"C'è chi crede in dio o nel denaro. Io credo nel cinema, nel suo potere. L'ho scoperto da ragazzino, mi ha aiutato a fuggire da una realtà in cui ero infelice. È una delle forme d'arte più alte che l'uomo ha concepito. Credo nel suo futuro."
(John Carpenter)

sabato 28 novembre 2009

Il rifugio

Il rifugio

Dopo la morte del compagno Louis per overdose, Mousse si ritrova sola e in attesa di un figlio: la famiglia del compagno vorrebbe che abortisse, ma lei preferisce ritirarsi in una casa vicino al mare dove affrontare la sua gravidanza in silenzio. Qui la raggiunge Paul, il fratello omosessuale di Louis, per trascorrere alcuni giorni insieme. E’ l’inizio di un impossibile  legame di coesistenza/corteggiamento destinato a incidere sul destino del nascituro.

E’ singolare che un cinema designato a dividere estimatori e detrattori, come quello di Francois Ozon, ci parli così spesso di divisioni o di progressivi avvicinamenti fra universi tra loro distanti. Il rifugio del titolo, in fondo, non è soltanto quello di chi decide di astrarsi dal mondo, ma anzi l’unità di misura che marca proprio la distanza fra i mondi. L’intento è dichiarato fin dal doloroso incipit, in cui vediamo Mousse e Louis prostrati dalla tossicodipendenza, ma ancora decisi a iniettarsi l’ultima dose letale: le braccia sono ormai tumefatte, ma l’astinenza è implacabile e il ragazzo decide di iniettarsi la dose direttamente in una vena giugulare, consegnandosi così alla morte. Oltre alla durezza della scena, ritratta peraltro senza compiacimenti sadici, ma allo stesso tempo senza glissare sui dettagli, colpisce la condizione dei due, felici del loro status di rifugiati in un appartamento che sa tanto di prigione dorata: sembra quasi di vedere i Dreamers di Bertolucci, ormai cresciuti e delusi da un mondo che preferiscono continuare a lasciare fuori per abbandonarsi all’estasi fittizia di un sentimento che si sublima nel consumo di droghe. E’ una visione che fa male, ma è necessaria a rimarcare una distanza.

Louis d’altronde è di famiglia ricca e proprio la sua famiglia, dopo la morte, vorrebbe preservare la “purezza” del lignaggio attraverso l’aborto: eliminare quindi il frutto di quella relazione che potrebbe creare un legame, in modo da abbattere così la distanza con Mousse. Ma la ragazza decide di far da sé. Qui il discorso si ispessisce, perché Ozon gioca la sua strategia sul corpo della protagonista: il disagio si estrinseca infatti in una sorta di consapevolezza che Mousse dimostra in quando donna il cui corpo suscita sensazioni in chi le sta vicino, fatto che naturalmente riduce la distanza che lei stessa vorrebbe invece rimarcare attraverso l’isolamento. Il registro espressivo è inoltre doppio perché la dinamica si articola anche nel rapporto fra l’immagine dell’attrice Isabelle Carré (realmente incinta) e lo spettatore: è un’immagine di maternità florida, radiosa che sopravanza le rughe che pure il volto non cela. E’ una bellezza reale e intensa, distante dalla patinatura spesso veicolata dall’industria delle immagini, ma importante a livello espressivo per il desiderio che suscita, tanto negli uomini che nelle donne.

Ecco dunque che, durante il suo isolamento, Mousse pure viene in contatto con una serie di personaggi che la ricercano in quanto donna incinta: una ragazza ammaliata dalla sua immagine radiosa e che le si avvicina con insistenza, un uomo che le chiede un rapporto sessuale poiché eccitato dalla fantasia di possedere una donna gravida… in qualsiasi momento il mondo intorno a Mousse sembra tentare di rompere il velo di isolamento: persino in discoteca un ragazzo con cui la donna tenta un fugace flirt subito le tocca il ventre, suscitando in lei disagio. Il ventre gonfio della vita che sta nascendo è quindi l’autentico tramite di Mousse con il mondo esterno, ma anche l’unità di misura del suo disagio, l’elemento che la caratterizza ma al contempo la rende aliena.

Il rapporto con Paul diventa quindi l’unico possibile, in virtù dell’omosessualità del ragazzo, che allontana qualsiasi possibilità di un coinvolgimento amoroso: l’intesa fra i due è infatti ideale ma non fisica e Paul è l’unico che non vede Mousse come un corpo, tanto che nel momento in cui la sua mano si posa sul suo ventre per spalmare la crema solare, il ragazzo prova disagio. Per la prima volta l’incertezza si manifesta quindi nell’interlocutore e non in Mousse, che anzi si ritrova a dover tranquillizzare Paul. I ruoli si invertono, ma allo stesso tempo questo momento è fondamentale perché finalmente rompe la distanza e rende Mousse non più un personaggio isolato, ma anzi in sinergia con l’esterno.

L’interazione fra Paul e Mousse, connotata come una sorta di corteggiamento asessuato in virtù della forte fisicità che entrambi i personaggi naturalmente manifestano, può dunque rompere il velo del disagio e arrivare a un rapporto fisico che appare più di una espressione di sessualità: è un momento di comunione fra due personaggi che si sono avvicinati. Qui Ozon sembra suggellare la fine della famiglia tradizionale in favore di un modello alternativo che non si basi sulle modalità canoniche, ma esclusivamente sulla capacità dei singoli di costruire un’interazione.

Ma il momento diventa anche un passaggio di consegne, propedeutico al finale in cui Mousse lascerà a Paul suo figlio: il gesto ha il doppio valore di donazione del sé a una persona con cui il legame continua anche a distanza, ma anche come rinnovarsi di quel disagio che rende naturalmente Mousse una persona incapace di normalizzare la sua esistenza e che quindi deve riconsegnarsi all’oblio. D’altronde l’intera gravidanza è vissuta nel segno di una precarietà sintetizzata dalle dosi di metadone che la donna deve assumere per non cadere in crisi d’astinenza (retaggio della sua condizione di tossicodipendente).

Il tema caro al regista viene quindi sviluppato secondo una direttrice più fisica che cerebrale, articolata attraverso una grande sinergia con gli attori, capaci di esprimere più con piccoli gesti che con le parole, tanto da costruire un tono quasi rarefatto e vagamente irreale (che ha attirato al film accuse di freddezza). Il film è stato presentato in anteprima italiana al Torino Film Festival 2009.

Le refuge
Regia: Francois Ozon
Sceneggiatura: Mathieu Hippeau e François Ozon
Origine: Francia, 2009
Durata: 88’

giovedì 26 novembre 2009

Pusher: La trilogia

Pusher: La trilogia

La parabola artistica di Nicolas Winding Refn per certi versi ricorda quella dei grandi autori hollywoodiani degli anni Settanta, intenzionati a rompere gli schemi e poi spesso costretti a lottare contro un mercato che, dopo averli incensati, volta loro le spalle. Ma con una differenza sostanziale: Refn ha usato questo cambiamento per dare forma a un progetto che oggi appare straordinariamente compiuto in sé e capace di riassumere tutta la prima parte della filmografia dell’autore danese.

I fatti sono noti: studente ribelle negli Stati Uniti e deciso a far da sé, Refn sfrutta un finanziamento ottenuto insperatamente in Danimarca per girare un noir nichilista che fa muovere paragoni con il primo Scorsese e che diventa il più grande successo commerciale della storia del cinema danese. Pusher esce nel 1996 e letteralmente “inventa” un microcosmo di varia umanità che ruota attorno al protagonista Frank, uno spacciatore di piccolo calibro che si trova per le mani un colpo in grado di cambiargli la vita, che però si conclude nel peggiore dei modi, con l’arresto e la necessità di sbarazzarsi della “roba”. Di qui inizia l’odissea nel vano tentativo di trovare i soldi per pagare il fornitore Milo. In sé la trama non sarebbe nemmeno così originale: oltre a Scorsese un paragone gustoso che si può muovere è anche con l’Amir Naderi di Manhattan by Numbers, ma senza la trasfigurazione quasi metafisica, quella che curiosamente caratterizzerà però i più recenti lavori di Refn: Pusher infatti è sporco e diretto, girato in larga parte con la macchina a mano (particolarmente prediletta da Refn) e ha il merito di indagare la realtà che racconta senza emettere giudizi, sviluppando una sorta di empatia con i protagonisti e il loro universo degradato.

Certo, all’epoca doveva essere un bel pugno nello stomaco il ritratto di questa Copenaghen così poco accomodante ed esplorata nei suoi angoli meno noti e più sordidi, ma oggi il film appare per certi aspetti un po’ troppo attento alla strutturazione di genere, a scapito dei personaggi (e infatti la sensazione è che spesso sia il grande carisma degli attori ad apportare quella compattezza che manca alla storia per renderla davvero reale e penetrante). Nulla comunque di cui scandalizzarsi, anche perché la cinefilia è un altro dei tratti fondamentali di Refn, che però è attento a non farla mai precipitare nel semplice citazionismo: non a caso nei film successivi essa diventerà invece un elemento utile a riflettere i limiti e le caratteristiche dei suoi protagonisti, per elevarli a un livello mitico. D’altronde, uno degli aspetti che Refn ci tiene a precisare spesso nelle interviste è la sua natura di artista, viziato però da una serie di limiti (dislessia, daltonismo, incapacità di manipolare praticamente la materia) che trovano quindi nell’elaborazione visiva una possibilità di creazione e creatività a lui congeniale. Che si sia dunque di fronte a un autore in crescita e, soprattutto, consapevole della portata teorica insita naturalmente nell’atto della creazione cinematografica è indubbio, ma nella trilogia di Pusher tutto corre ancora sottotraccia e si estrinseca principalmente nell’iconica sequenza dei titoli di testa, dove vengono presentati i personaggi, rimarcando la loro qualifica di attori della tragedia che da lì in poi si andrà a sviluppare.

Pusher II arriva nel 2004, all’indomani dell’insuccesso commerciale del pur ottimo Fear X e quindi appare contaminato dall’incertezza che il regista attraversa: gli serve un successo in grado di fargli rialzare la testa e questo rende il film più franto del primo, aperto a svirgolature liriche che si concretizzano nel bel finale (sospeso come quelli di tutti i capitoli della saga). Inoltre qui emerge più chiara la cifra stilistica della serie, che forgia una struttura a scatole cinesi dove i film, più che rincorrersi secondo una linearità cronologica, si intrecciano fra loro, inquadrando la realtà danese attraverso gli occhi di protagonisti differenti. Ecco dunque che Frank scompare dalla scena e il ruolo principale viene assunto da Tonny (lo straordinario Mads Mikkelsen, attore feticcio di Refn, visto anche in Casinò Royale di Martin Campbell), delinquente goffo e spiantato, tossico e impotente, alle prese con un padre che lo disprezza e una serie di scelte difficili e di responsabilità enormi, con in testa la nascita inaspettata (e non voluta) di una figlia. Si arriva quindi a un eccezionale livello di intimità con i personaggi attraverso la giustapposizione di sequenze in cui vediamo Tonny rubare auto e sniffare coca, e altre in cui lo seguiamo mentre è intento a cambiare i pannolini alla piccola! L’aspetto più interessante sta, insomma, nello scoprire il livello di disagio pure presente in quello che appariva nel primo film come uno dei personaggi più organici allo squallore dell’universo della tossicodipendenza. Il tono diventa quindi più cupo perché la concomitanza di ironia e violenza non fa altro che esaltare il gusto del paradosso per una comunità che viaggia costantemente sul filo del pericolo e dell’autodistruzione. Lo stile visivo nel contempo si affina, mantenendo la ruvidezza dell’esordio, ma aggiungendo una qualità spesso pittorica nell’uso della fotografia, con particolare evidenza nell’uso “sparato” e per questo impressionista dei rossi.

Con Pusher III, realizzato nel 2005 immediatamente dopo il secondo, si raggiunge con tutta evidenza il punto di maturazione stilistica dell’intera saga, all’interno del quale Refn sintetizza la sua visione e chiude la sua parentesi noir. Protagonista stavolta è Milo (l’ottimo Zlatko Buric, attualmente nelle sale in 2012, di Roland Emmerich), ovvero il fornitore serbo al quale Frank doveva restituire i soldi nel primo capitolo. Si tratta peraltro dell’unico personaggio ad apparire in tutti e tre i film, una sorta di curioso demiurgo che tiene le fila del mercato della droga a Copenaghen, anche se ufficialmente il suo lavoro è quello di gestore di una trattoria. Ma stavolta è un Milo diverso, che partecipa ai gruppi d’ascolto contro la tossicodipendenza e vuole preparare la festa di compleanno alla figlia. Di tempo ne è passato dal primo Pusher e Refn è consapevole che un cambiamento è in atto, tanto da spingere il personaggio più forte e sicuro di sé della saga in un vortice di disperazione che riverbera la caducità del potere criminale e la natura tragica della trilogia, i cui protagonisti vengono sempre progressivamente stritolati dall’ambiente nel quale si muovono: Milo diventa quindi vittima di una nuova generazione di fornitori albanesi, che intendono dominare il mercato della droga danese e approfittano di un credito maturato nei suoi confronti per costringerlo nel ruolo del servitore durante la squallida vendita di una minorenne al mercato della prostituzione. La reazione è tanto umana quanto fulminante e affonda nel sangue in un finale estremo e difficilmente dimenticabile! L'unico approdo possibile per questa umanità così fragile è dunque la piena violazione del corpo (atto di distruzione e rinascita insieme), scelta che per certi versi sembra chiudere il cerchio con quel cinema degli anni Settanta cui Refn è affine, come si ricordava in apertura: il risultato, in ogni caso, è un capitolo finale che si staglia come un capolavoro, oltre che come l’episodio più devastante dell’intera trilogia.

Sebbene ci sia stata una fugace edizione DVD del primo capitolo, i Pusher risultano di fatto sostanzialmente inediti in Italia: riscoperti da poco grazie alla bella personale dedicata all’autore dal Torino Film Festival, potrebbero prossimamente essere trasmessi da RaiSat colmando in questo modo un colpevole vuoto della nostra distribuzione. Incrociamo le dita!

La Copenaghen violenta di Nicolas Winding Refn
Nicolas Winding Refn al Torino Film Festival 2009 (video)
Articolo sulla trilogia di Pusher
The Pusher Trilogy trailer

lunedì 23 novembre 2009

Torino 27: il ritorno

Torino 27: il ritorno

E’ andata bene, ed è un sollievo scriverlo. Gianni Amelio e la sua squadra hanno fatto un buon lavoro cercando non di cambiare quanto di riequilibrare. A festival terminato si può infatti considerare la 27a edizione del TFF un interessante work-in-progress verso una forma al passo non tanto con i tempi (che sono quelli che sono…), ma soprattutto con la storia e la tradizione di questo fondamentale appuntamento cinefilo.

Sembra che finalmente, insomma, ci si sia posto il problema di non personalizzare la manifestazione sulle idiosincrasie del direttore di turno, che ha invece lavorato di concerto con la sua squadra come un filtro, attraverso il quale far passare un sentire variegato, in modo da dare espressione alle più diverse manifestazioni cinematografiche.

In questo senso facciamo nostre le parole di Dario Zonta, che, nel commentare il premio andato al bravo Pietro Marcello per il suo La bocca del lupo, ha giustamente rimarcato l’importanza di inserire nella selezione ufficiale un titolo così distante dai formati canonici: un atipico ritratto della città di Genova, fra filmati di repertorio e contemporaneità, visto attraverso i racconti di vita di due personaggi borderline, Enzo e Mary, innamoratisi in carcere. Un lavoro caratterizzato da una forma di lirismo capace di farsi immediatamente narrazione empatica e quindi emotiva, antitetica ai canoni del genere documentario in cui pure l’opera si può ricondurre. E tutto questo peraltro in soli 67 minuti di durata (impossibile pensare a un eventuale passaggio televisivo…)! Un film che sarà distribuito anche nelle sale italiane da BIM.

Lasciamo quindi da parte i (per fortuna pochi) piagnistei di chi invocava più glamour, e anche gli inopportuni trionfalismi incentrati principalmente sulle cifre dei “tutto esaurito”, ma anche le seriosità di chi invece rivendicava il rigore come cifra fondamentale della kermesse: Torino è qualcosa di più, e meno male. E’ la possibilità di pensare che il cinema possa ancora costituire un polo attrattivo a prescindere dal nome e dai pruriti del politico di turno: questa attitudine è l’unica capace di rendere un evento culturale importante e bello da seguire, prezioso anche quando finisca per mancare il capolavoro. Ecco dunque che il concorso ha ritrovato una centralità altrimenti dimenticata, grazie a una intelligente razionalizzazione del programma, in passato sparso in una struttura a ragnatela che creava soltanto confusione.

Certo, non eccediamo in trionfalismi: c’è ancora del lavoro da fare per trovare il giusto equilibrio fra visibilità e offerta. La sezione Festa Mobile, pure pregna di titoli interessanti, ha riunito molti degli spazi collaterali del passato (fuori concorso, omaggi ai maestri), ma è apparsa come un corpo-monstre all’interno del Festival e ha un po’ fagocitato il resto. Il riferimento non è tanto alle retrospettive che, storicamente, costituiscono una piccola “riserva” dai contorni ben delimitati e che il pubblico sa riconoscere e amare facilmente, ma alle sezioni Onde e Figli e amanti. La prima, dedicata al cinema sperimentale, nonostante un programma di altissima qualità è apparsa infatti sacrificata da una programmazione poco penetrante, con orari non sempre agevoli, spesso in contrapposizione ad eventi di larga portata: spiace ad esempio che un gioiello come Un sourir malicieux, di Christelle Lheureux, eccezionale rilettura/ripensamento de Gli uccelli di Sir Alfred Hitchcock sia stato lanciato contro la serata-evento che ha visto il sommo Francis Ford Coppola presentare la versione restaurata di Scarpette rosse. E che in generale la bellissima idea dell’Hitchcock Day non abbia avuto la centralità che meritava. Ed è solo un esempio.

I titoli culto dei registi italiani, protagonisti della sezione Figli e amanti, sono anche apparsi sacrificati, smorzando l’interessante ripensamento di quella che l’anno scorso era (seppur con una formula diversa) una delle proposte più esaltanti del festival.

Comunque la direzione tracciata è quella giusta, meno scanzonata e più ragionata rispetto a una decina d’anni fa, e in cerca di un baricentro che possiamo fiduciosamente sperare verrà trovato nei prossimi anni. Intanto ci portiamo dentro il piacere dell’aggregazione che genera il culto (ad esempio per l’esaltante personale di Nicolas Winding Refn), ma soprattutto della scoperta, con una serie di titoli che troveranno spazio nei prossimi articoli del Nido. C’è tanto buon cinema in giro e appuntamenti come questo servono a ricordarcelo, mentre il mondo “di fuori” dedica troppa attenzione a prodotti che non lo meriterebbero. La cinefilia, in fondo, è militanza e diventa in sé atto critico che porta a far conoscere e amare il cinema: è stato proprio Torino a enunciarlo anni fa (allora il direttore era Stefano Della Casa) e oggi siamo lieti che sia stato ancora Torino a ricordarcelo.

Torino 27 – I film che trovano distribuzione

mercoledì 11 novembre 2009

Torino 2009

Torino 2009

Il video postato questa settimana (e che rimarrà anche la prossima) nello spazio Visioni dalla Rete è stato realizzato in occasione dei giochi olimpici invernali 2006, ma si adatta bene anche al nostro caso, poiché dal 13 al 21 novembre Torino ridiventerà davvero il centro del mondo! Lo sarà per tutti gli appassionati di cinema, ovviamente, e quindi per chi, come noi, ha incentrato i suoi interessi sulla settima arte: una nuova edizione del Torino Film Festival va a cominciare e stavolta le premesse sono oltremodo allettanti!

Finita la grigia e seriosa era morettiana che tanta fortuna commerciale aveva portato, ma che aveva anche rischiato di compromettere l’informalità e quella particolare eterogeneità, anche bulimica, dell’offerta, il festival già sulla carta sembra essersi liberato. A scorrere i titoli del programma-monstre messo insieme dal nuovo direttore Gianni Amelio insieme ai suoi collaboratori, sembra infatti di essere tornati ai tempi in cui il festival era nelle mani di Stefano Della Casa, Giulia D’Agnolo Vallan e Roberto Turigliatto… quando i disagi erano sicuramente tanti a causa di un parterre di titoli fra i quali la scelta era davvero improba, ma che permetteva allo stesso tempo di immergersi nello spazio amico di registi tanto amati e anche di fare nuove e incredibili scoperte!

E su questo punto Amelio la sua differenza l’ha già marcata, quando ha spiegato che rispetto a Moretti “Sono un po’ più aperto verso quello che non mi piace, non faccio il direttore di Festival come se facessi il regista di un mio film” e ribadendo la necessità di una “generosità dello sguardo” di cui il festival sentiva il bisogno.

Spazio dunque a due formidabili retrospettive dedicate al grande classico del cinema americano Nicholas Ray e al maestro del cinema giapponese Nagisa Oshima. In mezzo piccoli omaggi ad autori come Kusturica e al Sommo Francis Ford Coppola, ma anche al talento emergente dell’ottimo Nicholas Winding Refn. E poi il concorso lungometraggi dal quale si spera arrivino le novità, mentre la sezione La Zona viene ribattezzata “Onde”, ma ha sempre in Massimo Causo l’uomo guida per la scoperta delle tendenze del cinema sperimentale: da qui arrivano proposte ghiottissime come i Ga-nime, ovvero la nuova “invenzione” della Toei Animation sul formato del cortometraggio, e l’Hitchcock Day!

Appuntamento sotto la Mole insomma, con un rinnovato entusiasmo che speriamo trovi il suo naturale appagamento nella visione!

Il sito del Torino Film Festival

Collegati:
Torino 2008
Torino Film Festival: The Day After

martedì 10 novembre 2009

L’uomo che fissa le capre

L’uomo che fissa le capre

Il giornalista Bob Wilton decide di andare in Iraq dopo essere stato mollato dalla moglie e in questo modo conosce Lyn Cassidy, ultimo esponente dell’ormai smobilitato Esercito Nuova Terra, formato da soldati addestrati all’uso dei poteri psichici, con cui cambiare il corso degli eventi bellici in modo non violento. Ora Cassidy sta tentando di ritrovare Bill Django, fondatore dell’innovativo corpo speciale dell’esercito, e Bob, curioso rispetto agli eventi, lo accompagna, ritrovandosi così coinvolto in una girandola di situazioni surreali.

“Ora più che mai c’è bisogno dei Jedi!”. La frase ha un effetto immediato per come riesce a contestualizzare la doppia direttrice su cui si muove il film, ovvero quella più squisitamente cinefila, ma anche quella che permette alla forza (la Forza) benefica del cinema di affondare nei malesseri di una realtà che ha bisogno di punti di riferimento. Facile dunque vedere L’uomo che fissa le capre come una sorta di moderna rivisitazione della cifra grottesca che aveva reso grande un M.A.S.H. e che dunque punta all’irrisione della guerra attraverso la messa in evidenza della sua assurdità: materiale in questo senso non manca, con in testa i militari americani che si sparano addosso l’un l’altro poiché convinti di essere sotto attacco nemico!

D’altronde se davanti e dietro la macchina da presa c’è un autentico liberal come George Clooney (attore e produttore insieme al socio Grant Heslov, che qui debutta come regista) il sospetto di una voglia di rinnovare il cinema di genere più impegnato è ben legittima: ma soprattutto è importante tenere presente la figura dell’attore americano per permettere alla materia di scivolare dentro e fuori i riferimenti più problematici, dando al tutto una natura ondivaga che ne impedisca il facile imbrigliamento in schemi poco opportuni. Se, infatti, Clooney è anche un corpo coeniano, tanto da rimandare alla bizzarria dei registi di Fratello dove sei?, il film rifugge fortunatamente quel macchiettismo spesso autoreferenziale dei due autori citati, per non perdere mai di vista una dimensione morale che riconduce sempre tutto alla Storia e alla società dell’America (tema, questo sì, squisitamente ascrivibile a tanto cinema di Clooney regista, produttore e interprete).

Pertanto, il viaggio di Bob e Lyn è anche un viaggio nell’evoluzione di un modo di guardare il mondo che dal pacifismo dei Settanta è infine giunto all’aberrazione della dottrina guerrafondaia di George Bush: l’esercito Nuova Terra, dunque, diventa non soltanto un tentativo di ridere della guerra per mostrarne la fragilità concettuale, ma anche, e soprattutto, l’espressione di una volontà coraggiosa che intende fondare una nuova mitologia del soldato, refrattario alla violenza e disposto a operare per il Bene comune. Ciò che dunque il film ci racconta è il tentativo, post Vietnam, realmente portato avanti dall’America (una parte almeno...), di reinventarsi come forza non belligerante ma intenta a cercare nuove strade, salvo poi ripiombare improvvisamente (e senza l’alibi del terrorismo, che nel film è pressoché assente) nella follia della violenza. Perché l’unica autentica rivoluzione che il pacifismo può ancora combattere è unicamente quella culturale: il parallelo con i Jedi è dunque fondante se consideriamo che l’ordine guerriero lucasiano è formato da Custodi della Pace e non da soldati. Il conflitto fra il Lato Chiaro e quello Oscuro è pertanto quello sul confine che porta la difesa della Pace a diventare strumento di guerra e la persuasione psichica votata alla non violenza a mutare in arma assassina che uccide le creature inermi.

Il tutto trova la sua forma attraverso una classica dicotomia fra due personaggi stralunati che incarnano una gioiosa follia, ma anche una curiosità comune per eventi straordinari in grado di ridefinire il rapporto con la speranza: il film, in questo senso, non scioglie l’ambiguità circa la possibile veridicità dell’esercito Nuova Terra fino all’ultima inquadratura, lasciando alla narrazione il compito di affastellare eventi attraverso una serie di flashback che rivelano la storia del corpo speciale. La figura iconica del sempre grandissimo Jeff Bridges unisce così la tensione spirituale dello Starman carpenteriano con l’ironia lisergica del Grande Lebowski, mentre la presenza di Ewan McGregor costituisce il tramite ideale con la saga di Star Wars. Tutti segni cinefili indispensabili per tracciare il percorso lungo cui muovere la storia.

La natura ondivaga del progetto permette quindi alla vicenda narrata di unire insieme una grande forza d’animo, capace di veicolare un messaggio costruttivo, ma anche una forte dose di malinconia per le speranze deluse che hanno lasciato il campo a un nichilismo più disperato. Il percorso, in fondo, è davvero quello di un Jedi che deve combattere la sua battaglia, ignorando la paura e perseguendo il proprio obiettivo. In questo senso L’uomo che fissa le capre è un film che merita di essere amato e seguito, come un monito, ma anche come un raro barlume di speranza in un’epoca che sembra aver perso il senso delle cose e ha persino deprivato i vecchi feticci di ogni carica ancestrale. E’ dunque un film che rimette in circolo idee, ricordi, emozioni e, naturalmente, tanto cinema! Sta a noi portarlo meritatamente in trionfo.

L’uomo che fissa le capre
(The Man Who Stare at Goats)
Regia: Grant Heslow
Sceneggiatura: Peter Straughan, dal romanzo "Capre di guerra", di Jon Ronson
Origine: Usa, 2009
Durata: 93’

Grant Heslov, George Clooney e Ewan McGregor sul film
Sito ufficiale americano
Sito in italiano

mercoledì 4 novembre 2009

The Human Centipede (First Sequence)

The Human Centipede (First Sequence)
 
Due ragazze americane, Lindsey e Jenny, sono in vacanza in Germania dove restano in panne con l’auto. In cerca di soccorso, si ritrovano nella casa dell’austero Dr. Heiter, che, alla prima occasione, le immobilizza per farne le cavie del suo nuovo esperimento. L’uomo, infatti, è un chirurgo specializzato nella separazione dei gemelli siamesi, ma ora intende dare seguito a una nuova creatura che unisca invece di dividere. Dopo aver catturato anche un giovane ragazzo giapponese, Heiter dà quindi il via all’operazione per creare un “millepiedi umano”, attraverso l’unione chirurgica dei corpi lungo la direttrice bocca-orifizio anale.

La visione di Human Centipede, meritato vincitore del Ravenna Nightmare Film Fest 2009, arriva come ultimo atto di un processo preparatorio che aveva visto il film assurgere preventivamente all’olimpo del culto. Atteso e invocato per la bizzarria estrema della sua idea, il film spunta come un corpo apparentemente anomalo nel curriculum del regista Tom Six, proveniente dalla televisione e già director dell’originale Grande Fratello olandese. Non si potrebbe pensare, dunque, a una persona più integrata con il sistema audiovisivo mainstream di questo folle mitteleuropeo che invece stupisce tutti dando fondo alla sua insospettabile passione per il cinema di Takashi Miike, mettendo in scena un’idea nata dichiaratamente come scherzo durante una discussione tra amici.

Questo aspetto istantaneo si riverbera inevitabilmente in una storia che, sul versante narrativo, si esaurisce unicamente nella messinscena dell’idea, secondo una dinamica che in altre mani aveva in passato prodotto risultati modesti (basti pensare all’Eli Roth del primo Hostel), ma che qui si rivela straordinariamente funzionale agli intenti. Il film, infatti, si concentra sul dolore dei malcapitati protagonisti, costretti a subire l’umiliante tortura dell’operazione ideata dal folle dr. Heiter: lo scienziato domina al contempo la scena attraverso la felice caratterizzazione fornita dall’attore Dieter Laser, sorta di moderno epigono spettrale del Caligari di Conrad Veidt, ibridato con il gigionismo del Christopher Walken più cattivo. D’altronde che il film riverberi la sua sostanza cinefila è indubbio, anche se poi cerca un approdo nel reale, sia attraverso una (forse anche pretestuosa considerando che l’operazione avviene in fuori campo) “accuratezza chirurgica”, sia attraverso un discorso più complesso sul tema dell’incomunicabilità.

Ecco, l’aspetto più interessante del film non sta soltanto nella natura scioccante di una storia che indugia in una perversione di rara forza emotiva, ma nel modo in cui la stessa si eleva a livello metaforico, riuscendo nel contempo anche a diventare filtro di storie già raccontate: ci sono echi di Frankenstein, dell’espressionismo tedesco e, per l’appunto, del body horror giapponese (oltre a quello cronenberghiano), che rimandano inevitabilmente agli orrori del nazismo, agli esperimenti di Mengele e, in generale, a tutto il sottofilone della provincia che diventa nido di insospettabili orrori.

Il collante fra questi aspetti tra loro apparentemente difformi sta tutto nella metafora dell’incomunicabilità che il film riverbera sin dal principio attraverso la compresenza di personaggi provenienti da differenti realtà (America, Germania, Giappone). Già quando le ragazze restano in panne le vediamo subire le molestie di un passante senza che loro inizialmente ne capiscano le intenzioni perché distratte da una lingua che non comprendono. Allo stesso tempo l’unico dei tre malcapitati che non vede la sua bocca unita chirurgicamente alle terga del compagno è il ragazzo giapponese, che si ritrova in testa e che però non parla la stessa lingua di Heiter. E anche quando la sua confessione finale lo porterà a invocare il perdono per le sue colpe, la sua resterà una considerazione non compresa, destinata a perdersi. 

Il film dà quindi forma a una cacofonia di suoni con i lamenti di dolore delle vittime che divengono autentico leit-motiv sonoro della storia, in opposizione alle risate mefistofeliche dello scienziato e questa contrapposizione fra l’insostenibilità della tortura e la cifra assolutamente grottesca dell’esperimento permette al film di viaggiare sul doppio binario del drammatico e del comico. Non a caso lo stesso Six ha rivelato a Ravenna che il film suscita reazioni opposte a seconda del tipo di pubblico cui viene mostrato, è divertente per alcuni e rappresenta un autentico pugno nello stomaco per altri (fra i quali il sottoscritto).

Ad ogni modo l’unione fisica fra i protagonisti diventa metaforico contrappasso all’incomunicabilità del loro status di stranieri in terra straniera e, ovviamente, di personaggi egoisti che subiscono per questo la loro simbolica punizione. La surrettizia unione corporale diventa quindi l’unico modo possibile per una comunicazione che ormai, smarrito ogni precetto morale, è diventata esclusivamente fisica, con le feci che si volgono a nutrimento in una sorta di assurda rivisitazione della teoria dei vasi comunicanti. Un unico apparato digerente distribuito su tre corpi, dunque, che dice molto su come il corpo sia ancora il campo di battaglia prediletto dall’horror dopo i fasti splatter degli anni Ottanta. In ogni caso, di splatter qui ce n’è poco, Six preferisce suggerire più che mostrare, ma l’esito è ugualmente scioccante. D’altra parte è molto interessante anche la possibilità di spostare il precipitato teorico inquadrando anche l’unione dei corpi come critica all’autofagia di un genere che si nutre sempre di se stesso. 

Del film è anche in lavorazione un seguito che dovrebbe portare alla creazione di un millepiedi “completo” (Full Sequence) e che promette di essere molto più esplicito sul piano della violenza.

The Human Centipede (First Sequence)
Regia e Sceneggiatura: Tom Six
Origine: Olanda/Uk, 2009
Durata: 90’