Satsuki e la sorellina Mei si trasferiscono insieme al padre in una casa in campagna che ha la fama di essere infestata dai fantasmi. Le due vivono comunque il confronto con l’ignoto con la spensieratezza della loro giovane età e al contempo attendono il ritorno della madre, ricoverata in ospedale a causa della sua salute cagionevole. Un giorno Mei, inseguendo una misteriosa creatura dei boschi, raggiunge la tana di un enorme animale, cui dà il nome di Totoro. Sembra che solo lei però riesca a percepirne la presenza, ma gli eventi permetteranno anche a Satsuki di avere il suo contatto con queste magiche creature.
21 anni non hanno scalfito la statura di autentico classico dell’animazione che Il mio vicino Totoro si è nel frattempo guadagnato in patria e all’estero: riscoprirlo oggi, grazie alla distribuzione nelle sale voluta dalla Lucky Red, ci mette infatti di fronte a un’opera vivace e matura, che non patisce i confronti con l’evoluzione del linguaggio né tantomeno il paragone con i più recenti lavori di Hayao Miyazaki. D’altronde lo sappiamo bene: la grandezza di Miyazaki sta tutta nel suo porsi già come classico nel momento della creazione, al punto che ogni suo lavoro si distanzia dalla produzione contemporanea per parlare un linguaggio universale e trasversale alle epoche.
In questo senso non stupisce notare come il film si ponga esso stesso al crocevia di istanze tra loro differenti: l’ambientazione non tradisce elementi tali da potersi collocare in un tempo preciso, volge più al passato che al presente sebbene riverberi sicuramente una spinta verso il domani. La prospettiva non a caso è quella offerta da due bambini in un mondo che relega gli adulti in ruoli di contorno, figure lontane che si fanno attendere (alla fermata del bus, a casa per un ritorno dall’ospedale che viene procrastinato) e che per questo si stagliano come le figure deboli di un racconto dominato dai più piccoli.
Ancor più di Ponyo sulla scogliera, Miyazaki adotta qui una narrazione ad altezza di bambino, evidente soprattutto nel registro lessicale e nella fisicità delle due protagoniste, che esprimono i concetti con l’ausilio di gesti enfatici, urlando la loro gioia e dando vita a una sinfonia di suoni vitalistici che il film sente naturalmente come propri. L’aspetto più interessante, però, sta nella sua distanza da ogni possibile soluzione di continuità che marchi il limite fra il reale e il fantastico. Sebbene sia già presente l’idea della “soglia da attraversare” (come nel futuro La città incantata) per accedere alla tana del Totoro, il film non soggettivizza l’esperienza fantastica, ma la rende organica al ciclo della vita e della natura, in ossequio a quella componente animista che troverà il suo apogeo nel capolavoro Princess Mononoke (e viene spontaneo vedere Totoro come una variazione kawaii dello spirito dei boschi, “Colui che cammina nella notte”).
Le creature fantastiche del film, quindi, non abitano alcun altrove, ma vivono normalmente attorno a noi e l’unico confine possibile che si possa tracciare è quello interno alla nostra capacità di percepirne la presenza. Come i Nerini del Buio che tendono a fuggire alla presenza della luce per abitare gli interstizi delle case, così i vari personaggi che il film mette in scena tendono a preservare una propria autonomia che alla bisogna può però diventare aperta condivisione di intenti: il registro si fa in questo caso ironico (l’attesa del Totoro con l’ombrello alla fermata dell’autobus), favolistico (la scena del volo, immancabile in qualsiasi film di Miyazaki) quando non direttamente avventuroso e velatamente drammatico (la corsa di Satsuki a bordo del Gattobus alla ricerca di Mei, o anche quella verso l’ospedale).
Il tutto viene a correlarsi con precise scelte di regia, che adottano un tono mediamente più ragionato del solito, con ritmi lenti che sembrano guardare più all’intimismo realista delle opere di un Yasujiro Ozu che alla magniloquenza di quel Kurosawa cui l’opera di Miyazaki è sempre stata accostata. D’altronde Il mio vicino Totoro nasce come pellicola secondaria rispetto al contemporaneo progetto di Una tomba per le lucciole, del quale sembra costituire uno speculare positivo: qui come lì due giovanissimi protagonisti, uniti da un legame di fraternità, devono infatti affrontare le incognite di una vita priva di figure di riferimento. Per questo Miyazaki sembra cercare un tono più raccolto, intimo, che razionalizzi in un andamento orizzontale gli andirivieni tra realtà e fantasia e dove le scene di puro lirismo fantastico esplodono improvvise, con una gioia incandescente, ma non assumono mai un ruolo da protagonista rispetto a una storia pure volutamente poco articolata.
L’insieme riesce perciò nel delicato equilibrio di produrre la fascinazione per i temi propri della poetica di Miyazaki ma con una prospettiva che appare, ancor più dopo aver visto gli sviluppi successivi, originale pur nel suo anticipare quello che verrà. E la buffa immagine del Totoro (divenuto non a caso il simbolo stesso dello Studio Ghibli) è una di quella che non si dimenticano, insieme al già citato Gattobus, che rielabora in modo molto personale lo Stregatto di Alice nel paese delle meraviglie.
Il mio vicino Totoro
(Tonari no Totoro)
Regia e sceneggiatura: Hayao Miyazaki
Origine: Giappone, 1988
Durata: 86’
(Tonari no Totoro)
Regia e sceneggiatura: Hayao Miyazaki
Origine: Giappone, 1988
Durata: 86’
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