The Box, di Richard Kelly
1976. La vita di Norma e Arthur Lewis è resa difficile dalla crisi economica e dalle occasioni mancate che la vita mette loro di fronte. Un giorno, alla porta di casa, si presenta però Arlington Steward, un uomo orribilmente sfigurato, che consegna a Norma una scatola con un meccanismo a pulsante e la promessa di regalarle un milione di dollari se lo premerà entro ventiquattro ore. Se il meccanismo sarà però attivato una persona a lei ignota morirà. Norma e Arthur sono increduli e confusi di fronte a quella strana opportunità e alle implicazioni morali che essa comporta, ma anche di fronte alla possibilità che possa trattarsi di uno scherzo. Ma infine Norma decide di premere il pulsante.
C’era molta attesa per il ritorno di Richard Kelly, e chiariamo subito che da queste parti la possibilità ch’egli possa o meno ripetere l’exploit di Donnie Darko è argomento di nessun interesse, soprattutto a fronte dell’ottima fattura di questa sua nuova opera, che conferma un talento curioso e intelligente. E’ ancora presto per potersi lanciare in previsioni certe, ma è stimolante pensare che probabilmente Kelly sia oggi uno dei pochi registi capaci di far compiere al citazionismo un ulteriore passo in avanti lungo la strada che lo porterà a diventare linguaggio cinematografico compiuto, sganciandolo dal semplice meccanismo autoreferenziale della riconoscibilità (o dell’ammiccamento) che si innesca con lo spettatore. Al contrario, Kelly ripesca schegge di immaginario multiforme perché le considera elementi qualificanti di un discorso filmico (visivo e tematico) capace di stimolare nello spettatore sensazioni e riflessioni ben definite.
Ecco dunque che The Box cerca sì una filiazione netta dalla serie Ai confini della realtà che già aveva sfruttato lo stesso racconto originale di Richard Matheson, ma soprattutto da certa fantascienza fra gli anni Cinquanta e Settanta, situata cioè in un’epoca di incertezze e ancora distante dal positivismo spielberghiano: lo fa per dare corpo alla propria parabola ossessiva, capace per questo di rendere qualificante sia il suo discorso morale sui limiti dell’altruismo umano che il clima perturbante e claustrofobico degli interni in cui la storia spesso si svolge. Non a caso la splendida regia unisce le atmosfere sci-fi con un tocco che guarda alla compattezza thriller di Alfred Hitchcock e a quella sensazione di algida perfezione che era propria di Stanley Kubrick. Morbidi carrelli esplorano lo spazio dell’azione regalando una sensazione di bellezza formale che non diviene fine a se stessa proprio perché sfrutta il citazionismo come veicolo di relazione con la memoria dello spettatore cinefilo.
D’altra parte ci pensano poi i rimandi alla terribile crisi economica di fine anni Settanta a calare la storia nella nostra contemporaneità (anche se l’idea è antecedente ai recenti eventi finanziari) e a porre lo spettatore di fronte all’evidenza di una realtà che cede all’egoismo soprattutto in virtù della necessità di far fronte alla direttrice economicista che condiziona ogni rapporto umano. In questo senso la paranoia del racconto viene coniugata lungo una direttrice che tenda a lasciare i coniugi Lewis in una perenne situazione di incertezza, ondeggianti fra estremi che i due non sono capaci di codificare. Norma e Arthur, a conti fatti, si trovano nella medesima situazione del figlio Walter quando viene privato dei sensi principali e deve annaspare in cerca della salvezza. E’ il tema della scelta che lo spettrale Mr. Steward pone al centro del racconto attraverso il suo perverso meccanismo a pulsante, valutazione cinica del valore del proprio senso morale, che non ammette spiegazioni e affida al caso e alle valutazioni istintive la propria soluzione. L’ironia macabra insita nello scherzo omicida (che si può sicuramente ascrivere all’amore per il paradosso caro a Matheson) costituisce un geniale contrappunto all’idiozia di un mondo basato su regole burocratiche ed economiche che possono facilmente decidere del destino di un nucleo familiare senza lasciare possibilità d’azione a personaggi non a caso destinati a una mutilazione che è fisica ma anche metaforica.
Steward, dunque, non fa altro che lasciar deflagrare una tensione che è già latente nel corpo del racconto poiché fa appello a una condizione di congenita disgregazione sociale già in atto e chiama in causa lo spettatore attraverso la struttura del thriller, utile a guidare con mano chi guarda lungo gli intrecci di una storia che solo alla fine troverà la sua finitezza. La soluzione finale, che annoda i fili del racconto mostrando la concatenazione degli eventi messi in modo dal meccanismo di Steward, in realtà non è un semplice twist propedeutico alla sorpresa, ma più che altro la quadratura del cerchio di un discorso paranoico che la storia è riuscita abilmente a portare avanti. In questo senso un altro dei possibili nomi che è possibile chiamare in causa è David Lynch, acido cantore dei sentimenti nascosti in una realtà middle-class apparentemente rosea ma in cui serpeggiano invece pulsioni misteriose che il tono ossessivo riesce a portare allo scoperto, ponendosi a metà strada fra la fiaba e il racconto grottesco e surreale. In effetti ciò che più colpisce di The Box è proprio la sua straordinaria capacità di stare a in bilico fra la meraviglia evocata dalla bellezza della regia e dal matematismo della sceneggiatura e quella perenne sensazione di disagio che la componente umana mette in campo e riesce a riflettere allo spettatore. Merito in questo senso anche di una straordinaria composizione del cast, con una Cameron Diaz che riesce ad apparire fragile e nello stesso tempo profondamente umana, perfetta contrapposizione all’eleganza formale del sempre grande Frank Langella.
The Box – C’è un regalo per te
(The Box)
Regia e sceneggiatura: Richard Kelly (dal racconto Button, Button di Richard Matheson)
Origine: Usa, 2009
Durata: 115’
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