione. Si crea così una sintesi felice fra la caratura epica del racconto e un gusto quasi demistificatorio che rende il tutto astratto e ai limiti del cartoonesco (pensiamo alla autentica cascata di sangue che invade il set), pur senza mai far venire meno la fierezza dei combattenti (le cui gesta strappano applausi a scena aperta!).

Miike compie dunque con scaltrezza un doppio passaggio: celebra gli elementi cari alla storia, ma esplora le possibilità offerte da una scena complicata come quella della battaglia, beandosi del sensazionalismo della violenza, e trovando così la sua compostezza formale nel caos del massacro. Come in molte altre sue pellicole, insomma, l'anarchia visionaria e compositiva si sposa con uno sguardo che, seppur divertito, non nasconde una certa malinconia di fondo per un eden perduto che solo nel caos apparente può tornare a brillare. In sala dal 10 giugno.


13 assassini
(Jûsan-nin no shikaku/13 assassins)
Regia: Takashi Miike
Sceneggiatura: Daisuke Tengan, basata sullo script originale di Kaneo Ikegami
Origine: Giappone, 2010
Durata: 126 minuti

lunedì 16 maggio 2011

I misteri di Lisbona

I misteri di Lisbona

XIX secolo. Il giovane Pietro Da Silva cresce in un orfanotrofio, sotto l'attenta guida di Padre Dinis. E' proprio lui, un giorno, a raccontargli la verità su sua madre, ancora viva, ma prigioniera del marito. I due riescono a liberare la donna, ma altri personaggi si affacceranno ben presto sulla scena, rivelando inattesi legami con la vita di Pietro, e coinvolgendo anche il passato di Padre Dinis, quando ancora non vestiva la tonaca e la sua condotta era molto diversa. Lungo un arco di tempo di molti anni, fra il Portogallo, la Francia e il Brasile, le fitte trame del destino si compiono, rivelando i segreti dei vari personaggi.


Trasportate dal flusso incessante degli eventi e della potenza delle immagini, scivolano via senza fatica le circa quattro ore e mezzo di durata necessarie a questo nuovo capolavoro di Raul Ruiz per raccontare la sua sostanza. E' in realtà una versione “breve”, questa vista nei festival di San Sebastian e Lecce, rispetto al montaggio definitivo di sei ore destinato ai passaggi televisivi. La differenza non è cosa di poco conto, considerando il preciso ragionamento sul tempo che Misterios de Lisboa compie in ogni suo passaggio: tempo inteso non soltanto come quello attraverso cui si dipana la vita del giovane protagonista Pedro Da Silva, che dalla stasi dell'orfanotrofio passa alla vita attiva lungo vicende intricate e capaci di abbracciare gli scenari più distanti, come punto unificante di tutto. Il tempo è anche quello di un passato che diventa presente (la vicenda si ambienta nel XIX secolo ma non denuncia eccessivamente i suoi anacronismi) e, soprattutto, quello della narrazione, che indugia sulle parole, sulle azioni, sugli ambienti, creando una particolare forma visiva che è allo stesso tempo estrinsecazione dei malesseri interiori e astrazione delle forme in un linguaggio perciò vicino e al contempo lontano dai personaggi.

Si è parlato di approccio distaccato, chiamando in causa anche il Barry Lyndon kubrickiano, ma è un paragone che si esaurisce soprattutto nella meticolosità della ricostruzione, perché qui l'intento metanarrativo è più evidente. Ruiz infatti riflette sulla forma-racconto come messinscena di un insieme di elementi che definiscono la semplicità come elemento complesso. La facile storia di un orfano (matrice di tanti feulleiton) diventa così un affresco irresistibile sul destino che unisce e divide creando di fatto la drammaturgia. Non è un caso se gli inserti rimandano spesso a quel teatro di marionette che il protagonista custodisce gelosamente come lascito dell'amata madre e che è chiamato in causa in quanto paradigma di una storia che è, consapevolmente, messinscena continua di un dramma preordinato da un demiurgo altro (la fonte è un romanzo di Camilo Castel Branco).

Ecco quindi che le affascinanti carrellate definiscono lo spazio, marcano la distanza dai personaggi, ma allo stesso tempo è come se li abbracciassero, condividendo sottilmente il loro dolore, sottolineato dalle magistrali partiture dello score di Jorge Arriagada. Perché questa è sì una storia di intrighi, misteri svelati e coincidenze che portano personaggi apparentemente lontani a condividere il medesimo destino, a incontrarsi e scontrarsi grazie alle impervie strategie del Caos e del Caso, ma è anche una vicenda di amori e sentimenti di volta in volta cercati e negati, di felicità e dolori in perenne inseguimento.

Di concerto con l'attenta sceneggiatura di Carlos Saboga, il maestro cileno orchestra dunque una sinfonia di situazioni che si dipartono dalla traccia principale, intrecciando flashback dove i vari personaggi raccontano la loro storia e svelano i rispettivi segreti. Si crea in questo modo una struttura a vasi comunicanti dove un'unica storia è paradigma di molte altre, le genera e ne è a sua volta influenzata, in una inesauribile proliferazione di nuove possibilità. L'espediente amplifica dunque la sensazione di un lavoro sulla forma del racconto e genera, oltre a una continua variazione ritmica, una perenne e sapiente capacità di valorizzare un espediente tipico del racconto seriale (narrativo e cinematografico), quello della rivelazione: il film mantiene sino all'ultimo la sua freschezza, oltre che per la straordinaria forza visiva impressa dalla regia, anche perché riesce a rigenerarsi continuamente attraverso le inedite prospettive fornite dalle rivelazioni dosate con estrema cura. E la moltiplicazione dei luoghi e delle identità (alcuni personaggi chiave cambiano nome e a volte aspetto) si allinea a questa volontà di continua scomposizione e ricomposizione, compiuta non per mero esibizionismo teorico, ma per chiarire la natura estremamente inafferrabile della vita e della felicità, dove ogni storia resta come emblema di una condizione di perenne vagare fra stati d'animo sempre provvisori.

Frutto di un sapiente sforzo dell'illuminato produttore Paulo Branco, Misterios de Lisboa è il paradigma di una narrazione seriale matura e in grado di elevarsi al di sopra del medium di destinazione: pensato per la televisione, insomma, ma potente come il miglior cinema. In Italia è stato acquistato dalla Rai, speriamo che ottenga la necessaria visibilità.

UPDATE 2012: Il film è stato trasmesso in tv da Fuoriorario il 24 settembre 2011. Il titolo viene perciò aggiornato con quello italiano


I misteri di Lisbona
(Misterios de Lisboa)
Regia: Raul Ruiz
Sceneggiatura: Carlos Saboga, dal romanzo di Camilo Castelo Branco
Origine: Portogallo, 2010
Durata: 266' (versione cinematografica)

mercoledì 11 maggio 2011

Young Girls in Black

Young Girls in Black

Noemi e Priscilla sono due adolescenti inquiete, legate da un'amicizia tanto profonda quanto problematica agli occhi del mondo. Una ha già tentato il suicidio, l'altra sembra trascinare la propria esistenza in cerca di un punto di riferimento. Noemi è in apparenza la parte “forte” del duo, quella che sembra guidare le loro decisioni e che vede nel suicidio di entrambe l'unica via di fuga da una realtà che non vuole accettare. Ma la prima a commettere il gesto sarà Pris, lasciando Noemi in preda ai dubbi e al dolore...


Per annunciare la sua decisione di suicidio congiunto con l'amica Pris, Noemi utilizza una lezione di letteratura e invoca il nume tutelare di Heinrich von Kleist, che nel 1810 si tolse la vita insieme alla compagna Henriette Vogel, in segno di protesta a una vita che non riconosceva più come degna di essere vissuta (la donna infatti era malata di tumore). E quando poi Pris compie il folle gesto lasciandola sola, Noemi sembra trovare nella musica una valvola di sfogo, recuperando finalmente quella passionalità nel suono del flauto traverso che prima la sua insegnante di musica le imputava di non assecondare fino in fondo. Nel pieno di una tragedia annunciata, quale è quella raccontata dal film, l'arte si pone dunque come strumento che riempie i vuoti della vita, ma anche come elemento in grado di interpretare la stessa, di annunciare le sue svolte e i possibili intenti.

E' questa la principale grandezza di un cinema francese che guarda alla realtà filtrandola attraverso uno sguardo più alto, che è perciò capace di raccontare il disagio e la diffidenza verso il mondo tipici di un'età difficile come l'adolescenza, trasformando questi sentimenti astratti in un linguaggio filmico potente. Ancora una volta viene da chiedersi perché siano solo i francesi a osare tanto, a credere nella forza di un cinema capace di affrontare argomenti spinosi e complessi, con quell'ambizione e quel rispetto per il linguaggio delle immagini e i personaggi che da noi sembrano così distanti e inafferrabili.

La partecipazione emotiva che si avverte durante la visione di Des filles en noir è pertanto forte: è quella di un regista, Jean Paul Civeyrac, che asseconda i dubbi delle sue protagoniste, allontanando il mondo di fuori, e concentrando tutta la narrazione sui piccoli gesti, le espressioni, i volti, il sentire delle sue attrici, la cui bellezza si oppone con forza al disegno distruttivo ordito dalle loro anime. E' un cinema che lavora sugli sguardi: tagliente quello di Noemi e più apatico quello di Pris, in opposizione pure a un modo di porsi che è ben codificato. Delle due, infatti, Noemi appare quella più benestante, fiera nel portamento, coraggiosa nel porsi come elemento dissonante rispetto a una madre alla quale non rimprovera nulla, ma cui si oppone, nella sua ricerca di un elemento di equilibrio assoluto che non può esistere. Al contrario Pris è ribelle soltanto nel modo di vestire, nel suo nero dalle connotazioni punk/gothic che però non trova un corrispettivo nelle sue azioni: la vediamo infatti cercare la compagnia di un ragazzo che però le sfugge, vivere con una sorella che preferisce lasciarla a casa da sola per trascorrere un weekend romantico con il compagno. E' un'anima in cerca d'amore, che non disdegna una connessione con il mondo e che non a caso è anche l'unica delle due a subire un'avance violenta da parte di un uomo che scambia la sua ricerca d'empatia per allusione sessuale.

Il suicidio di Noemi è perciò intinto in una ribellione filosofica, quello di Pris scava nella solitudine interiore e perciò sarà lei a compiere il gesto, peraltro in un momento che è sì collettivo, ma in realtà isolato, perché le due ragazze sono lontane e comunicano solo attraverso il telefono cellulare, rimarcando quella cifra di perenne vicinanza/lontananza da un mondo dove è la tecnologia a supplire alla mancanza fisica. Ma è un supplire puramente illusorio, che non appaga quella condivisione fisica che pure Pris cerca sempre, accarezzando le persone (o gli animali) che ama, quel gesto reale che diventa punto di contatto. Ecco perché alla fine di fronte al gesto estremo le due ragazze sono sole e non compiono un atto comune, ma al contrario si pongono ciascuna di fronte alla scelta in modo singolo e agiscono in maniera diretta. Pris si abbandona, come ha sempre fatto, Noemi resiste.

La connessione che resta fra le due anime è dunque puramente ideale, e non a caso subentra in questa fase l'elemento onirico, con Noemi che “vede” l'amica nei sogni, nei momenti in cui appare più incapace di opporre una resistenza concettuale alla strada che pure si era tracciata. Queste digressioni, in realtà, altro non fanno che sottolineare una componente sempre presente nel racconto, che arricchisce la struttura narrativa di una forza eterea, sospesa, capace perciò di sottolineare tanto lo stato di alterità delle ragazze rispetto al mondo, quando l'unicità del loro mondo privato, in cui si rifugiano nell'ostinato rifiuto della vita.

E' un ulteriore motivo di fascino per questa pellicola di grande forza emotiva, nonostante un andamento lento e un approccio che nella sua empatia verso i personaggi, si carica volutamente di una dose di ambiguità capace di restituire quel particolare sentire di un'età in cui i sentimenti sono più forti e la tensione è sempre all'assoluto.



Des filles en noir/Young Girls in Black
Regia e sceneggiatura: Jean Paul Civeyrac
Origine: Francia, 2010
Durata: 85'

lunedì 9 maggio 2011

Far West

Far West

Poco dopo aver scritto il precedente post dell'etichetta Oggetti di cinema, una felice coincidenza ha voluto che nella mia casella di posta elettronica arrivasse un comunicato sull'uscita di “Far West”, attenta riproduzione dell'orologio da tasca utilizzato nello splendido Per qualche dollaro in più di Sergio Leone.
 

Il primo pensiero è stato di curiosità: possibile che non ci avesse mai pensato nessuno? Probabilmente un orologio non è l'oggetto che si tende istintivamente ad associare a un genere come il western, che sicuramente già poggia sulla forza iconica delle “cose”, ma che porta inevitabilmente con sé un'eredità consolidata, fatta di ben altri elementi: pistole, speroni, cavalli, case o carri colonici. Nel caso di Sergio Leone (e del western italiano in generale) si potrebbero magari aggiungere i muli, il poncho, il sigaro, senza dimenticare elementi fortemente materici ma non altrettanto materiali (almeno per valore collezionistico): il fango, la polvere, il sole, quella rarefatta atmosfera di decadimento e morte che avvolge i villaggi dove si ambientano le storie. In tutto questo un orologio forse non era davvero il primo oggetto che saltava in mente.

Purtuttavia, a focalizzare meglio l'attenzione, viene in mente come non esista un oggetto più “leoniano” di questo: non perché il modello in questione si ritagli una certa importanza nella storia, quanto perché l'intero cinema di questo grande e compianto regista ha un rapporto privilegiato con il fattore “tempo”. La potenza estatica del western leoniano è sicuramente data dall'innalzamento a livello mitico delle icone elencate in precedenza, ma ciò diventa possibile grazie a una studiata sospensione temporale, che dilata i momenti e rende talmente rarefatte le pause da produrre quel piacere della visione che si consuma durante (né prima, né dopo) l'attesa per il momento annunciato. Tempo come punto di partenza e di arrivo, insomma, snodo fondamentale per misurare la distanza fra la concezione classica, “americana”, e quella di casa nostra.

Non è un caso, infatti, che l'oggetto in questione sia utilizzato proprio durante la scena finale del duello, culmine narrativo, tematico ed emotivo della storia, perennemente rimandato nel raggelamento dell'attesa (fattore che diventerà anch'esso determinante per tutto il western nostrano a seguire).

L'orologio “Far West” è realizzato da Boegli e riproduce anche la meccanica originale: quando si solleva il coperchio, infatti, si attiva un meccanismo musicale che ripropone il leitmotiv del film. L'esemplare, va da sé, non è per tutti: la riproduzione è infatti limitata a soli 99 esemplari numerati.

venerdì 6 maggio 2011

Machete

Machete

Machete è un incorruttibile agente federale messicano cui viene sterminata la famiglia dal boss Torrez, suo grande nemico. Creduto morto, Machete si ritira in Texas per vivere alla giornata come manovale. Il potente uomo d'affari Michael Booth, però, lo convince ad assassinare il senatore ultraconservatore McLaughlin, responsabile di una feroce repressione contro gli immigrati ispanici. Si tratta in realtà di una trappola, ordita con la complicità dello stesso McLaughlin, che esce indenne dal tentato omicidio, guadagnandone una grande popolarità, ottima per la sua campagna elettorale. La colpa, immancabilmente, viene invece fatta ricadere su Machete, che diventa così un ricercato. Insieme al fratello prete Padre, a Sartana Rivera, agente dell'ufficio anti-immigrazione e a Luz, barista nota con il nome di battaglia di “She”, Machete parte al contrattacco di Booth, McLaughlin e di Torrez, socio dei due.


Presentato alla Mostra di Venezia 2010 in anteprima, Machete arriva finalmente nelle sale italiane, in continuità con la neo-exploitation di cui è alfiere, essendo nato da un finto trailer realizzato per il lancio di Planet Terror come parte del progetto Grindhouse. All'epoca della sua realizzazione, inoltre, il film si è potuto giovare di un'involontaria campagna pubblicitaria dovuta alle polemiche sulla politica repressiva operata dalla Governatrice dell'Arizona Jan Brewer contro gli immigrati clandestini, in perfetta opposizione al tema libertario veicolato dal film.

Ciò che però interessa in questa sede è il lavoro compiuto da Rodriguez a seguito di quanto già seminato con Grindhouse, operazione che già arrivava a chiudere un cerchio iniziato da tempo dal cinema commerciale hollywoodiano: il regista ispanico, infatti, porta a definitivo compimento il passaggio dell'exploitation al mercato di serie A, attraverso una messinscena “grezza” che però non nasconde un impianto produttivo decisamente distante dall'improvvisazione dei modelli (basti pensare ai nomi coinvolti nel cast).

Si tratta quindi di rimettere in scena quelli che nel tempo sono diventati degli autentici codici espressivi, basati non soltanto sullo sfruttamento intensivo degli elementi più “forti” (violenza, sesso, azione), ma anche sulla messinscena di elementi apparentemente dissonanti e che invece finiscono per generare sorpresa e trasmettere l'idea di un cinema non compromissorio. Machete diventa così non tanto un ritorno a un cinema noto, quanto una rivitalizzazione di un'idea ormai diventata canone e che perciò deve esibirsi in quanto amalgama di svariati elementi. Il gioco è articolato attraverso puntuali citazioni trasversali rispetto a qualsiasi genere, che creano un ponte e annullano qualsiasi differenza tra “alto” e “basso”: così come in Planet Terror John Carpenter e Umberto Lenzi venivano appaiati come modelli equivalenti, così qui si passa dal James Cameron di Terminator 2 (l'arma nascosta dai fiori) alla guerriera con occhio bendato del misconosciuto cult svedese Thriller (solo per citare due esempi).

Il lavoro sui codici espressivi dell'exploitation si unisce inoltre al gioco degli stereotipi sull'iconografia latina nella cultura pop, che passa per l'esibizione di corpi simbolo (Jessica Alba, Michelle Rodriguez, lo stesso Danny Trejo), di maschere wrestling e degli immancabili cibi. L'elemento di straordinarietà insito in questo lavoro di ricognizione è il fatto che spetti al già citato sottotesto “politico” cementare queste parti, dimostrando in sostanza come l'altro da sé, percepito sempre come “differente”, sia in realtà un componente tipico dell'immaginario condiviso, più occidentale di quanto gli stessi americani non vogliano accettare.

Non a caso il riferimento che viene spesso chiamato in causa è quello della blaxploitation, in quanto cinema “mainstream” che utilizzava l'immaginario nero per propagandarlo a un pubblico bianco, che ne era comunque consapevole in quanto parte del proprio quotidiano. Ecco dunque che Machete si staglia come un autentico film-meticcio (prima ancora che film-feticcio), che si connota in base alla concordanza con gli elementi sedimentati nell'utenza, ma anche in base alla differenza con il cinema normalmente praticato nel mercato contemporaneo. La sua inattualità è elemento di distanza, ma anche di riavvicinamento.

Proprio per questo, Machete può permettersi di viaggiare costantemente su un doppio registro, che è non tanto quello dell'omaggio e della parodia insieme (il tono è volutamente eccessivo e grottesco in molte invenzioni, quasi da cartoon), quanto quello che lo porta ad assecondare gli stereotipi e nel contempo anche a sovvertirli. Quasi tutti i personaggi, dunque, esistono in quanto antitesi del loro ruolo: da Machete, prima federale e poi ricercato per omicidio, all'agente Sartana, che combatte l'immigrazione clandestina ma ne diventa sostenitrice, al padre che cova sentimenti incestuosi per la figlia, fino alla ricorrente icona dell'uomo di chiesa che impugna (e usa) un'arma (il Padre di Cheech Marin e la suora di Lindsay Lohan).

Questo continuo rovesciamento delle parti si estende in modo molto naturale anche alla componente extra-narrativa, con l'uso consapevole di attori in ruoli opposti a quelli tipici della loro carriera. Si va da un irriconoscibile Don Johnson, lontanissimo dall'eleganza un po' coatta del Sonny Crockett di Miami Vice o a quella più fumettistica di Nash Bridges, qui riciclato come vigilante che spara sugli immigrati; per arrivare naturalmente a Steven Seagal, eroe di tanti action-movie, qui per la prima volta nel ruolo del cattivo. Entrambi corpi iconici, simbolo di quel meticciato filmico che, in ultima istanza, porta anche l'eterno comprimario Danny Trejo a esibirsi per la prima volta in un ruolo da protagonista.


Machete
(id.)
Regia: Robert Rodriguez, Ethan Maniquis
Sceneggiatura: Robert e Alvaro Rodriguez
Origine: Usa, 2010
Durata: 105'


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giovedì 5 maggio 2011

La scomparsa di Osamu Dezaki

La scomparsa di Osamu Dezaki

Un grosso malinteso ha da tempo relegato alcune fra le più significative serie animate di sempre - e il nome di Osamu Dezaki - nel calderone dei prodotti di massa, preferibilmente infantili, magari da ossequiare più che altro per ragioni nostalgiche, piuttosto che strettamente qualitative. Ora che il regista è scomparso, sarebbe bello che l'equivoco fosse risolto, e si iniziasse a guardare alla sua opera al di là della stretta cerchia dei cultori (di animazione o del passato), tributandogli il rispetto e l'importanza che spettano ai veri pionieri.

Che il passatismo non sia infatti il criterio giusto per affrontare il corpus d'opera di Osamu Dezaki è testimoniato dalle parole del regista stesso, che in più occasioni aveva dichiarato di guardare sempre avanti, alla ricerca di nuove formule espressive, lontano com'era da quell'autoreferenzialità che pure riesce a esistere in un ambito fecondo e sperimentale come quello dell'animazione giapponese. Non è un caso se opere come Remì e Lady Oscar, una volta sfrondate della più sterile componente nostalgica, risaltano in particolare come lavori adulti e di grande ricerca formale, attraverso invenzioni destinate poi a diventare standard, ma che ancora oggi colpiscono per la loro freschezza. Mi riferisco all'uso straordinariamente espressivo del colore, dei fondali e dei dettagli. Basti pensare che una delle principali novità introdotte da Dezaki a partire dalla diciannovesima puntata di Lady Oscar (dove subentrò al collega Tadao Nagahama) è quell'anomalo personaggio del mendicante con una gamba di legno che, brandendo una fisarmonica, riesce a ritagliarsi uno spazio significativo come voce critica dell'universo narrativo, sottolineando ed esplicitando il sottotesto tragico che l'ispirata regia da lì a poco lascerà deflagrare in tutta la sua devastante potenza. Sono questi tocchi di classe a marcare la differenza fra un narratore e un semplice artigiano interessato unicamente alla trasposizione di un manga di successo.

Stabilita dunque la necessaria distanza fra la semplice rievocazione e l'analisi dell'opera di Dezaki, stupisce notare la singolare contraddizione fra un'indole interessata a guardare avanti, e uno spirito narrativo che quasi sempre manifestava una forte inquietudine per il futuro, complice una visione pessimista che trovava nella tragedia la sua maggiore motivazione espressiva. Ci viene in soccorso quella che forse è l'opera più rappresentativa (sebbene non la più nota) dell'artista, la serie Rocky Joe. In questo caso la contraddizione è addirittura doppia, se consideriamo che il titolo originale “Ashita no Joe” tradotto recita letteralmente “Joe del domani”: vi si racconta la storia di un orfano che trova la sua ragione d'essere nella boxe. Questo struggente racconto di formazione, però, è articolato da Dezaki nel segno di una autentica condanna per il protagonista, destinato a essere portatore di morte e perciò a vedere spesso i suoi compagni e avversari cadere per mano dei suoi colpi, o comunque per circostanze legate alla sua presenza, fino all'autoannullamento del finale (sintetizzato dall'indimenticabile immagine riportata qui sotto).

Passato e futuro dunque, due opposti fra i quali Dezaki dovrebbe essere posto al centro, come cineasta del presente, capace di guardare espressivamente avanti, ma tematicamente indietro, attraverso personaggi che devono ricomporre un quadro sfaldato preventivamente: le sue storie, in effetti, hanno spesso a che fare con l'identità da ritrovare (si pensi all'ambiguità di Lady Oscar), con il ricongiungimento familiare (Remì), e forse anche per questo una delle sue invenzioni più personali è quella del fermo immagine a matita, che si contrappone alla forza cinetica impressa dai disegni dei sodali Shingo Araki, Michi Imeno e Akio Sugino. La regia, insomma, insegue l'impetuosità del movimento, ma d'un tratto la blocca, congelandola e trasfigurandola in un fermo di qualità pittorica che sembra avere un duplice scopo: fissare la significatività di un momento in cui l'emozione si sta consumando, esprimere la forza di un singolo gesto in rapporto alla complessità di un'azione più grande e osservare così la tragedia nel suo farsi. Ma, allo stesso tempo, anche riconsegnare il protagonista alla sua realtà di figura disegnata, sottraendolo a quella verosimiglianza imposta dall'animazione.

Non stupisce in questo senso notare che Dezaki in origine volesse fare il disegnatore di fumetti: in effetti, pur nella modernità estrema dei suoi artifici registici, sussiste una radicalità che è tipica del mestiere di chi traccia un tratto sul foglio. E anche per questo le sue opere riescono a essere contemporaneamente eleganti (e non prive di una certa androgina sensualità) eppure quasi brutali nella rappresentazione “sporca” della realtà.

Ancora una volta nulla di cui stupirsi: è la naturale conseguenza di un pensiero che, stante la voglia di esplorare sempre le possibilità offerte dall'animazione, per il resto guardava al cinema dal vero, alle opere di autori del reale come Vittorio De Sica e alla capacità di comporre un linguaggio di immagini che fosse universale e trasversale rispetto ai pubblici più disparati: è solo l'ennesima contraddizione di un autore capace di coniugare gli opposti e di lasciare in questo modo esprimere la complessità di una concezione artistica che pensava all'animazione come a una sintesi di stimoli differenti. Peccato che se ne sia andato così presto.


domenica 1 maggio 2011

Thor

Thor

Oltre le stelle sorge Asgard, dimora degli dei, governata dal saggio Odino. Il suo primogenito Thor, dio del tuono, è il prescelto per succedergli, ma il suo carattere è arrogante e un tentativo di attacco al regno da parte dei Giganti di Ghiaccio lo porta a contravvenire agli ordini del padre e a muovere guerra agli invasori. Per questo Odino lo bandisce, confinandolo sulla Terra in vesti mortali. Qui Thor conosce Jane Foster, una giovane ricercatrice i cui studi sono volti a scoprire i passaggi fra la Terra e gli altri regni. Con lei Thor deve affrontare l'onta di essere straniero in un mondo che non sente suo e la maledizione di essere privato dei suoi poteri, tanto da non riuscire più a sollevare il suo leggendario martello Mjolnir (che viene guardato a vista dagli uomini dello SHIELD). Nel frattempo il suo fratellastro Loki trama nell'ombra, tentando di recuperare quel favore mai ottenuto da Odino, e per questo cerca di eliminare Thor.


Uno degli aspetti più interessanti di Thor è il suo essere contemporaneamente dentro e fuori il Mito: estrapolata dai racconti norreni, la sua figura appare infatti anacronistica rispetto agli scenari urbani del fumetto Marvel, ma è pur vero che la verticalità delle linee asgardiane, sovrapposta a quella dell'architettura di New York, crea interessanti punti di contatto fra la forza ancestrale del Mito e la narrazione moderna che vede nell'iconicità del paesaggio cittadino uno dei punti di forza del racconto supereroico. Data questa premessa era dunque ipotizzabile che la scelta di privare la trasposizione filmica di tale parallelismo fosse uno sbaglio: Kenneth Branagh infatti relega le avventure terrestri del Dio nello scenario desertico del New Mexico, creando un effetto di distanza e straniamento fra le due realtà (anche se va aggiunto che in tempi più recenti lo stesso fumetto ha offerto scenari simili).

Allo stesso modo poteva apparire sbagliata la scelta di abdicare a quelle tonalità psichedeliche tipiche delle tavole di Jack Kirby, in favore di un taglio più “realista”, dove la grandiosità scenografica e la virulenza degli effetti speciali comunque non deroga mai al principio di porre in essere uno spazio di evidente coerenza interna (si veda il Bifrost, leggendario Ponte dell'Arcobaleno, che qui si connota come un poderoso meccanismo più sci-fi che fantasy, unitamente al look hi-tech dei costumi).

La visione della pellicola, però, sorprende e conferma quanto invece queste scelte siano state giuste, poiché articolano il progetto lungo la sottile faglia che regola i concetti di distanza e avvicinamento. Così come accade nel fumetto Marvel, dunque, Thor è un film in bilico fra opposti: è sicuramente innegabile che la fase dell'allontanamento sia trattata con maggior cura, poiché i conflitti generati dalle mancanze affettive e dall'impulsività anche violenta del sentimento (Loki non dichiara mai odio per il fratello) trovino una trattazione più compiuta, laddove invece il ravvedimento di Thor e, soprattutto, il suo nascente legame con Jane Foster è osservato con fare più sbrigativo.

Ma Branagh vince la sua scommessa soprattutto sul versante squisitamente visivo e linguistico: se la scrittura sfrutta infatti meccanismi universali che sono sicuramente riconducibili al precipitato delle originarie sceneggiature di Stan Lee e, ancor prima, alle tragedie familiari del prediletto Shakespeare, il lavoro del regista si premura di articolare queste dinamiche attraverso una puntuale elaborazione degli spazi scenici, delle ambientazioni e del tono. In ragione di questo, l'orizzontalità dello scenario terrestre, contrapposta alla verticalità dei palazzi asgardiani rimarca da un lato l'alterità del nostro mondo in cui Thor si ritrova prigioniero, e dall'altra la mancanza di quella gerarchia che vige nel mondo degli dei e che, di fatto, genera il malcontento nella figura di Loki.

Il “cattivo” del film, sorretto dalla memorabile interpretazione della scoperta Tom Hiddleston, è infatti connotato come una sorta di vittima di scelte che lo precedono: che sono le scelte compiute da un padre che gli ha nascosto la verità sulla sua vera natura, ma anche quelle codificate da una tradizione che istilla naturalmente l'odio fraterno attraverso una corsa alla successione che non ammette deroghe e insubordinazioni. Thor e Loki, dunque, sono destinati a non poter essere compiuti in quanto entrambi figli di una dottrina che condanna all'unilateralità.
 
Pertanto, sia Thor che Loki sono creature “di mezzo”, che devono trovare la propria ragione d'esistenza attraverso il confronto con una realtà opposta: la Terra per Thor e il mondo dei Giganti di Ghiaccio per Loki. Diverse sono però le conseguenze del loro percorso iniziatico: ricostruzione per Thor e distruzione per Loki. Il dio del tuono si rigenera attraverso l'immersione in una realtà non verticistica, dove anche le autorità rappresentate dallo SHIELD sono comunque “dalla stessa parte” e la famiglia di Jane Foster, sebbene non nucleare, raggiunge ugualmente la piena funzionalità attraverso le figure vicarie dei consanguinei (lo scienziato/padre e la stagista/sorella). Al contrario, Loki (qui non ancora “dio del Male”) procede per un processo di distruzione che sia ricostruzione di un rapporto padre/figlio logorato dalle mancanze e dai segreti: non a caso la sua ricerca di legittimazione in quanto Re passa anche per una costruzione del consenso da parte dei sudditi (la domanda ad Heimdall se lo riconosca e gli obbedisca come faceva con il padre) e dei compagni (i guerrieri, accolti come amici). Il percorso diventa così opposto: Loki sente di dover rigenerare la sua qualifica di figlio, mentre Thor deve acquisire quella di uomo/dio/futuro re.

Conseguentemente diversi sono anche i registri narrativi che animano le due diverse parti: più solenne, aulica e fiabesca l'avventura asgardiana, maggiormente ironica e citazionista la parentesi dell'esilio terrestre. Sintomo di una regia che, pur nell'essere abbastanza su commissione (come in tutti i lavori prodotti direttamente dai Marvel Studios), è comunque riuscita a ritagliarsi degli spazi personali e a rendere Thor un cinefumetto più riuscito della media. Appuntamento a Captain America e I Vendicatori.


Thor
(id.)
Regia: Kenneth Branagh
Sceneggiatura: Ashley Miller, Zack Stentz, Don Payne (da un soggetto di J. Michael Straczynsky e Mark Protosevich, basato sui personaggi creati da Stan Lee e Jack Kirby)
Origine: Usa, 2011
Durata: 130'


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