"C'è chi crede in dio o nel denaro. Io credo nel cinema, nel suo potere. L'ho scoperto da ragazzino, mi ha aiutato a fuggire da una realtà in cui ero infelice. È una delle forme d'arte più alte che l'uomo ha concepito. Credo nel suo futuro."
(John Carpenter)

giovedì 24 febbraio 2011

L'illusionista

L’illusionista

Anni Cinquanta. L’illusionista Tatischeff gira l’Europa in cerca di locali dove potersi esibire, ma la sua arte appare ormai poco gradita a un pubblico che predilige le nuove stelle del rock’n roll. Giunto in una sperduta isola della Scozia, l’uomo trova una inattesa ammiratrice nella piccola Alice, che decide di seguirlo nei suoi spostamenti. Fra i due nasce così un tenero rapporto che ricorda quello di un padre con la figlia. E mentre Tatischeff cerca di sbarcare il lunario, barcamenandosi fra l’uso dei suoi trucchi da illusionista e lavori molto meno nobili (il meccanico, l’uomo immagine di un negozio di biancheria), Alice impara a scoprire il mondo restando affascinata dalle sue possibilità.


Qualche anno fa, l’exploit del bellissimo Appuntamento a Belleville non aveva soltanto rivelato al mondo il talento di Sylvain Chomet, ma aveva anche fatto avanzare dei paragoni con l’arte di Jacques Tati, complice uno stile che, pur originale rispetto ai capolavori del maestro francese, prediligeva la componente visiva e l’importanza del sonoro rispetto ai dialoghi. L’azione diventava quindi una questione eminentemente fisica, in un tripudio di invenzioni slapstick e in una centralità del connubio immagine/suono che riverberava il potere dei classici del muto. Non appare dunque anomalo che ora Chomet affronti direttamente questa eredità, trasponendo una sceneggiatura mai realizzata dallo stesso Tati.

Il Tatischeff protagonista della storia è lo stesso Tati, di cui il disegno riprende le fattezze e anche quella sorta di inadeguatezza fisica rispetto a se stesso e al mondo: troppo alto e smilzo rispetto ai modi che imporrebbero una figura meno rigida e allampanata, troppo discreto e gentile rispetto a una realtà che sembra inseguire il nuovo lasciandosi facilmente alle spalle il passato. L’inadeguatezza del personaggio è percepibile anche rispetto al suo lavoro di illusionista, che sembra portare con sé l’eredità di un passato dai ritmi quieti e capace di sognare, rispetto a una modernità che si fa strada con la forza dei concerti urlati e del caos metropolitano. Non a caso è in una sorta di non luogo come l’isola scozzese, che sta sperimentando proprio in quei giorni l’arrivo della luce elettrica, che Tatischeff può ancora esibirsi e trovare uno sguardo incontaminato come quello di Alice. E’ in quel luogo che l’illusione ha ancora asilo e coinvolge tutti i presenti, come accade nella poetica scena in cui il protagonista crede che stia nevicando perché vede delle piume di un cuscino spargersi per il cortile.

Il rapporto che quindi si instaura fra l’uomo e la “figlia” adottiva è di coinvolgimento in una realtà che conosce la difficoltà del vivere e che vede vari e pittoreschi personaggi condividere i problemi del cercare un posto dove esibirsi. Nel privilegiare gli aspetti più pittoreschi di una realtà dove il coniglio estratto dal cappello rivela inaspettate velleità carnivore, Chomet lavora comunque su sfumature che si innestano su un contesto estremamente realistico. Siamo dunque distanti dal ritmo scoppiettante e dalle imprese funamboliche di Belleville, al contrario qui la tecnica ricorda quella di grandi maestri dell’animazione giapponese come Yasuji Mori, capaci cioè di lavorare sulle dinamiche del corpo in rapporto allo spazio circostante, sui piccoli gesti che denotano esitazione, e un forte realismo nell’interazione con gli oggetti e gli ambienti. Il tono, da par suo, diventa più malinconico, ma sempre attento a non scadere nel facile patetismo.

Tatischeff, infatti, cerca sempre di preservare la sua integrità rispetto a un mondo che pure non capisce e non sembra capirlo, e la sua esistenza coincide e allo stesso tempo si distanzia da quella di Alice, che pure è uno sguardo alieno rispetto al mondo, ma che al contrario del suo mentore è una figura aperta agli stimoli esterni, curiosa di apprendere le meraviglie della modernità. Così, la presa di coscienza di Tatischeff della propria inadeguatezza scorre di pari passo con la progressiva rinascita di Alice, che gradualmente cambia il modo di vestire e il portamento e passa dalle vesti dimesse di giovane cameriera ai tacchi da donna e sembra aprirsi anche all’amore.

Pertanto, se Tatischaff è un’icona d’altri tempi le cui azioni riverberano questo suo perenne status di immobilità rispetto al tempo, Alice appare invece come una figura di sintesi rispetto a un tempo passato dal quale proviene e una modernità che comunque è attratta dal nuovo e dunque vive il rapporto con la metropoli con sguardo ugualmente sognante.

Il film dribbla così la trappola della facile nostalgia, concentrandosi sull’analisi di due personaggi stretti in una situazione “di mezzo”, in un mondo in fase di transizione (gli anni Cinquanta del dopoguerra) e lascia che il rapporto fra i due sia l’emblema di una realtà che sembra procedere per nette cesure, ma che in realtà evolve attraverso piccoli passi. In questo modo il film riesce a essere allo stesso tempo omaggio all’arte di Tati, ma anche pellicola in grado di stare nel nostro tempo per raccontare l’essenza di una magia, che non è solo al chiuso del teatro ma anche nella complessità del mondo “di fuori”.


L’illusionista
(L’illusioniste)
Regia: Sylvain Chomet
Sceneggiatura originale: Jacques Tati, adattata da Sylvain Chomet
Origine: UK/Francia, 2010
Durata: 90’

venerdì 18 febbraio 2011

Nocturno, Halloween e John Carpenter!

Nocturno, Halloween e John Carpenter!

Segnalo con piacere il numero 102 della rivista Nocturno, attualmente nelle edicole, dove è presente una breve e positiva recensione del libro Halloween – Dietro la maschera di Michael Myers a cura di Mauro Gervasini, che ringrazio per l’occasione.

Ma, particolare ancor più interessante, è la sintesi che si viene a compiere fra un volume realizzato proprio partendo le mosse da un capolavoro di John Carpenter (nume tutelare del Nido) e il dossier stesso della rivista, dedicato al Maestro e alla sua straordinaria carriera. Del grandissimo regista americano sono passati in rassegna i tanti capolavori diretti in oltre trent’anni, dagli esordi di Dark Star all’ultimo The Ward, con dichiarazioni personali che illustrano i suoi pensieri sui singoli titoli. Un lavoro eccellente!


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mercoledì 16 febbraio 2011

Il cigno nero

Il cigno nero

Nina viene scelta per sostituire la prima ballerina Beth nel prossimo allestimento del Lago dei cigni. La ragazza è visibilmente perfetta nella parte del Cigno Bianco, ma non altrettanto per quella del suo doppio negativo, il Cigno Nero, perché troppo inibita e incapace di esprimere l’inquietudine e la sensualità della creatura. Poiché il copione prevede categoricamente che entrambi i ruoli siano ricoperti dalla medesima ballerina, il regista Thomas Leroy decide di sottoporla a un estenuante allenamento, che le permetta di esprimersi totalmente. Nel frattempo Nina è divisa fra sentimenti di empatia e invidia nei confronti della compagna Lily, che invece ha un rapporto molto più sereno con la propria sensualità.

Lo si ami o lo si odi, Darren Aronofsky è un regista straordinariamente coerente e complesso nell’orchestrazione dei suoi racconti. All’indomani di un film emotivamente stratificato, ma narrativamente lineare come The Wrestler, che aveva fatto segnare una svolta nella sua carriera, il regista americano compie una nuova deviazione e cerca una sintesi fra le strutture più composite dei suoi esordi e quella potenza emotiva che aveva reso indimenticabile il capolavoro con Mickey Rourke.

La posta in gioco ancora una volta è quella dell’identità di una figura che deve acquisire lo status di personaggio narrativo, attraverso un viaggio e un confronto con il proprio microcosmo: l’avventura diventa un percorso di rifondazione, ma anche una presa di coscienza dei propri limiti. Può non apparirlo immediatamente, ma Il cigno nero nei fatti rappresenta uno speculare di The Wrestler proprio nella misura in cui Nina attraversa un travaglio che la porta non a scendere a patti con se stessa, ma a prendere atto del dover far coincidere il suo massimo fulgore con la propria autodistruzione, in una sorta di resa dei conti finale con il passato e con il suo status di persona/personaggio.

Per diventare personaggio, infatti, Nina deve guardare nel suo essere persona e compiere una metamorfosi che rifletta quella della storia ma la rovesci al contempo di segno: è metamorfosi allo stesso tempo di liberazione e di dannazione, e giustifica il tono ondivago del film, fra melodramma e thriller. Il doppio negativo avvolge tutti i personaggi e si riflette nel lavoro visivo. Il cigno nero è per questo un film di sensazioni forti, ma anche un racconto lisergico, che interviene sulla percezione come se Brian De Palma girasse un remake di Scarpette rosse, riflettendo nella confusione percettiva della protagonista anche quella dello spettatore, che si relaziona agli eventi attraverso lo sguardo franto della protagonista, sempre più incapace di distinguere fra realtà e fantasia.

Aronofsky in questo modo non mette in scena soltanto l’odissea di un’anima inquieta, ma anche una magnifica riflessione sui sentimenti che animano la competitività, il desiderio di riuscire ad essere altro, ma anche la condanna di dover già in potenza essere costretti a rispecchiare un’ideale che non è il proprio. Nina in questo modo è sia il prodotto degli sforzi di Thomas e del suo spettacolo, che della madre che per anni l’ha costretta a sacrifici per il ballo e l’ha plasmata attraverso un’immagine virginale che si estrinseca nella sua stanza piena di peluche e dai colori pastello.

In questo senso davvero Nina deve compiere un percorso di purificazione e ricostruzione diventando donna e anelando a quella specularità incarnata dall’amica/rivale Lily (una convincente e affascinante Mila Kunis, già vista nel risibile Codice Genesi): trova in questo senso anche giustificazione la scena lesbo da molti superficialmente elevata a mero momento pruriginoso del film. Perché invece Aronofsky è un regista che, pur nelle teorizzazioni narrative dei suoi racconti di percezione, non perde mai di vista la carnalità dei personaggi, che vivono sui propri corpi la loro difficoltà di esistere e il loro travaglio. Ecco dunque che il percorso di Nina è costellato di flagellazioni della carne che non trovano apparente giustificazione, e che appaiono come impossibili segnali di una sofferenza interiore che diventa esteriore, ma anche di una trasformazione in atto.

Ed è ancora più straordinario questo lavoro se compiuto sul corpo minuto di una Natalie Portman, che raggiunge vette di eccellenza assolute, riuscendo a incarnare a perfezione sia la fragilità e l’instabilità emotiva di Nina, sia la sensualità del Cigno Nero: la grandiosa sequenza del ballo, in cui avviene la metamorfosi, è un momento di cinema altissimo che lascia sconvolti per costruzione narrativa e per la debordante sensualità sprigionata dall’attrice, davvero capace di emozionare e al contempo sconvolgere per l’alterità di un personaggio che ha raggiunto un dualismo perfetto. Bellissima e inquietante allo stesso tempo, come questo film che rinnova il valore di un regista coraggioso e che non ha paura di osare, insieme ai suoi attori.


Il cigno nero
(Black Swan)
Regia: Darren Aronofsky
Sceneggiatura: Andres Heinz, Mark Heyman, John J. McLaughlin (soggetto di Andres Heinz)
Origine: Usa, 2010
Durata: 103’