"C'è chi crede in dio o nel denaro. Io credo nel cinema, nel suo potere. L'ho scoperto da ragazzino, mi ha aiutato a fuggire da una realtà in cui ero infelice. È una delle forme d'arte più alte che l'uomo ha concepito. Credo nel suo futuro."
“A me Tomas non
piace, mentre Monnezza sì. Tomas è vulnerabile, ingenuo, timido,
Monnezza è coraggioso, saggio, estroverso. L'unica cosa che abbiamo
in comune è il senso dello humor.” Non può esistere migliore
sintesi di questa per approcciarsi a questa biografia scritta da
Tomas Milian, in collaborazione con Manlio Gomarasca, culmine di
quella che era nata come un'intervista (mai pubblicata) e che ha poi
assunto la forma di una tela di Penelope, rinviata e limata
all'infinito sino all'uscita nelle librerie, in concomitanza con il
ritorno a Roma dello stesso Milian nel 2014, per ricevere il premio
Marc'Aurelio alla carriera dalla Festa del Cinema.
Nelle pagine del libro
c'è infatti Tomas che racconta la sua vita, dall'infanzia a Cuba,
segnata dal drammatico suicidio del padre (di cui il giovane e futuro
attore fu diretto testimone), la voglia di fuggire dal contesto borghese di nascita, l'amore per la recitazione sulle orme di James Dean, fino agli anni del successo romano e
della tarda carriera americana quando, con un gesto decisamente
coraggioso, Milian abbandonò il sicuro approdo italiano per
reinventarsi come caratterista hollywoodiano e ricominciare così
daccapo. La storia è in effetti quella di continui re-inizi, e
continue reinvenzioni del proprio sé, sul set e nella vita,
raccontata con ricchezza di aneddoti e senso dell'umorismo, ma senza
risparmiare nulla sulle parentesi più drammatiche. Su tutto domina
il dualismo fra Tomas e il suo alter ego cinematografico, lo
sfrontato Monnezza, sia nell'originaria forma del ladro che in quella
più tarda dell'ispettore di Polizia – che sarebbe Nico Giraldi,
anche se Milian chiarisce una volta per tutte che il personaggio è
Monnezza, a livello progettuale e di fatto, anche se non fu possibile
usare il nomignolo per problemi di diritti.
Così Tomas racconta e
Monnezza spesso interviene nella narrazione con i suoi commenti
sfrontati e a tratti demistificatori, inscenando un finto dialogo fra
le due facce della stessa personalità, e riverberando quel tema
della “maschera” che ricorre in tutta la narrazione: maschere
sono infatti quelle che l'attore usa per assumere di volta in volta
nuove identità sul palcoscenico, ma la maschera (in senso figurato)
è anche il filtro con cui Milian “recita” la sua vita, in base
alle aspettative proprie e altrui – subito dopo il suicidio del
padre, Tomas spiega di aver “recitato” il suo dolore, come ci si
sarebbe aspettato da lui, che era invece rimasto completamente
svuotato dal gesto: “Stavo recitando. E da quell'istante
recitare, per me, è diventato l'equivalente di mentire,
ingannare.”
Sarà anche per questo
che il distacco finto e un po' sornione con cui l'attore rievoca
divertito i vari passaggi della sua esistenza possono apparire come
un'ulteriore maschera: lo stile è piacevole e attento a dosare le
parti ironiche con quelle più problematiche, ma nel complesso il
ritratto non appare mai forzato perchè Milian rivendica una filosia
basata “su nient'altro che non fosse emozioni e sentimenti.”
La biografia è quindi
senz'altro l'ennesima rappresentazione dell'attore, dove i fatti sono
reali, forse romanzati un po', ma l'attitudine di fondo è quella
dell'uomo che vuole mettere in scena la verità dietro le scelte di
una vita, per emettere il suo “giudizio” su quanto ha passato.
Milian non si fa sconti, riconosce i propri meriti ma evidenzia anche
i tanti sbagli, si definisce icasticamente “uno stronzo, ma non
di quelli che dicono stronzate”, perfezionista ma generoso, uno
che fugge dalla sua condizione primaria di “borghese e corrotto”
per avvicinarsi sempre più alla gente, ed essere così “estroverso,
allegro, simpatico, paraculo, buono, puro, dritto e comunista”.
Come il “suo” Monnezza e come l'amico e controfigura Quinto
Gambi.
Il ritratto riesce così
a intenerire, divertire e far riflettere, perché fra le righe di una
narrazione apparentemente semplice nella sua linearità emerge il
travaglio di una personalità complessa, tipica di chi, raggiunti gli
80 anni, può forse considerarsi “arrivato” professionalmente, ma
– a quanto pare – non umanamente, dopo un'esistenza spesa a
cercare il punto di equilibrio fra l'uomo e l'attore. Nella
contrapposizione fra tutte queste maschere emerge così un'umanità
fatta di debolezze, cadute e successi e di una carriera piena di
rischi, senz'altro lontana dall'aura del divo che pure connota la
figura di Tomas Milian in più passaggi, dove la vita e il cinema si
uniscono in un tutt'uno e il libro ha la vitalità di un film ma le
sfaccettature di un diario. Forse, questa biografia non è che un
punto di inizio e l'ennesimo film di Tomas e Monnezza deve ancora
prendere forma.
Il nuovo libro di
Alessandro Apreda non è un saggio, ma una guida, dichiarata fin dal
titolo, per gli appassionati del variegato universo
dell'intrattenimento che ruota attorno al Giappone: quindi seguaci di
animazione, telefilm, videogame e quant'altro, anche se i confini
possono essere agevolmente espansi, considerata l'influenza che
l'industria dell'intrattenimento nipponica ha sull'immaginario
italiano da almeno tre decenni (un argomento già trattato in questi spazi).
L'intento dichiarato è
molto semplice: fornire una mappa che aiuti il neofita dei viaggi in
Giappone perché vada a colpo sicuro nella sua ricerca di luoghi
caratteristici o negozi in cui dare sfogo alla propria passione per
gli immaginari di cui sopra – riassunti nel termine “nerd”, in
realtà alquanto detestabile, ma che l'autore spiega di preferire al
nipponico “otaku” per l'evidente connotazione negativa che
quest'ultimo ha tuttora nel suo paese d'origine. Come ci ricorda lo
stesso autore, da un decennio a questa parte l'industria culturale
nipponica ha riscoperto il proprio appeal commerciale presso un
variegato pubblico che travalica i suoi stessi confini - il termine
utilizzato è diventato una sorta di autentico marchio, “Cool
Japan”. All'estero non è dunque infrequente imbattersi in
operazioni come quella compiuta da Apreda: un esempio è l'opuscolo,
“Japan Anime Tourism Guide”, promosso dall'Agenzia del Turismo
Giapponese in varie lingue (io ho la versione in francese, esiste
anche quella inglese). Come spesso accade, l'Italia, in barba alla
sua folta comunità di appassionati, non sembra essere stata particolarmente sfiorata dal
fenomeno e dunque il libro in questione arriva a colmare un vuoto.
L'accompagnamento del
lettore avviene in modo semiserio, attraverso uno stile diretto e
colloquiale, abbastanza scevro dei neologismi umoristici che Apreda
utilizza sul suo blog, ma senza risparmiare battute: l'approccio
passa al setaccio, un quartiere alla volta, i luoghi della
meraviglia, fornendo non solo rapide spiegazioni, ma anche consigli,
informazioni utili per muoversi nella metropoli asiatica, e il senso
di un sentire condiviso che diventa non solo un accompagnare “per
mano” il lettore, ma anche dare il senso di familiarità e
comprensione del “problema”.
In effetti, ciò che
colpisce positivamente del libro è la generosità con cui Apreda non
cade nella facile trappola dell'ostentazione: non siamo, insomma, di
fronte a uno scritto un po' narcisista con cui l'autore magari tenta
di fare sfoggio della sua conoscenza della materia, ma di un libro
che vuole essere soprattutto utile, nel senso stretto del
termine, e partecipe della comune passione, riverberando a ogni
pagina la forza dell'immaginario comune e della meraviglia che esso
suscita da tanto tempo. L'autore evoca non a caso il paese dei
balocchi di Collodi, conosciuto attraverso oltre un decennio di
viaggi che permettono anche di elencare le trasformazioni avvenute in
un arco temporale così lungo: in effetti un po' spiace che Apreda
non approfondisca questi aspetti più “sociologici”, ma il
criterio dell'utilità senza troppe divagazioni resta la linea guida
del progetto e, in fondo, anche questo è un segno di onestà
intellettuale verso il lettore (non è un saggio, è una guida
dopotutto).
Nel complesso vengono
passati in rassegna diversi temi dell'intrattenimento: animazione,
collezionismo, sport, video e retrogame, gli immancabili manga e
persino la cucina, anche se i negozi restano il baricentro essenziale
della ricerca, a scapito magari di musei e case di produzione (in
questo senso l'opuscolo dell'Agenzia del Turismo citato in precedenza
può comunque costituire un ottimo compendio).
La cover completa (fronte/retro), con il bel disegno di Manuel Preitano
Graficamente il volume
si presenta riccamente illustrato su carta lucida, con brossura morbida e la bella cover di Manuel Preitano accompagnata, internamente, dai disegni di Lucia Debidda: lo spessore
ridotto non tragga in inganno, ogni pagina è infatti pregna di
scritte, box, mappe e quant'altro. Il sapore è quello di una pagina
web dove si aprono mille finestre pop-up, e crea dinamismo
nell'impaginazione, sfruttando ogni angolo per fornire le maggiori
informazioni possibili, tanto da divertire anche nella continua
ricerca di nuovi dettagli, magari sfuggiti alla prima lettura.
Qualcosa potrebbe naturalmente cambiare dal momento della lettura a
quello dell'eventuale viaggio, ma l'utilità non è messa in
discussione e il divertimento è assicurato. D'altra parte, come
scrive lo stesso autore “Il viaggio, almeno per chi legge una
guida, deve in genere ancora iniziare: tra poco, tra molto, o anche
soltanto forse un giorno, chissà. In fondo si inizia a viaggiare già
con la testa, nel momento stesso in cui si culla l'idea di una nuova
avventura, e la fase della pianificazione è divertente quasi quanto
vivere quei luoghi poi di persona.”
La saggistica sugli anni
Ottanta, come già evidenziato, tende per lo più ad appiattirsi sul
ricordo nostalgico di chi ha vissuto sulla propria pelle (infantile)
quel decennio e il suo composito immaginario, partorito da
televisione, cinema, musica, fumetti e quant'altro. Ma qual era il
cuore pulsante di un'epoca che si presentava con il ritratto
spensierato della Milano da Bere, consegnata ai posteri dal
memorabile spot di un amaro nel 1985?
Paolo Morando,
giornalista e vicecaporedattore del “Trentino”, ci ricorda che,
in fondo, l'approccio al nuovo decennio fu tutt'altro che lieto: il
1980 consegna infatti alle cronache la strage di Ustica, quella della
stazione di Bologna e il terremoto dell'Irpinia. Nell'arco di appena
un paio d'anni vanno registrati anche i sequestri, da parte delle
Brigate Rosse, del magistrato Giovanni D'Urso, del dirigente del
petrolchimico di Marghera Giuseppe Taliercio, di Roberto Peci,
fratello del pentito Patrizio, dell'assessore campano Ciro Cirillo;
la lista di inizio decennio prosegue, come un fiume in piena, con la
scoperta degli associati alla Loggia P2, l'assoluzione degli imputati
per la strage di Piazza Fontana, l'attentato a Giovanni Paolo II, la
morte di Roberto Calvi a Londra, il trauma
nazionale di Vermicino con la morte del piccolo Alfredino Rampi,
l'agguato al Generale Dalla Chiesa, l'assalto alla sinagoga di Roma... chiunque abbia un minimo di ricordo dei telegiornali dell'epoca, rievocherà facilmente uno scenario difficile, marchiato da
eventi luttuosi e disastri, quelli citati da Morando non sono nemmeno
tutti: la Storia sembra insomma ribaltare un disegno poi abilmente
coperto dall'euforia generata da eventi più lieti, come la
vittoria della Coppa del Mondo di Calcio nel Mondiale di Spagna, che
nel 1982 arriva a riunire l'Italia intera (e fa anche dimenticare lo
scandalo calcio-scommesse, sempre del famigerato 1980).
Come si può notare, la
contrapposizione è fra una Storia reale che sembra tracciare ferite
profonde nella coscienza collettiva, e macro-eventi che svolgono una
funzione rigenerante per l'immaginario altrimenti malconcio del nuovo
decennio. Il saggio di Morando cerca pertanto di lavorare proprio su
questa doppia traccia: da un lato riporta alla luce fatti di cronaca
ormai dimenticati, che smitizzano e riscrivono l'aura degli Ottanta;
da parte dell'autore, si badi, non c'è la facile voglia di abbattere
i miti di una generazione. Nelle sue parole, anzi: “è difficile
dar torto ai quarantenni di oggi e al loro struggersi: più che della
propria gioventù, e ci mancherebbe, è il ricordo di un'età
dell'abbondanza poi mai più ritrovata, del moltiplicarsi dei
palinsesti, di carrelli pieni nei supermercati, merci e suggestioni.
Sogni e futuro. Una visione legittimata da chi ha provato a
raccontare quegli anni al di là di date, eventi, governi e Pil.”
L'autore cerca però di
stare ai fatti e stabilire come, nel calderone delle memorie, vadano
analizzate con più puntualità alcune delle simbologie più ambigue
del decennio, spesso derubricate con l'alibi della leggerezza, della
goliardia e del “dolce ricordo”, per comprendere come proprio
nell'epoca dell'apparente spensieratezza si piantavano i semi di
problematiche che sarebbero poi esplose con la loro evidenza solo in
futuro.
Morando parte quindi da
cinque temi/categorie, riassunte in altrettanti capitoli: L'Italia
nordista racconta i prodromi del leghismo e la scoperta di una feroce
divisione Nord/Sud sintetizzata dallo slogan “Forza Etna”,
collegato alla problematica eruzione del 1983, evidentemente eletta
dagli antimeridionalisti a strumento divino di “pulizia” per cui
fare il tifo. Ripensando agli ignobili commenti razzisti apparsi in
questi giorni sui Social Media a proposito della strage dei treni di
Corato, in Puglia, si capisce come la riflessione sia centrata.
Quello dell'antimeridionalismo è un tema che ritorna un po' in tutto
il volume: lo ritroviamo infatti anche nel terzo capitolo, L'Italia
becera, centrato in gran parte sul fenomeno di Radio Parolaccia,
ovvero il microfono aperto di Radio Radicale che divenne una valvola
di sfogo per gli istinti più violenti e razzisti degli ascoltatori,
lasciando emergere uno sconcertante ritratto del “paese reale”,
fino ad allora del tutto ignorato – con buona pace di chi ancora
oggi lo ricorda come un fenomeno spassoso, si vedano i commenti divertiti ai video di YouTube dedicati alla questione. Ancora
l'ultimo capitolo, L'Italia razzista, sebbene si concentri in modo
particolare sui fenomeni collegati all'immigrazione dai paesi
africani, dando voce a tante storie sconcertanti di quotidiana
intolleranza, non manca di rivangare ulteriormente la divisione fra
Nord e Sud.
I due capitoli rimasti,
L'Italia paninara e L'Italia rampante affrontano invece l'aspetto più
discusso ed esteriore degli anni Ottanta, ovvero il mito edonistico
dell'apparenza collegata alla ripresa economica, anche in questo caso
legato a doppio filo alle problematiche identitarie pronte a sfociare
nelle contrapposizioni evidenziate nel resto del volume. L'autore
continua a interrogarsi sul reale significato di iconografie e mode,
non propende per facili soluzioni, ma indaga gli aspetti più
controversi di un'Italia che vuole apparire civile ma si scopre
sempre più incattivita.
Morando è bravo a non
personalizzare mai troppo le varie problematiche, evitando così il
rischio di creare facili capri espiatori (pur facendo sempre nomi e
cognomi): ciò che infatti sembra interessargli è mettere in luce
una serie di tendenze poco visibili, ma profondamente diffuse, che
dicevano dello spirito di un'epoca e di una nazione che si lasciava
alle spalle le ferite del terrorismo e le battaglie ideologiche dei
decenni precedenti, andando incontro al futuro con un sorriso, ma
senza elaborare le profonde trasformazioni che nel frattempo erano
maturate nella coscienza collettiva, la cosiddetta pancia del Paese.
L'aspetto più
interessante del volume riguarda lo stile: la divisione in cinque
macro-argomenti non impedisce infatti all'autore di adottare una
forma narrativa molto scorrevole, che spesso devia dal percorso
principale attraverso divagazioni utili a ribadire la natura
composita dei fenomeni raccontati. Ci si ritrova così guidati lungo
percorsi dove punti apparentemente lontani si collegano e si cerca di
dare corpo a una visione ad ampio raggio: ogni aspetto finisce così
per nascondere molte possibili sfaccettature e un unico punto
prospettico può aprire diversi percorsi tematici (per orientarsi
nella galassia di riferimenti viene utile l'indice dei nomi
pubblicato in coda).
Il libro abbraccia fino
in fondo questo punto di vista “allargato”, lasciando al lettore
le considerazioni finali, senza tirare somme in maniera troppo netta:
l'impressione che la lettura suscita è dunque quella di un'epoca
complessa e difficile, per l'Italia e non solo (sebbene la politica
estera resti sullo sfondo, evocata soltanto quando ha ricadute
dirette sulla scena nostrana). Un ritratto quindi più reale di
quello propagandato dalla saggistica più celebrativa, non rancoroso,
che rappresenta un primo passo per una storicizzazione più
equilibrata, sebbene ancora impossibile, vista la vicinanza del
periodo preso in esame - “L'inizio” del titolo può essere letto
anche in questo senso.
L'analisi può dunque
dirsi un buon punto di partenza, complice anche la ricca
documentazione riassunta dall'autore in un capitolo apposito,
preferito alle classiche note a pie' di pagina – il sottoscritto
avrebbe preferito questa seconda e più classica soluzione, ma è
comprensibile l'esigenza di non appesantire eccessivamente la
lettura.
Amati e odiati in egual
misura, gli anni Ottanta restano un decennio controverso: spensierati
o futili? Fantasiosi o egoisti? A sostenere le ragioni assolutorie è
soprattutto un'ampia saggistica che poggia sull'effetto nostalgia,
sulla consapevolezza che un'intera generazione ha attraversato quel
periodo negli anni della prima infanzia/adolescenza, assorbendo per
osmosi il ricchissimo insieme di influenze prodotte da cinema,
televisione, fumetti e quant'altro, senza preoccuparsi troppo del
resto. Si deve comunque precisare come questo tipo di rievocazioni
spesso indichino come “anni Ottanta” un periodo che in realtà si
allunga perlomeno fino ai Sessanta, complici gli sfasamenti temporali
della distribuzione – l'invasione dei cartoni animati giapponesi,
ad esempio, ha importato con un paio di decenni di ritardo materiale
anche molto precedente.
Molti libri si sono
perciò impegnati a fare da guida in questo mare magnum di
suggestioni infantili: Per il potere di Grayskull di
Alessandro Apreda si presenta come uno dei più agili e divertenti,
complice un piglio che è allo stesso tempo partecipe e
demistificatorio, perché orientato a esaltare alcuni paradossi
dell'epoca. L'autore infatti ci tiene a precisare che il volume, più
che una guida canonica è “un insieme di ricordi e suggestioni
che quel periodo porta ancora alla mente, patrimonio comune,
trent'anni più tardi, per chi all'epoca era già in giro a fare
danni con un pupazzino dei Masters o una Barbie in mano” – il
che ci riporta anche alla precisazione di cui sopra, essendo la
bambola Barbie in giro fin dal 1959.
Chi frequenta la
blogosfera ha già familiarità con il particolare stile di Apreda:
il suo blog L'Antro Atomico del Dr. Manhattan è infatti
un'autentica bibbia della nostalgia, affrontata con piglio
sistematico ma non apologetico, grazie a un'ironia sempre vincente e
uno stile scoppiettante (sublimato da una serie di neologismi in
parte presenti anche nel volume qui considerato), in grado di
restituire immagini sempre molto vivide – si pensi a frasi come
“palloni di cuoio veri ne giravano pochi, e quelli che giravano
finivano presto spellati sull'asfalto mangiaginocchia o ingoiati da
voraci balconcini di condomini anziani”.
Il libro evoca così, con
semplicità e divertimento, quindici punti nodali dell'immaginario
anni Ottanta, spesso associati ad altrettante icone: le proiezioni
cinematografiche gratuite per vendere enciclopedie; lo zainetto
Jolly; il calcio giocato per strada con il Super Santos; la linea di
giocattoli dei Masters of the Universe; l'invenzione del Walkman, i
cartoni animati giapponesi sportivi e di robot; i telefilm; le sale
giochi; gli home computer della Commodore; il Cubo di Rubik (non
amato dall'autore); le bici BMX; l'estetica tamarra dei film
alla Top Gun; i cataloghi della Postalmarket e il cinema di
fantascienza.
Ne viene fuori una
geografia di luoghi e segni che Apreda affronta da una prospettiva
chiaramente molto personale, ma che riesce a creare risonanza con i
lettori che hanno effettivamente vissuto quel periodo, segno della
particolare comunanza di vedute e interessi che ha unito suo malgrado
lo stivale. Per il lettore novizio sarà invece interessante notare
gli incredibili paradossi di un'epoca che espandeva la
modernizzazione iniziata nei Sessanta del boom economico, modulandola
attraverso un'estetica del futuro ormai a portata di mano (si
noti l'elemento tecnologico dato dagli home computer, dal Walkman o
dalla fantascienza), attraverso scaltre strategie di massa (le catene
di giocattoli come i Masters o i Transformers). Apreda in questo
senso è bravo a sottolineare come si trattasse soprattutto di una
illusione di futuro, attraverso estetiche kitsch, pur
nei toni ammorbiditi garantiti dall'effetto nostalgia. In questo
senso, ogni capitolo è chiuso da una nota in cui si sottolineano le
differenze tra passato e presente (“Ti accorgi che sono passati
trent'anni perchè...”), tra un decennio che si credeva
all'avanguardia, e una realtà che ne ha presto smascherato le
velleità.
Il fine, come già
evidenziato, resta comunque assolutorio, volto a orientare
l'entusiasmo di un'epoca che esaltava il piacere del fantastico a
misura di bambino e che, fra le varie mostruosità del caso, ha anche
seminato molte opere positive. La prospettiva a volo d'uccello non
garantisce eccessivi approfondimenti, e a volte cede eccessivamente
alle logiche di una scrittura che vuole far soprattutto divertire, ma
nel complesso il ritratto è sincero e piacevole alla lettura, nella
consapevolezza che “sfilare quegli occhiali con le lenti rosa
[della nostalgia] è sempre un casino”.
Per il potere di
Grayskull – Meraviglie e mostruosità degli anni 80
Penso
che adesso noi stessi stiamo provando l'ansia che provavano i nostri
padri e le nostre madri al tempo in cui vissero. Il non sapere dove
si vada. La guerra... non si sarebbero neanche sognati di far guerra
all'America. Né tantomeno di cacciarsi nel pantano di una guerra
contro la Cina. E tipo... mentre erano tutti obnubilati, finì per
accadere. Poi, alla fine, come per pazzia, abbiamo finito per fare
guerra ad avversari in giro per il mondo. Non ho mai ben capito quali
fossero i sentimenti delle persone che vissero in quell'epoca, ma di
questi tempi penso “Ah, erano sentimenti come questi!”. Siamo
orientati in quella direzione. E dal momento che non stiamo seguendo
una storia di cui si conosca il finale, non sappiamo cosa accadrà.
Tuttavia, ormai con questo smetto di fare film. Più di così non
potrei fare. Basta così.
(Hayao Miyazaki)
Nel 2013 si è verificata
la straordinaria coincidenza dell'uscita (quasi) contemporanea degli
ultimi lavori di Hayao Miyazaki e Isao Takahata: Si alza il vento
e La storia della Principessa Splendente. Pensati per
un'effettiva uscita nello stesso giorno (poi mancata a causa della
consueta “rilassatezza” di lavorazione di Takahata), i due film
hanno così riproposto una doppia uscita che ha un precedente nel
lontano 1988, quando le sale giapponesi accolsero insieme Il mio vicino Totoro e Una tomba per le lucciole. La
straordinarietà dell'evento ha quindi spinto la regista Mami Sunada
a immortalare in un documentario la lavorazione all'interno dello
Studio Ghibli, in un'opera di pedinamento straordinaria e capace di
restituire non solo il processo produttivo delle pellicole, ma anche
la peculiarità umane e la filosofia dei due autori.
L'attenzione, in verità,
si concentra sul solo Miyazaki, vuoi perché uomo simbolo dello
Studio, vuoi perché maggiormente loquace, in opposizione a un
Takahata che resta nell'ombra in quanto artista più schivo persino
verso i produttori. Seguiamo così le fasi di lavorazione di Si
alza il vento e i pensieri del Miyazaki animatore e uomo, spinto
da un'incrollabile energia verso il suo lavoro, ma, allo stesso
tempo, da una marcata disillusione verso il mondo circostante. Le
parole di Miyazaki, disegnano infatti con lucidità la fine di un'era
in cui il cinema sembrava poter dialogare con una realtà ora
marchiata dalla crisi economica iniziata nel 2008. Il regista è
consapevole non soltanto di essere al lavoro sul suo ultimo
lungometraggio, ma anche della fine di un sistema produttivo, ma,
come l'ultimo dei guerrieri, continua a disegnare indefesso, perché
è ciò che sa fare – in un passaggio fugace ma significativo la
regista gli chiede della moglie, di come abbia fatto a capire che era
la donna giusta per lui e Miyazaki non conosce la risposta, spiega
che è il mistero della vita, una definizione che si adatta bene
anche a tutto il suo lavoro di animatore.
Tutto questo si riflette
nel particolare approccio verso il nuovo film, che Miyazaki sembra
creare come spinto da una necessità che Suzuki definisce un dialogo
interiore, sul filo dei ricordi di un passato parimenti diviso:
splendido nelle infinite possibilità che poteva stimolare, ma poi
precipitato nel gorgo della guerra. La nostalgia si tinge perciò dei
colori dell'amarezza, in una circolarità destinata a riflettersi nel
puramente duale presente. L'incontro di sogno e follia dei titolo
diventa così quello tra il pessimismo espresso a parole da Miyazaki
(e dai vari animatori, “vessati” dal suo perfezionismo) e uno
stile visivo capace di esaltare la bellezza e il senso di serenità
trasmessi dalla natura circostante e da un ambiente di lavoro
apparentemente confortevole, dove il regista può rilassarsi salendo
sul tetto della struttura ad ammirare il cielo.
Il lavoro di pedinamento
diventa così la poetica ricerca di una sintesi fra continui opposti:
il passato, raccontato attraverso immagini di repertorio e che ci
mostrano un Miyazaki attivista e mosso da grandi ideali, e un
presente dove fare i conti con l'industria, preservando ancora, per
quanto possibile, i sogni degli anziani maestri; il punto di vista,
così, si ribalta, il dietro le quinte diventa il vero momento
qualificante di un'animazione che vedremo finita solo di sfuggita,
perché non è lì che si concentra il processo creativo e il dialogo
fra il Miyazaki uomo e l'artista, e fra lui e l'ombra sempre presente
di Takahata (un rapporto di amore-odio, di rivalità per Suzuki, ma
che allo spettatore non sfuggirà essere comunque di continuo stimolo
per entrambi i registi).
La qualità umana del
documentario sta quindi tutta nel processo di elaborazione che il
regista compie sugli spunti a lui più cari, senza lavorare a una
sceneggiatura, ma seguendo un estro che rivela le proprie finalità
nel suo farsi, dove la storia di un ingegnere aeronautico spacciato
per guerrafondaio diventa un apologo antimilitarista e dove il
“maniaco depressivo e furioso tremendo” regista (così si
definisce lui stesso) può infine scoprirsi commosso per il suo
risultato, che inneggia a una vita ancora da vivere.
David Dunn è un tipo
ordinario, che lavora come guardia giurata presso lo stadio di
Philadelphia e attraversa un periodo di crisi con la moglie.
Sopravvissuto al terribile deragliamento del treno su cui viaggiava,
David è rimasto miracolosamente illeso: il fatto gli attira le
attenzioni di Elijah Price, un collezionista di fumetti affetto da
una particolare anomalia genetica che gli è valsa il soprannome di
“uomo di vetro”, a causa della facilità con cui le sue ossa
tendono a rompersi. L'uomo infatti, insinua la possibilità che i
comics supereroistici si basino su un presupposto reale: l'esistenza
di esseri indistruttibili, del tutto opposti a quelli fragilissimi
come lui. E David potrebbe essere uno di loro, un supereroe che
ignora la sua vera natura. Sebbene folle, l'ipotesi inizia a farsi
strada nella mente di David, che ripensa alla propria vita: è mai
stato malato? Si è mai fatto male sul serio? Ha mai messo alla prova
se stesso per comprendere se possiede davvero dei poteri?
Oggi che il tema dei
supereroi è alquanto inflazionato, è utile riscoprire questa
preziosa pellicola di M. Night Shyamalan, realizzata nel cono d'ombra
del fortunato Il sesto senso e per questo non considerata con
il giusto merito ai tempi dell'uscita in sala. Film eccentrico eppure
estremamente raffinato – come tutti quelli del regista, peraltro –
Unbreakable è seminale nella carriera dell'autore
indo-americano per come stabilisce
la sostanza di tutto il suo cinema: lo fa attraverso il gioco di
rispecchiamenti fra la realtà “vera” e il suo doppio fantastico,
che finisce per legittimare entrambi gli estremi in una forma, per
l'appunto, assolutamente seria e realistica eppure costantemente
sopra le righe.
Così accade nel gioco di
legittimazione reciproca che si instaura fra il dimesso protagonista,
ignaro della sua natura e della propria missione, afflitto com'è da
problemi assolutamente “terreni” (il lavoro, la famiglia che va
in pezzi); e il collezionista di fumetti, lucidissimo eppure folle
nella sua tesi ultraterrena di legittimazione dell'eroe e che perciò
si situa volutamente in una sfera fantastica che il regista tratta
però con la serietà del grande racconto mitico. Il bello è già
qui, in un gioco di identità fra il dramma e i codici del fumetto
dove, ricollocando i secondi nello spazio serissimo del primo, il
regista smonta e analizza pezzo per pezzo i meccanismi narrativi del
racconto supereroico. Che non sono soltanto quelli più appariscenti
(la forza sovrumana, il potere speciale, il punto debole, il rapporto
con la propria nemesi), ma anche e soprattutto quelli ideali: la
capacità di ispirare il Bene, la forza di dare conforto a chi vive
una vita nella paura, l'esaltazione dell'atto salvifico che sollevi
il mondo dalla mediocrità.
Shyamalan osserva questa
dinamica con uno sguardo bambino – perché è nell'infanzia che
risiede la fede più assoluta nel mito e la fascinazione per il
racconto. Questo è evidente sin dall'inquadratura iniziale in cui il
protagonista David Dunn è “spiato” nello spazio fra i sedili del
treno – un punto di vista che poi scopriremo essere, appunto,
quello di una bambina. E poi innesta questa trasversalità del punto
di vista sul rapporto padre/figlio che lega David al piccolo Joseph:
che è l'unico a riconoscere immediatamente e spontaneamente la
natura supereroica del genitore. Quale figlio non “vede” infatti
nel proprio padre un eroe? Ma nella naturalezza del gesto, Shyamalan
racchiude tutto il senso della fiducia e, perché no, della
meraviglia che lega naturalmente anche il lettore alle avventure dei
propri idoli cartacei. Nello spogliare una volta per tutte i comics
dalla loro aura pop, in modo da raggiungerne l'essenza, Shyamalan li
riconduce a dinamiche quasi primigenie, che sono quelle che muovono i
gangli primari della società, e risiedono nelle prime iterazioni di
ogni uomo con la propria famiglia. Anche per questo l'elemento
familistico ha un'importanza primaria nel processo di ridefinizione e
legittimazione che porterà David a riconoscersi in quanto eroe.
Il gioco di
rispecchiamenti è dunque articolato su un continuo dualismo delle
parti che è anche continuo rovesciamento dei presupposti su cui si
basa il mondo “prima” della conoscenza del proprio doppio
fantastico: c'è l'eroe e la sua nemesi, dove uno è talmente
ordinario da non sospettare la propria invulnerabilità e l'altro è
così fragile da non far sospettare la follia ostinata che lo muove.
Shyamalan elabora questi spunti con uno stile visivo che alterna la
fissità delle figure a una mobilità del punto di vista ottenuto
attraverso lunghe inquadrature che trasmettono l'idea di una macchina
da presa estremamente leggera. La fisicità degli attori viene
ugualmente coinvolta nel processo: Bruce Willis oscilla fra la
pesantezza del proprio fisico robusto e la fragilità ispirata dalla più terrena calvizie, fino a
sparire nella scena della “vestizione” (tema ricorrente nel
cinema del regista) che lo rende una sorta di ombra fluttuante –
lieve e “bidimensionale” come l'iconografia di un comic, appunto,
ma capace anche di trasmettere l'idea ultraterrena della presenza
eroica. Al contrario, Samuel L. Jackson alterna pure la precarietà
della sua natura di “uomo di vetro” con una natura più
appariscente: vestiti violacei, bastone di cristallo, e capigliatura
diseguale si uniscono infatti a una gravità recitativa sintetizzata dal suo sguardo profondo e
vagamente spiritato, eccentrico sì, ma anche talmente evidentemente
folle da non sembrarlo.
Il finale in cui le carte
finalmente si svelano, ben lontano dall'essere un gratuito colpo di
scena – come teorizzavano all'epoca i facili codificatori dello
Shyamalan artefice di facili twist finali – tenta dunque la
saldatura fra gli elementi fino a quel momento posti in essere e
attua così il ribaltamento più ardito e feroce: quello che stempera
il successo dell'eroe nel dramma della responsabilità che si porta
dietro e di cui è a suo modo artefice. Una vera storia di origini,
dove il disastro crea la rinascita dell'uomo, ma in ultima istanza ne
costruisce anche il dolore. Nelle intenzioni circolate all'epoca da
regista e interpreti, Unbreakable sembrava dover proseguire con una serie,
forse una trilogia, ma purtroppo tutto è finito qui. Resta in ogni
caso un esperimento felice e sorprendente, ancora oggi che la parte
pop del concept supereroico ha preso il sopravvento senza possibilità
di interventi registici forti sul genere. Il primo film di supereroi
senza velleità da blockbuster, ma, anzi, da “piccolo” racconto
sul senso dell'umanità.
Il peggio è passato, la crisi del
settimo anno è alle spalle e il blog è arrivato agli otto anni di
vita (nella giornata di mercoledì 16 Marzo). Come si può notare,
gli ultimi aggiornamenti spaziano fra libri, costume, fumetti e
curiosità, nel tentativo di rendere lo spazio un po' più dinamico:
il cinema resta infatti l'interesse maggiore, ma nella società
contemporanea fa sempre più rima con un intrattenimento a 360° che,
naturalmente, va visto come un incentivo a variare lungo differenti
possibilità.
Quindi non più (solo) buon cinema a
tutti, ma buona immersione nella moltitudine degli interessi.
Una nota sull'immagine di apertura:
ogni anno ne cerco sempre una che richiami in qualche modo il numero
dell'anno, da cui l'idea del Super 8 dell'AVO Film, che ha pure una triplice, ulteriore, valenza:
- lo avevo tanti anni fa (poi chissà
che fine ha fatto, mai sottovalutare la capacità dei genitori di far
sparire i balocchi d'infanzia dei figli);
- l'idea stessa del formato Super 8
richiama quella del tempo che passa;
- postare un'immagine di Goldrake
attira sempre l'attenzione, non trovate?
La citazione
(volontaria?) dal capolavoro di Yasujiro Ozu non tragga in inganno:
il viaggio del titolo è qui una quest dal sapore
autobiografico con cui il fumettista calabrese Vincenzo Filosa
racconta il suo incontro-scontro con la cultura nipponica nella
capitale di quel lontano paese. Appassionato di fumetti e con una
particolare curiosità verso gli aspetti meno noti del manga, Filosa
ha infatti visitato la città giapponese per istruirsi direttamente
“sul campo” e emulare così i maestri del manga e del gekika:
quale sia la differenza tra queste due forme espressive ce lo
racconta il suo alter ego Francesco che, per l'appunto, viaggia a
Tokyo per fare incetta di volumi e studiare lo stile dei mostri
sacri. In primis Osamu Tezuka, il “dio del manga” che qui appare
più come un riferimento per il genere che come modello del lavoro di
Filosa, maggiormente legato al gekika, il manga “adulto” e
“realistico” che ha il suo esponente di maggior spicco in
Yoshihiro Tatsumi (autore di Una vita tra i margini, in Italia
per Bao).
Dimostrando una volta di
più la sua intelligenza anticonformista, però, Filosa accentra la
sua attenzione in particolare su due figure meno note del filone, i
fratelli Yoshiharu Tsuge e (in particolare) Tadao Tsuge, che
Francesco letteralmente insegue nella speranza di incontrare nel suo
negozio in Edogawadai. Il racconto di questa ossessione si intreccia
con quello della vita nella capitale e con lo spaesamento che il
timido studente italiano prova di fronte alla particolare realtà
nipponica, e alla vertigine sensoriale data dall'impatto con una
metropoli variegata e non priva di punti controversi (si citano anche
i casi di suicidio ormai avvertiti quasi come rituali nelle gallerie
della metropolitana o nei boschi circostanti). Questo aspetto finisce
ben presto per assorbire la maggior parte della narrazione,
attraverso uno stile di racconto che abbraccia totalmente la visione
soggettiva di Francesco, mescolando, senza soluzione di continuità,
realtà e sogno a occhi aperti, esperienze reali e percezioni
allucinate che restituiscono un timor panico verso un mondo concreto
ma allo stesso tempo alieno.
Pertanto, la dimensione
fiction data dal fumetto si intreccia alla componente
autobiografica, in una forma intermedia fra l'estetica propria del
gekika e il racconto di formazione all'occidentale: il fumetto ha
infatti l'aspetto di un autentico manga, con tanto di senso di
lettura ribaltato e soluzioni visive debitrici dei vari maestri.
Sebbene abbastanza omogeneo nello stile, infatti, il disegno presenta
sensibili differenze tra i vari capitoli, a volte si fa più
realistico e fine nel tratto, in altri casi assume una caratura più
essenziale, con poche linee a descrivere le forme e le situazioni,
fino a momenti dichiaratamente grotteschi – lo stesso Francesco
sembra uscito visivamente da un'opera di Shigeru Mizuki, pure evocato
nelle visioni allucinate della foresta dei suicidi. Per questo motivo
il ritmo può apparire a tratti frammentato e spiazzante,
l'impressione è quella di un racconto che a volte “salta” da una
situazione all'altra, ma in questo modo riesce a riprodurre il senso
di spaesamento del suo protagonista. Trasferendo la sua curiosità
anticonformista nella stessa raffigurazione del Giappone, Filosa ci
propone un'opera piena di riferimenti alla cultura pop nipponica
(molto noti anche in Occidente), ma allo stesso tempo ci mostra un
Giappone inedito, oscuro, notturno e animato da una violenza casuale
e perciò disumana, ma dove pure è possibile stringere amicizie
forti e trovare spazio per gli affetti.
La ricerca dei propri
numi tutelari torna rilevante nella parte finale, con il possibile
incontro con Tadao Tsuge, il cui destino è bene lasciare alla
scoperta dello spettatore. L'opera è realizzata per l'editore
bolognese Canicola, che testimonia anche in questo caso la scelta per
realtà più di nicchia e anticonformiste, ma non per questo meno
interessanti.
Il nome di Marco
Pellitteri è uno dei primi a risaltare quando si affronta il mare
magnum della saggistica sull'animazione giapponese: non solo
perché è stato, di fatto, uno dei precursori del filone, ma anche
per la grande consapevolezza che ha sempre animato il suo lavoro. Da
un lato, infatti, i suoi scritti hanno avuto il merito di
sistematizzare e analizzare in prospettiva critica il materiale
giunto in Italia dalla fine degli anni Settanta, dando voce alle
istanze di una generazione che, in fondo, lo aveva assorbito quasi
per osmosi, senza forse andare troppo in profondità nelle sue
caratteristiche peculiari – ovvero quelle che lo avevano
immediatamente distinto da ciò che c'era prima e da quanto è
venuto dopo. Il testo fondamentale, in questo senso, è
Mazinga Nostalgia, che ha avuto varie riscritture dal 1999 in
poi, e che mette a confronto il “nuovo” immaginario giapponese
con quello dei “padri”. Il che ci porta all'altro merito della
sua analisi: confutare molte delle cattive impressioni della prima
ora, suscitate dalla novità in un pubblico adulto, abituato a
differenti codici espressivi e subito pronto a gridare alla
corruzione dell'innocenza. Si tratta quindi di un lavoro che è
allo stesso tempo critico, analitico, ma anche utile a rivendicare
l'appartenenza a un immaginario e, per estensione, una caratura
identitaria al fandom degli anime.
Il Drago e la Saetta
rappresenta l'estensione e il parziale completamento di quel
percorso, attraverso un corposo volume che mira a finalità
dichiaratamente accademiche. Il taglio si fa perciò ancor più
storico-sociologico-analitico e si prosegue nella confutazione di
molte credenze della prima ora, ponendole in una prospettiva che
guardi non solo al momento della transizione fra passato e presente,
ma anche alle possibili nuove istanze dell'animazione giapponese in
rapporto con la modernità – naturalmente va considerato come il
volume abbia ormai alcuni anni alle spalle, essendo uscito nel 2008.
Una sorta di analisi del “distacco”, che cerca di riscattare un
immaginario dalla componente totalmente nostalgica (comunque non del
tutto rinnegata) per immergerlo ancor più nella cultura d'origine e
anche nella contaminazione di segni, forme e linguaggi che nel tempo
lo stesso ha naturalmente creato attraverso il confronto con i
mercati che hanno subito “l'invasione”: in primis (sebbene in
modo meno accentuato che altrove) gli Stati Uniti e poi,
naturalmente, l'Europa, con l'Italia e la Francia a fare da
apripista. La mappatura è comunque ad amplissimo raggio, complici
anche gli studi che Pellitteri sta compiendo con alcuni analisti
internazionali per rendere il suo lavoro il più possibile
comparativo e completo.
Pertanto, l'autore
individua due grandi “movimenti” nel lungo rapporto fra
l'animazione giapponese e il mondo, sintetizzati nelle icone eponime
del Drago e della Saetta, che trasfigurano le due serie individuate
come più peculiari per i ragionamenti posti in essere: Ufo Robot
Goldrake (dove il robot dalle corna dorate richiama vagamente
l'idea visiva del Drago) e Pokémon (con la Saetta che
richiama le scariche elettriche emesse da Pikachu, l'animale-simbolo
del brand). La prima delle due serie sintetizza infatti l'impatto
dirompente di una nuova narrazione seriale che sopraggiunge sui
mercati creando un'immediata affinità tematico-spettacolare con il
pubblico più giovane, affascinato dagli scontri epici, dai
protagonisti tormentati e dalla particolare miscela di pacifismo
ideale e utopia dell'esplorazione spaziale rovesciata nell'incubo
dell'invasione nemica. L'analisi di Pellitteri è completa laddove
non si ferma alle peculiarità più volte analizzate anche in altre
sedi, ma cerca pure i significati più reconditi dell'alterità
insita in un eroe alieno ma sentito come affine (una possibile
metafora del rapporto di vicinanza-lontananza fra il Giappone e gli
Stati Uniti?).
L'impatto di Goldrake
non esaurisce però la spinta di un nuovo modello che giunge in
Europa in maniera più casuale che per reali volontà di espansione
commerciale: per attendere questo secondo movimento dovremo appunto
attendere il fenomeno mondiale di Pokémon, pensato per una
strategia di ampio respiro e che riesce pure a sintetizzare la
transmedialità dell'immaginario nipponico, articolato, oltre
che sul fronte animato, su quello dei videogame e del merchandise. La
riflessione sui contenuti si accompagna così a un'analisi delle
strategie di mercato, sempre tenendo fermo il rapporto con le
industrie delle nazioni occidentali (statunitensi in primis), in
grado di fornire una prospettiva il più possibile completa del
fenomeno.
Naturalmente, le due
serie permettono anche una trattazione di alcune iconografie e
categorie percepite dall'autore come particolarmente rappresentative
del particolare sentire giapponese: l'infante, attraverso l'estetica
kawaii, ovvero quella particolare espressione della carineria
e del grazioso che stilizza un immaginario infantile in forme
apprezzate anche da un pubblico adulto; la macchina, attraverso
l'icona del robot e del corpo sintetico, dai giganti d'acciaio come
il già citato Goldrake, fino alle derive cyberpunk che riflettono il
particolare rapporto fra l'evoluzione tecnologica e il disagio
esistenziale delle generazioni moderne; e infine la mutazione, intesa
un po' come il punto d'unione dei precedenti percorsi, dove la
contaminazione dona sostanza a realtà ibride e iconografie nuove
(come possono essere, appunto, quella dei Pokémon), “dal
pesante al leggero e dal reale al virtuale”. Tutte queste forme
attraversano e sintetizzano tanto l'animazione quanto le altre forme
dell'industria dell'intrattenimento nipponica, arrivando quindi anche
al fumetto, alla musica, al cinema e via citando.
Il libro cerca perciò di
dare sistematicità a questa complessa mole di argomenti attraverso
un approccio lineare e il più possibile chiaro, con una divisione in
capitoli netta ma dove ogni argomento sembra confluire nel successivo
in una forma sicuramente densa, puntigliosa nei suoi molteplici
riferimenti e debitrice di un'impostazione accademica, ma comunque il
più possibile discorsiva. I riferimenti interni sono evidenziati
attraverso rimandi precisi e anticipazioni degli argomenti trattati
nelle pagine successive. Il percorso parte quindi dalle peculiarità
tematiche dell'animazione e della cultura giapponesi, in grado di
esaltare la particolare natura di un sentire che è fortemente
identitario rispetto alla Storia dell'Arcipelago, ma anche molto
“poroso” e abile a recepire gli spunti altrui. Il che ha
determinato la particolare universalità di un linguaggio da tutti
percepito come fortemente giapponese, eppure capace di fare breccia
nei pubblici di tutto il mondo grazie a iconografie nette ma ben
riconoscibili.
Gli spunti sono
molteplici, e tengono conto anche della particolare mutazione del
mercato dell'intrattenimento e della mutazione economica che, nel
corso dei decenni, ha interessato un mondo sempre più globalizzato:
come la cultura e l'animazione giapponesi sono state capaci di mutare
pelle, così il mondo è cambiato con loro e il racconto di questa
conoscenza reciproca, al netto delle confusioni che il testo cerca di
chiarire, ha dunque il sapore di un dialogo stratificato e fecondo.
Non mancano anche argomenti più controversi, che riflettono il
dibattito interno e le possibili recrudescenze conservatrici della
società nipponica, sebbene gli autori dimostrino anche un
atteggiamento appassionato che a tratti assume il sapore di una
partigianeria volta a esaltare in modo particolare la cultura
nipponica a scapito di quelle occidentali (si veda in particolare il
saggio di Jean-Marie Bouissou sul manga, dove i confronti con il
fumetto euro-americano appaiono eccessivamente esemplificativi).
A proposito dei
contributi esterni, oltre all'appena citato saggio di Bouissou, il
volume presenta inoltre una prefazione del sociologo giapponese
Kiyomitsu Yui, e interventi di Gianluca Di Fratta, Cristiano
Martorella, Bounthavy Suvilay, pure orientati a rendere il lavoro il
più completo possibile.
Il Drago e la Saetta –
Modelli, strategie e identità dell'immaginario giapponese
Enzo Ceccotti è un
ladruncolo di quart'ordine in una Roma degradata e difficile. Un giorno, mentre è
in fuga dalla polizia, viene a contatto con dei rifiuti tossici
scaricati nel fiume Tevere e acquisisce una forza straordinaria. La
sua vita, già scossa da questo evento, viene ulteriormente
complicata dalla conoscenza di Alessia, una ragazza affetta da
disturbo da stress post traumatico conseguente alla morte dei
genitori, che si esprime in una visione compulsiva della serie
animata “Jeeg robot d'acciaio”. Scoperti i poteri di Enzo,
Alessia vede lui l'incarnazione dell'eroico Jeeg. Fra il riluttante
eroe e la sfortunata ragazza nasce così una strampalata ma tenera
relazione, anche se le capacità di Enzo iniziano a fare notizia e ad
attirare l'attenzione dello Zingaro, un piccolo malavitoso, afflitto
da manie di grandezza che lo rendono un'autentica mina vagante.
Accolto con grande calore alla Festa del Cinema di Roma 2015 e, subito dopo, a Lucca Comics & Games,
arriva finalmente nelle sale il primo lungometraggio di Gabriele
Mainetti, sostenuto con forza dal distributore Lucky Red attraverso
un'intesa campagna sui social network e l'uscita nelle edicole di una
versione a fumetti, scritta da Roberto Recchioni e disegnata da
Giorgio Pontrelli. L'accenno a Jeeg Robot nel titolo, ha comunque
disorientato una parte del pubblico, convinta di trovarsi di fronte a
una scialba trasposizione della celebre serie animata, creata dalla
Toei Animation nel 1975 a partire da un'idea di Go Nagai. Ancora sui
social network, sono così fioccate svariate polemiche, legate a un
presunto delitto di lesa maestà nei confronti del robot animato, da
molti considerato un'autentica quell'icona generazionale. Nulla di
tutto questo, in realtà, per una polemica pretestuosa, che ricorda
quella che ha pure accompagnato l'uscita di Pacific Rim, da
alcuni considerato a torto una “copia” di Neon Genesis
Evangelion (in quel caso senza considerare ovviamente il fatto
che il genere giapponese dei mecha, all'epoca dello stesso
Evangelion, aveva già almeno due decenni di vita alle
spalle...).
Per capire meglio il
senso dell'operazione è bene esplorare la precedente filmografia di
Mainetti e, in particolare, i due cortometraggi che lo hanno imposto
all'attenzione generale e dove già risaltava il sodalizio artistico con lo sceneggiatore Nicola Guaglianone - qui nel film affiancato dal fumettista Menotti. Il primo, Basette, del 2008, racconta
la storia di un piccolo rapinatore romano (interpretato dall'ottimo
Valerio Mastandrea), grande fan di Lupin III, che riesce a
coronare il sogno di “trasformarsi” nel suo eroe proprio
nell'attimo del maggiore declino, durante un colpo andato a male, che
sarà poi anche l'ultimo della sua vita. A questo segue, nel 2012,
Tiger Boy, in cui un bambino segue con passione le imprese di
un wrestler con la maschera da tigre, che diventa un modello cui
aggrapparsi per reagire agli abusi sessuali perpetrati ai suoi danni
dal preside della scuola. Il riferimento pop al celebre L'uomo
tigre non è mai esplicitato, ma risuona come un'eco ugualmente
riconoscibile dallo spettatore.
Entrambi i lavori,
raggiungibili attraverso i link qui sotto, rivelano quindi un autore
cresciuto nel pieno di un immaginario pop, che diventa il mezzo (e
mai il fine) per affrontare i risvolti più difficili della realtà:
un punto di fuga da cui raccontare di protagonisti dissociati
rispetto al mondo in cui vivono, ma che più di tutti riescono a
metterne a nudo le criticità. La citazione, in questo caso, diventa
quindi un'interfaccia per raffigurare le contraddizioni umane nella
pienezza dell'espressione artistica, e, forse, l'unico mezzo che
questi personaggi hanno per riuscire a volgere a proprio vantaggio un
mondo che li condanna a una perenne sconfitta. D'altronde, non è a
questo che servono gli eroi?
Lo chiamavano Jeeg
Robotrappresenta la naturale evoluzione di questo percorso: la
forma del lungometraggio permette infatti a Mainetti di ispessire i
termini del discorso, senza tradirne gli assunti di fondo. Riecco
quindi un protagonista disilluso e solo, costretto nel ruolo del
ladruncolo perdente, che, investito del potere e del ruolo del
supereroe, ottiene la possibilità di stravolgere la sua vita. Lo
farà innanzitutto pensando al proprio tornaconto, finché,
l'incontro con le due figure chiave di Alessia e dello Zingaro, non lo
spingeranno a mettersi in gioco sotto una nuova veste. La
triangolazione si snoda quindi fra personaggi egualmente dissociati,
ma che rappresentano una possibile alternativa al punto di vista
incarnato dall'introverso Enzo. Alessia è quello che lo investe, suo
malgrado, del ruolo di eroe attraverso l'intercessione iconica
favorita dalla figura di Jeeg Robot; lo Zingaro, invece, è il
personaggio naturalmente destinato a rappresentarne la nemesi –
che, come ogni storia di supereroi che si rispetti, altro non è che
uno speculare e un completamento dell'eroe.
Mainetti mantiene così
il tono esistenziale e malinconico già emerso in Basette e
Tiger Boy, ma stavolta apre il fantastico al confronto
costruttivo con il reale, favorendo una possibile riscrittura del
mondo attraverso gli unici modelli possibili, quelli forniti,
appunto, dalla cultura pop. In questo modo, il mito e la fantasia non
restano confinati al sogno o alla visione, ma diventano un elemento
reale, che rende il supereroe verosimile – qualcuno ha mosso
paralleli con Kick-Ass e il Super di James Gunn e il
riferimento non è peregrino. La storia di Enzo Ceccotti ha quindi il
sapore autentico di un dramma delle periferie italiche, ma possiede
anche la capacità immaginifica e fantasy delle storie supereroiche
all'americana. E quindi, così come il ladruncolo diventa suo
malgrado eroe, così il piccolo film di Mainetti diventa anche una
riflessione metanarrativa sul nostro bisogno di simboli, e su come un
racconto di questo tipo dovrebbe sempre puntare a ispirare il meglio
in ogni spettatore (laddove oggi, diversamente, tutto si esaurisce in
un citazionismo inerte e autoreferenziale, indirizzato solo a chi già
conosce il fumetto di riferimento).
Lo chiamavano Jeeg
Robot diventa perciò un piccolo grande film di supereroi
all'italiana, che ha certi crismi della commedia, ma è a tutti gli
effetti un'opera seria e ossequiosa delle “regole interne” del
filone, senza complessi di inferiorità rispetto ai modelli
anglosassoni, ma con una forza personale e vibrante. Merito anche di
una perfetta sinergia con il cast: Enzo/Jeeg è un incredibile
Claudio Santamaria, ingrassato per il ruolo e perfetto per esprimere
il misto di tenerezza e insofferenza tipici del suo personaggio; gli
fa da contraltare un vulcanico Luca Marinelli (che evolve per certi
aspetti il ruolo già sostenuto in Non essere cattivo di
Claudio Caligari) e una fragile eppure intensa Ilenia Pastorelli. Un film da non perdere!
Lo chiamavano Jeeg
Robot
Regia e produzione:
Gabriele Mainetti
Sceneggiatura: Nicola Guaglianone, Menotti (soggetto di Nicola Guaglianone) Con Claudio
Santamaria, Luca Marinelli, Ilenia Pastorelli
Vorrei cantare insieme a
voi... la storia dietro il video!
Buon Anno a tutti, per
iniziare. Siamo a metà Gennaio, e il lungo periodo delle Feste
natalizie, ormai archiviato, è stato celebrato qui sul Nido, come da
prassi, “appendendo” nello spazio delle Visioni dalla Rete lo
spot anni Ottanta della Coca-Cola, con il celeberrimo brano Vorrei
cantare insieme a voi... in magica armonia...
E' un rito che ripeto
praticamente ogni anno, fin dal 2009 (praticamente da quando esiste Visioni dalla Rete) e al quale avevo già dedicato uno scritto: nella
circostanza, anzi, mi interrogavo sull'origine dello spot... che dopo
le opportune ricerche ha finalmente una storia che merita di essere
raccontata.
Intanto iniziamo con un
po' di date: lo spot sembra essere andato in onda in Italia ogni anno a partire
dal 1983, fino al 1991 (stando a Tecatà e alle note alle versioni caricate su Dailymotion), con una parziale riproposizione nel 2011 in una campagna
commemorativa realizzata per i 125 anni del marchio Coca-Cola (qui la
fonte è Wikipedia). La lunghezza dell'arco temporale che copre
praticamente tutto il decennio degli Ottanta, giustifica naturalmente
la natura “cult” dello spot che è diventato un po' il simbolo
dell'arrivo delle Feste (praticamente come fare l'albero o il
presepe) e che rinsalda la tradizione “natalizia” della bevanda
americana – scrivevo l'altra volta che il marchio è stato
fondamentale anche per fissare in maniera definitiva nell'immaginario
globale l'iconografia del Babbo Natale vestito di rosso e bianco.
L'origine di tutto va
rintracciata nel 1971, il 18 Gennaio per l'esattezza, quando Bill
Backer, creativo della Coca-Cola per conto dell'agenzia McCannErickson, era in viaggio per Londra, per creare un brano da usare in
due nuovi spot della bevanda, che sarebbero stati cantati dal
popolare (per l'epoca in particolare) gruppo dei New Seekers. Durante un atterraggio
in Irlanda, per la nebbia, Backer notò un gruppo di persone chiacchierare divertite bevendo Coca-Cola, un'immagine decisamente in contrasto con il nervosismo che serpeggiava fra i passeggeri molto seccati dalla sosta inattesa. La bevanda, insomma, sembrava evocare quasi un potere “pacificatore” e “socializzante”, e questo offrì a Backer lo spunto per
quello che sarebbe diventato il brano I'd Like to Buy the World a
Coke. L'idea, in fondo, era molto semplice: se la Cola ha una simile capacità di spingere la gente all'allegria e alla socializzazione, vorrei comprare una bottiglia per tutti gli abitanti del mondo, in modo che siano felici. Il brano, sviluppato con i compositori Roger Cook e
Roger Greenaway, venne inciso come previsto da New Seekers e usato
nello spot oggi noto come “Hilltop” perché ambientato su
una collina, dove ragazzi di varia etnia cantano uniti nell'ideale
condivisione di una positività senza confini. La forza della Cola,
dopotutto, poggia anche su una capacità di ragionare in senso
mitico, proponendosi come baluardo dell'americanità, intesa
come la tendenza degli States – soprattutto nel periodo della
Guerra Fredda – a ergersi quale nazione buona e sempre pronta
a inneggiare alla pace.
L'atmosfera del video
risente chiaramente delle influenze hippy dell'epoca, nella sua
unione di un'estetica che predica un ideale ritorno alla natura,
unita a un furbo messaggio commerciale (curiosità: il video è stato
girato in Italia, nel Lazio per la precisione, da Roberto Malenotti
dopo che l'Irlanda si era rivelata impraticabile per il maltempo - la fonte è Coloribus.
Alla fine il budget si rivelò altissimo, circa 250.000 dollari. La
diffusione in America iniziò nel Luglio 1971).
Il brano, amato subito
dal pubblico, ha poi avuto anche una sua vita autonoma, con il titolo
cambiato in I'd Like To Teach the World to Sing (In Perfect
Harmony). Essendo i New Seekers impegnati, la prima incisione fu
degli Hillside Singers (i cantanti della collina, per creare l'ovvio
riferimento allo spot). La versione dei Seekers arrivò poco dopo, ecco la cover del 45 giri:
La versione natalizia che
conosciamo è da considerarsi una variazione sul tema, pensata
appositamente per le Feste e, stando alle fonti circolanti in rete,
diffusa a partire dal 1978.
Nei cinque anni che la
separano dalla versione italiana però... qualcosa si perde: il
messaggio pacificatore dei due spot originali si manifesta infatti
attraverso una scelta di cast multietnica, che inneggia dunque
all'abbattimento delle barriere. C'è l'insieme delle persone che,
riunite, cantano (“insieme a voi...”)
e la regia apre su una serie di primi piani, scelti fra i presenti. Nella versione americana del Christmas Hilltop (così è chiamato lo spot natalizio) si parte con una
ragazza di chiara etnia caucasica e, attraverso alcune dissolvenze
incrociate, si passa prima a una ragazza orientale e poi a un ragazzo
nero. Nell'edizione italiana questi ultimi due volti sono tagliati.
In parte il taglio è
giustificato dalla minore durata del filmato, che “accorcia”
tutte le inquadrature (e persino la musica, che parte direttamente
dal cantato senza l'incipit sonoro): lo spot americano dura infatti
50 secondi, contro i 30 della versione italiana. Però è difficile
togliersi dalla testa che la scelta di eliminare i due volti sia
dovuta a qualcosa in più. E' infatti possibile che chi ha curato
l'edizione italiana abbia ritenuto troppo “estreme” per il pacato
pubblico nostrano le fattezze non caucasiche degli ultimi due giovani – un
chiaro sintomo di quanto il multiculturalismo nel nostro paese sia un
valore poco radicato e sempre guardato con sospetto, se non
addirittura con timore.
Una nota stonata che
finisce per ridimensionare il messaggio di fratellanza universale
veicolato nello spot fin dalla sua creazione. Resta il piacere
nostalgico del filmato, la sua capacità di evocare l'aria di
Natale, complice la prolungata esposizione sui nostri teleschermi
e la forza trascinante di un brano che, anche nella nostra lingua, è
davvero difficile non accompagnare con il canto appena iniziano a
risuonare le prime note.
La storia, comunque, non è finita: lo
spot ottiene, come sappiamo, un grande successo in Italia, al
punto che, nel 1986, viene prodotto il disco. Per l'occasione il
testo viene modificato rispetto a quello sentito in televisione, perdendo i
riferimenti alla bevanda, esattamente come era avvenuto con la
versione discografica americana. Nasce così Come vorrei un mondo
che cantasse insieme a me. Il gruppo cantante è accreditato come
Coro Coro, mentre il nuovo arrangiamento, la produzione e la realizzazione sono di
Oscar Prudente. Il brano esce sia su 33 giri, nell'antologia E le
stelle stanno a cantare, che su 45 giri, entrambi distribuiti
dalla CGD Messaggerie Musicali Spa. Quella riportata qui sotto è
proprio la cover del 45 giri che, sul retro, riporta in piccolo e fra
parentesi anche il titolo originale I'd Like to Teach the World to
Sing.
Il nuovo testo italiano è di Cristiano Minellono. Da
notare che sul forum di Zap Zap TV, dell'associazione culturale
TV-Pedia, il testo della versione televisiva “natalizia” è
attribuito invece a Gerry Scotti.
Il
viaggio si conclude, ancora una volta, in America: lo spot originale
è infatti considerato un classico dei commercial statunitensi e così, nel 1990, la Coca-Cola lo ha celebrato con un vero e proprio seguito, intitolato Reunion, dove il cast originale torna a cantare il brano insieme ai figli (viene intonata anche la nuova canzone Can't Beat the Real Thing, usata nello stesso anno nelle campagne principali):
(Un ringraziamento
particolare va a Alessandro Montosi per le informazioni fornite).