"C'è chi crede in dio o nel denaro. Io credo nel cinema, nel suo potere. L'ho scoperto da ragazzino, mi ha aiutato a fuggire da una realtà in cui ero infelice. È una delle forme d'arte più alte che l'uomo ha concepito. Credo nel suo futuro."
(John Carpenter)

giovedì 30 ottobre 2008

This is Halloween

This is Halloween

Anche l’Italia da qualche anno festeggia la ricorrenza di Halloween: lo fa con il piglio di chi a tratti si sente un po’ colonizzato dalla “festa americana” (sebbene l’origine sia nord-europea e poggi su una rete di usanze e culti pagani rintracciabili anche nel folklore di molte comunità nostrane), ma anche con l’entusiasmo fanciullesco di chi può vivere tutta l’atmosfera liberatoria e folle di un giorno capace di esorcizzare antiche paure e offrire un’occasione di divertimento collettivo.
In fin dei conti è ancora una volta un modo per celebrare un immaginario, che porta con sé il suo corollario di usanze e riti, che vanno da quello più diffuso del “dolcetto o scherzetto” a quello maggiormente faceto delle rassegne di film horror tra amici per una nottata nel segno del “gioco della paura”.
Se quindi, come il sottoscritto che da piccolo guardava con grande trasporto emotivo (e un pizzico d’invidia) i servizi televisivi sulla parata in maschera di New York, sapete vivere la notte del 31 ottobre con il giusto spirito, a voi vanno gli auguri per questa festa così poco istituzionale ma unica nel suo genere.
Buon Halloween!

lunedì 27 ottobre 2008

Lucca 2008

Lucca 2008

L’altro grande appuntamento di fine ottobre è da tempo quello che vede gli appassionati di fumetti, animazione e videogames chiamati “a raccolta” per la Fiera di Lucca, città ormai deputata a vera e propria capitale italiana per questi settori dell’industria dell’entertainment.

E dopo anni di rodata esperienza (nonostante i pessimi collegamenti della città e le strutture alberghiere insufficienti a contenere la mole di appassionati che si riversano in loco) Lucca Comics & Games ha assunto una grandiosità tale da immergere, per i pochi giorni della sua durata, l’intera comunità nell’evento: in effetti, l’aspetto più bello della Fiera è quel suo svolgersi non in un anonimo padiglione periferico (come spesso avviene con questi eventi), ma – da un paio d’anni almeno – nel cuore stesso del centro storico, con gli stand incastonati fra gli angoli delle piazze, a costituire un percorso i cui punti d’unione sono i sempre più variopinti cosplayer (gli appassionati “mascherati” da personaggi dei fumetti o dei cartoni animati) che attraversano ogni via in una sorta di carnevale d’autunno (e quindi il fatto di incrociare anche la festività di Halloween non è una scelta peregrina, tutt’altro!).

Quest’anno la macchina si rimette in moto con un manifesto firmato dal grande Leo "Rat-Man" Ortolani che focalizza già l’attenzione su uno dei temi portanti della Fiera, ovvero i 30 anni di Goldrake in Italia, con una serie di eventi che vedranno coinvolte varie realtà.

La Marvel (e con lei la Panini, licenziataria del marchio per il nostro paese) dal canto suo risponde con un super-super-ospite quale John Romita Jr., storico disegnatore di albi memorabili dell’Uomo Ragno e di Devil, che festeggia anche lui il trentennale della sua grande carriera e che quindi firmerà autografi e presenzierà all’uscita di un volume a lui dedicato (e per fortuna non troppo costoso, siamo sui soliti 12 euro delle pubblicazioni da libreria “made in Panini”).

E poi tanti altri appuntamenti offerti dai più svariati editori del settore (che in ordine alfabetico vanno dalla “B” di Bonelli, alla “Z” di Zannablù), ospiti prestigiosi che travalicano le categorizzazioni (Giorgio Faletti, Carlo Lucarelli, Dario Argento) e il consueto spazio dedicato ai concerti, che vedrà quest’anno, fra gli altri, ospiti Vito Tommaso, Cristina D’Avena e gli ormai veterani Superobots.

Insomma, dal 30 ottobre al 2 novembre ci sarà da divertirsi!

Il sito ufficiale di Lucca Comics and Games

domenica 26 ottobre 2008

Ravenna 2008

Ravenna 2008

Ha cambiato date già da un anno e nel 2007 aveva fatto tremare i suoi fedelissimi non per la ferocia delle immagini che abitualmente scorrono sullo schermo del multiplex CinemaCity, ma per una contrazione eccessiva del programma, che sembrava presagire un brusco ridimensionamento; e invece quest’anno il Ravenna Nightmare Film Fest si ripresenta in buona forma, con un’offerta di titoli assolutamente degna di rispetto e in grado di ricordarci che si tratta pur sempre dell’appuntamento più importante che abbiamo in Italia riguardo al cinema horror (quello mainstream perlomeno). Uno spazio utile per monitorare le tendenze in atto nel mercato del genere, intrecciandole magari con le lezioni fornite dal fecondo passato.

Stavolta i due eventi sono rappresentati rispettivamente dall’anteprima di Frontières di Xavier Gens (dal 9 novembre nelle sale italiane), nuovo esponente della generazione dello splatter francese, e, soprattutto, il ritorno del cult-director Frank Henenlotter che dopo i deliri anni Ottanta di Basket Case e Brain Damage stavolta ci riprova con il nuovissimo Bad Biology.

Non per fare i nostalgici a tutti i costi, ma da queste parti forse l’appuntamento più atteso è poi la rassegna “Animal Attack”, dedicata ai classici del cinema “bestiale” riproposto in copie vintage 16 mm! Come resistere a uno spazio che promette di far rivivere su grande schermo le imprese dell’originale King Kong, delle formiche di Assalto alla Terra, che promette di sedurre il pubblico con Il bacio della pantera e vuole celebrare la gloria del grande Maestro della Science Fiction Jack Arnold con capolavori quali Tarantula e Radiazioni BX: distruzione uomo? Semplicemente non si può e quindi meglio immergersi nelle proiezioni in notturna in grado di collegare passato e presente nell’arco che dall’ottobre passa al novembre, incrociando la data simbolica del 31 con la festa di Halloween!

Si parte quindi domani, lunedì 28 e si chiude l’1 novembre: per chi ci sarà come sempre l’appuntamento è in sala.

Il sito del Ravenna Nightmare Film Fest

giovedì 23 ottobre 2008

Remington Steele

Remington Steele

Solitamente, quando si pensa agli anni Ottanta, l’immaginario che subito balza in mente è quello barocco e fracassone, che tende spesso a sconfinare nel kitsch, tipico soprattutto della seconda metà del decennio. Si tende pertanto a dimenticare invece quell’interessante momento di passaggio che ha visto nuove generazioni di autori confrontarsi in maniera feconda e interessante con i codici espressivi e narrativi del cinema classico per adeguare gli stessi al gusto delle nuove generazioni, dando vita a prodotti vitali e intelligenti.

La serie tv Remington Steele è uno degli esempi più puri di questi prodotti “di mezzo”, capace quindi di riverberare la forza dei modelli dai quali attinge a piene mani, risultando però non parassitario, ma anzi intrigante e ancora oggi abbastanza godibile. Trasmessa inizialmente dalla tv italiana con lo strano titolo Mai dire sì, la serie in questione è stata prodotta da MTM Enterprise per il network NBC ed è andata in onda (in America) dal 1982 al 1987 articolandosi in cinque stagioni per un totale di 94 episodi. Protagonisti indiscussi erano un ancor giovane e semisconosciuto Pierce Brosnan e la brava (sebbene poco fortunata) Stephanie Zimbalist.

La storia si incentra sulla giovane e capace detective privata Laura Holt che, dopo aver constatato la diffidenza dei clienti a fidarsi di un’investigatrice donna, si inventa un immaginario principale, Remington Steele appunto, al quale intesta la sua agenzia. Un giorno, però, un raffinato ladruncolo irrompe nella sua vita assumendo l’identità di Remington Steele e affiancando Laura nelle sue quotidiane avventure.

A un livello primario Remington Steele è una serie giallo-rosa che sfrutta l’elemento thriller come supporto per la componente comedy fornita dai continui battibecchi tra i due protagonisti: Laura infatti sopporta a fatica l’inganno del quale si è resa involontaria complice con l’arrivo del suo falso “principale” (del quale non si saprà mai il vero nome), è chiaramente la più capace del duo e deve da un lato portare avanti l’attività, dall’altro vigilare perché l’impostore non comprometta la rispettabilità della ditta a causa della sua inesperienza di investigatore. Il che inevitabilmente dà vita a una serie di divertenti equivoci che si sposano più in generale con una riflessione sui ruoli dei due personaggi e sul rapporto tra i sessi in una società che non ha ancora permesso alle donne la piena emancipazione e, anzi, continua a perseguire un’ideale divisione dei compiti. Materiale perfetto per una screwball comedy di impianto classico, genere dal quale la serie attinge in maniera precisa con dialoghi veloci e frizzanti, in grado di conferire brio a una serie basata più sul confronto verbale che sugli eventi. Steele e Laura, insomma, possono essere visti come una sorta di versione moderna di Nick e Nora Charles, i protagonisti della splendida saga de L’uomo ombra o delle classiche coppie alla Katherine Hepburn/Cary Grant, anche se aggiungono una dose di chimica sessuale in più, grazie al carisma e al fascino dei due interpreti, in grado di conferire un sapore più moderno al prodotto. Quello tra Steele e Laura, in fondo, è nient’altro che un lungo corteggiamento fra due personaggi dal carattere opposto, destinato a trascinarsi per tutta la durata della serie.

Tutto questo permette a Remington Steele di fare il paio con un altro importante telefilm degli anni Ottanta come Moonlighting, interpretato da Cybill Sheperd e Bruce Willis (e creato dallo stesso produttore, Glenn Gordon Caron).

L’elemento nuovo è fornito dall’inserimento, in questo schema per l’appunto classico, dell’elemento finzionale: in un nuovo mondo che bada molto all’apparenza più che alla sostanza, quindi, la rappresentazione diviene uno strumento capitale per potersi muovere tra le pieghe del reale e perseguire i propri scopi. L’idea è sfruttata sia a livello squisitamente narrativo, per generare continui equivoci, sia teorico, attraverso un gioco di rispecchiamenti con una serie di modelli che Steele rievoca esplicitamente. Il personaggio è infatti un fervente cinefilo che si rapporta ai casi attraverso quanto ha imparato dai film che ha visto durante la sua vita (dei quali sistematicamente cita gli elementi con la classica formula cinefila americana della quale si è scritto nell’articolo sulla Warner). E l’aspetto più interessante sta nel fatto che quasi sempre questi “insegnamenti” si rivelano utili e corretti, perfettamente adattabili alle situazioni generate dal meccanismo giallo: è chiaro dunque come si sia all’interno di uno schema che non cerca i suoi referenti nel mondo reale, ma è perfettamente conchiuso in un percorso referenziale e citazionista, che ci dice della natura postomoderna del serial, dove l’apparenza è sostanza e la consapevolezza del proprio agire in rapporto a un modello preesistente è evidente.

Remington Steele diventa quindi un puro gioco cinefilo che viene ingaggiato con lo spettatore consenziente (meglio se conoscitore dei film di volta in volta chiamati in causa) fornendo nuove prospettive su scene e meccanismi già noti, con un esito brillante e ricercato.

Ciò permette al telefilm di superare anche alcuni difetti tipici del prodotto seriale anni Ottanta, quali l’estrema povertà di una regia basata in prevalenza su primi piani, e una fotografia piatta (in antitesi a quanto invece avviene oggi, in maniera anche smodata), cui i produttori cercano comunque di ovviare attraverso una varietà di situazioni e di luoghi che portano le stagioni finali ad essere parzialmente ambientate anche in Europa e in location lontane da quelle tradizionali del giallo o della commedia sofisticata. Entrano dunque in ballo rivali in amore per Steele, come il personaggio dell’avventuriero interpretato da Jack Scalia (secondo un modello tipico dell’eroe anni Ottanta alla Indiana Jones o Jack Colton – il personaggio di Michael Douglas in All’inseguimento della pietra verde), fatto che dimostra anche la capacità del format di assorbire gli stimoli offerti dall’immaginario contemporaneo.

Pagina di Mai dire sì su Wikipedia
Remington Steele Fan Page (in inglese)
Lista dei film citati nel serial
Sito ufficiale di Pierce Brosnan
Sito ufficiale di Stephanie Zimbalist

lunedì 20 ottobre 2008

Wall-e

Wall-e

Siamo nel futuro e la Terra è ormai disabitata e coperta dai rifiuti: unico superstite è Wall-e, un robot spazzino che compatta l’immondizia per realizzare dei cubi destinati a diventare i mattoni dei nuovi palazzi. Un giorno però sul pianeta arriva un’astronave aliena che libera Eve, un robot spia il cui compito è trovare tracce di vita organica: elegante nei movimenti ma anche capace di sfoderare arme letali, Eve fa breccia tra gli ingranaggi che compongono il cuore meccanico di Wall-e, che riesce a superare il suo carattere spigoloso e a proteggerla dalle intemperie che periodicamente affliggono il pianeta. Tutto questo fino a quando Eve non trova una pianta e fa pertanto ritorno all’astronave madre, ultimo baluardo di una umanità impigrita e schiava del benessere. Una umanità che ora dovrà fare ritorno al pianeta che sta risorgendo, ma che dovrà per questo superare la ritrosia delle macchine, asservite a una vecchia direttiva che ordina di restare nello spazio. Wall-e e Eve diventeranno l’ago della bilancia per superare l’empasse.

Che piacere notare come la Pixar non sia schiava del suo successo e si permetta di sperimentare e cercare nuove vie: chi altri dopo i grandi successi de Gli incredibili e Ratatouille si permetterebbe di realizzare un film così poco “per famiglie” come Wall-e, quasi privo di dialoghi e deliziosamente retrò nell’affidarsi a gag visive da slapstick (evidenti sin dal cortometraggio Presto che precede la proiezione) e che in mezzo infila anche una critica all’opulenza del presente? Sembra di rivedere lo Spielberg degli esordi, che dopo i successi de Lo squalo e Incontri ravvicinati del terzo tipo, si prendeva la libertà di ridersi addosso con il sottovalutato 1941: Allarme a Hollywood!

Il paragone con il grande regista americano è rafforzato anche dall’evidente debito che il design di Wall-E paga nei confronti di E.T. (ma non va dimenticato anche il simpatico “Numero 5” di Corto circuito), con occhi dotati di una espressività molto marcata, al punto da definire lo spazio all’interno del quale si articola il discorso caro a Andrew Stanton e al suo staff. In fondo il problema sta tutto nel vedere, nell’essere distratti da annunci pubblicitari che inducono a non pensare a quanto si sta facendo, in una perenne coazione a ripetere che produce un conformismo sfrenato annullando ogni volontà e rendendo ogni persona un prodotto riconoscibile di un meccanismo rodato (e qui si potrebbe fare riferimento anche a Minority Report, sempre di Spielberg). Ma più del detto, di quanto viene (anche didascalicamente) esplicitato, è apprezzabile quanto viene restituito attraverso la mera forza degli elementi iconici.

L’immagine più forte del film diventa così quella che vede Wall-e edificare enormi grattacieli di immondizia: parafrasando Richard Matheson e la moderna trasposizione di Francis Lawrence (e Will Smith) anche Wall-e potrebbe affermare “Io sono leggenda” e la sua odissea di operaio futuribile, addetto a una impossibile ricostruzione di un mondo ormai privo di identità e senso, si staglia come la più efficace metafora possibile dell’inutilità dell’uomo moderno. Il simulacro di una società come la nostra diventa il prodotto di scarto, destinato a rifondare un mondo dove la superficie diventa sostanza perché al di sotto del materiale di risulta non c’è più un’anima.

Ecco dunque che l’impossibile storia d’amore “tecnologica” diventa a sua volta il punto di fuga attraverso il quale fondare una nuova prospettiva vivificatrice, che sa conservare quello che di utile si annida tra i rifiuti (gettando via gli inutili gioielli per mantenere invece la loro scatola) in un elogio della memoria come unica possibile sostanza per trovare il proprio posto del mondo. Dove il cinema definisce culturalmente e in senso meraviglioso le possibilità di interazione all’interno di una società e crea un immaginario coerente che arricchisce la vita e fa comprendere il valore delle emozioni. E’ questo ciò che più distingue la coazione a ripetere di Wall-e da quella degli umani: il primo non ne è dominato, ma riesce a piegarla alle sue esigenze, non dimenticando mai quell’interazione e quella ricerca dell’altro che invece gli obesi passeggeri dell’astronave madre vivono ogni volta con sorpresa, meravigliandosi di ogni più piccolo contatto nei vari momenti in cui non sono bombardati da uno spot pubblicitario.

Il discorso è chiaramente allargabile a un livello metacritico, osservando come in fondo il film usi (benissimo) il digitale per illustrare il presente, ma si affidi all’analogico e al formato Live Action per gli inserti di repertorio (cinematografici e giornalistici) in una compresenza di vecchio e nuovo che costituisce il motivo d’essere della stessa Pixar. Non a caso anche i titoli di coda passano in rassegna diversi stili espressivi, dal disegno tradizionale, a figure più pittoriche, fino agli albori delle figure in pixel, dal caratteristico design con i bordi frastagliati.

Ecco dunque che il racconto di due singoli robot diventa metafora di una situazione più universale (come sempre accade con i film Pixar) e se la struttura narrativa soffre in effetti di alcuni sbalzi che nella seconda parte producono un andamento più singultante, il film vive letteralmente di alcuni slanci lirici evidenti nei teneri gesti di un Wall-e incerto che si stringe timidamente le mani, che volteggia nello spazio sospinto dalla forza di un piccolo estintore e, aggrappato all’astronave, si immerge nello splendore degli anelli di Saturno.

Wall-e
(id.)
Regia: Andrew Stanton
Sceneggiatura: Andrew Stanton e Jim Reardon, da un soggetto di Andrew Stanton e Pete Docter
Origine: Usa, 2008
Durata: 98’

Video intervista ad Andrew Stanton (sottotitolata)
Ritratto di Andrew Stanton
Sito ufficiale italiano
Sito ufficiale americano
Sito ufficiale americano della Pixar

mercoledì 15 ottobre 2008

Shut-eye Hotel

Shut-eye Hotel
 
Accostarsi a un lavoro di Bill Plympton significa sempre affidarsi a un talento in grado di giocare a perfezione con i topoi e i cliché di genere in modo da produrre un risultato che, nella sua riconoscibilità, è assolutamente significativo (e godibile, oltretutto). Con il divertentissimo Shut-eye Hotel (realizzato nel 2007), il cartoonist americano intende dichiaratamente realizzare un prodotto che faccia “con il dormire quello che Lo squalo ha fatto con il nuotare”, ovvero immergere lo spettatore in una condizione di incertezza tale da impedirgli di essere rilassato in una situazione che pure dovrebbe invece indurlo in uno stato di quiete.

L’hotel del titolo è infatti un luogo in cui avvengono morti misteriose e sanguinolente, con i malcapitati clienti che si ritrovano con la testa spappolata: una coppia di agenti di polizia indaga fino a scoprire la sconcertante verità! Già da questi pochi elementi si può notare il lavoro sulle caratteristiche di una tipologia codificata di racconto, che Plympton si diverte a omaggiare e nello stesso tempo a sovvertire, mescolando tensione e risate, secondo un meccanismo peraltro basato non sulla contrapposizione degli opposti, ma sulla loro coesistenza: ci si diverte nello stesso momento in cui si è in tensione e i due sentimenti si equilibrano e sostengono a vicenda.

Plympton è quindi perfettamente allineato alla tendenza postmoderna del cinema che attraverso le citazioni e il lavoro sugli elementi iconici e tipici di un genere riesce a giocare con lo spettatore, con la sua cultura cinefila e con le sue aspettative, ma anche a sorprenderlo attraverso un amalgama inedito che produce risultati degni di spicco: nel caso specifico l’inserimento di un elemento fantastico in una vicenda dai chiari connotati noir.
Gli elementi della messinscena sono dunque protesi maggiormente alla ricostruzione di un’ambientazione tipica e perfettamente identificabile come luogo del mistery e della suspence: l’hotel, la stanza chiusa, la vittima indifesa, gli amanti assassinati e l’indagine secondo il classico meccanismo del whodunit. Ovviamente tutti gli artifici cinematografici sono anche indirizzati in questo senso, dalla musica jazzata ai giochi di chiaroscuro che illuminano particolari nel buio generando anche alcune gag (come quella del vestito dentro l’armadio che sembra una persona), senza contare la palette cromatica tendente al grigio, salvo laddove compare il sangue che con il suo rosso accesso inserisce un elemento dissonante e di forte impatto. E poi c’è un interessante gioco prospettico che sembra rifarsi all’espressionismo tedesco - di fatto matrice di molto cinema noir per la sua capacità di esteriorizzare le angosce dei protagonisti - ma che si inserisce anche perfettamente nell’opera intera di Plympton, basata proprio sull’esasperazione dei particolari, sullo stravolgimento delle fisionomie e sul riplasmare corpi e figure in senso grottesco e funzionale alla logica dell’assurdo cara all’autore. Ecco dunque il particolare design dell’hotel dallo spessore sottile nel quale si ambienta l’intera vicenda e che prende le distanze dalla tipica iconografia da gotico americano alla Psyco.

Il gioco di svelamenti e inganni viene portato avanti da Plympton fino all’estremo finale, permettendo alla suspense di dispiegarsi pienamente, ma anche all’intera vicenda di connotarsi come parodia della paranoia tutta americana del “pericolo in casa” e come divertita presa in giro della stupidità umana: l’improbabilità della situazione va anche in questo senso, oltre a permettere al cortometraggio di aderire pure alle regole codificate dell’horror, dove è proprio l’assurdo a genere il senso di spaesamento: il tutto in soli 7 minuti, senza pronunciare una sola parola, ma servendosi unicamente dei suoni e di gag visive, con l’animazione dal corposo tratto a matita e con l’ausilio di una Computer Graphic comunque mai troppo invasiva.

Shut-eye Hotel è stato presentato in numerosi festival internazionali (in Italia è passato al Lucania Film Festival 2007), si spera che sia possibile una sua diffusione anche al di fuori del circuito.


Shut-Eye Hotel
Regia: Bill Plympton

Sceneggiatura: Bill Plympton
Origine: Usa, 2007
Durata: 7’

lunedì 13 ottobre 2008

Punisher: Vedove nere

Punisher: Vedove nere

Uscito da poco nelle fumetterie italiane per Panini Comics, il nuovo capitolo della più recente saga dedicata al Punitore prosegue il lavoro di indagine sulle motivazioni, gli umori e i sentimenti che animano uno dei più controversi personaggi della Marvel Comics, e li eleva ancora una volta a paradigma di un ritratto sociale devastato e prigioniero di continue spirali di violenza. Il titolo italiano sposta il fulcro della storia dalla figura del Punitore (il “Widowmaker” originale) a quella delle “Vedove nere”, rimaste prive dei mariti in seguito alla lotta che il Vigilante ha organizzato contro la malavita, e che intendono per questo vendicarsi.

La scelta degli adattatori non è sbagliata nella misura in cui il Punitore in questa storia non è il vero protagonista, ma è sicuramente il deus ex machina degli eventi, il catalizzatore che spinge personaggi distanti – sebbene in alcuni casi legati da evidenti vincoli parentali – a convergere in un’unica direzione. In questo senso l’antieroe appare centrale seppure defilato e la sceneggiatura dell’ottimo Garth Ennis (da otto anni titolare della testata) sfrutta il racconto parallelo permettendo all’intera storia di sfoggiare una varietà di situazioni e una corposità spesso assente in queste vicende, che in più di una occasione danno l’impressione di concludersi in fretta. Il risultato è uno dei migliori archi narrativi della saga, degno di essere considerato fra i capolavori della stessa.

Va da sé che la storia, sebbene autoconclusiva, si pone in un legame di continuità con le vicende narrate in precedenza, restituendo in tal modo l’idea di un racconto coerente con l’insieme della collana “Punisher MAX”, che ha ridefinito le coordinate del mondo in cui opera il Punitore, attraverso un approccio serio e adulto, sovente accostabile al genere noir, e quindi ben distante da quello supereroistico per il quale la Marvel è famosa e nel quale lo stesso personaggio è nato (in origine, infatti, il Punitore era un antagonista dell’Uomo Ragno).

Con questi presupposti il lavoro di Ennis ha comunque attirato attenzione soprattutto in virtù della ferocia di molte situazioni e per il suo sguazzare nel sordido (con abbondanza di turpiloquio, sesso e violenza) in un modo che ad alcuni sarà apparso compiaciuto: ovviamente c’è negli intenti dello sceneggiatore una forte vena dissacrante e iconoclasta tipica del fumetto underground, ma un albo come Vedove nere offre qualcosa in più, e dimostra facilmente lo spessore narrativo dello scrittore: la disperazione che traspare infatti dalle pagine, sebbene mitigata da piccoli siparietti ironici conseguenti una necessaria tipizzazione delle vedove (la matriarca, la nera più aggressiva, la “bambola” sesso-dipendente e via citando), contestualizza la violenza e le situazioni più forti in una narrazione il cui fulcro è proprio l’esplorazione dei meccanismi psicologici attraverso i quali il senso di giustizia tracima nell’odio e dunque nella vendetta spietata.

Posto dunque come punto cardine quello del Punitore, che del giustizialismo costituisce il paradigma, la storia è costruita attraverso un triangolo i cui vertici sono rappresentati dalle vedove, dalla solitaria Jenny (che intende a sua volta attuare una vendetta incrociata contro le donne) e dal detective Paul Budiansky (stanco delle limitazioni imposte dal regolamento e il cui spiccato senso di giustizia rischia di avvicinarlo agli estremismi punitivi del Vigilante). I tre poli rappresentano quindi l’idea di una vendetta freddamente organizzata (le vedove), mossa da un puro istinto con conseguenze autodistruttive (Jenny) e le cui pulsioni sono tenute faticosamente sotto controllo da una componente razionale (Budiansky). Tre prospettive che scompongono e analizzano la complessità di un agire violento e pertanto si riflettono e ritrovano nella sostanza della missione che muove lo stesso Punitore.

Inevitabilmente la collisione dei primi due gruppi finisce per lasciar emergere con maggior impatto devastante il tragico destino della figura femminile all’interno di una saga che l’ha sempre relegata ai margini come silenziosa e acquiescente spettatrice delle malefatte altrui (tali sono in fondo le mogli dei criminali), oppure come vittima sacrificale (la moglie del Punitore e le sue compagne occasionali, destinate sempre alla morte finale, secondo uno schema che torna direttamente all’esempio fornito dal Charles Bronson de Il giustiziere della notte). In questo schema Budiansky svolge il compito di valvola di sfogo, destinata a elaborare criticamente le pulsioni omicide delle attrici del conflitto e si configura quindi come figura di commento (a mo’ di coro greco) degli eventi.

Pertanto Vedove nere ammanta il racconto di una disperazione che incide una ferita profonda nello schema di odio e di violenza da sempre caratteristico della serie, elevando la cronaca di una vedetta al resoconto di una guerra nella quale nessun personaggio può dirsi immune, stretto com’è in logiche assassine destinate inevitabilmente a fagocitarlo. Non esiste un perché, ma soltanto un prima o un dopo il passaggio del confine, quando la spirale della vendetta allargherà il suo giro coinvolgendo sempre più persone. In questo senso la storia, pur con i limiti imposti da una continuità che non si può interrompere, mette in crisi la figura e la missione del Punitore e mostra ancora una volta come la crociata rechi con sé un peso enorme e disumano, del quale l’antieroe è pure disposto a farsi carico (avendo in fondo lui voluto questo, e si vada subito a rileggere il seminale Punisher: Born che esplora le motivazioni più profonde che muovono il Vigilante), come si nota anche nella breve sequenza in cui punisce due genitori pedofili e capisce che forse un giorno i figli verranno a cercare vendetta nei suoi confronti. Non siamo, insomma, più nei terroritori dell’action-adventure, ma della tragedia tout-court.

Tutto questo è reso magistralmente anche attraverso i disegni di Lan Medina che, in perfetta continuità con lo stile da sempre prediletto dalla saga, usa un approccio realistico, con corpi proporzionati, sofferenti anche nella loro eleganza, dove è possibile riconoscere nei volti fisionomie più note (Budiansky pare ricalcato su Samuel L. Jackson), e le situazioni non sfociano nell’iperbole, mentre i colori desautorati e dalla spiccata dominante grigio-marrone danno l’idea di un universo noir completamente rinchiuso sulle sue ossessioni. La missione di Ennis, quindi, è quella di esplorare gli interstizi di questo cupo mondo, per mostrarne quelle piccole lacerazioni di umanità in grado di fornire un lirico controcanto che colpisca emotivamente lo spettatore.

Punisher MAX 10: Vedove nere
(The Punisher MAX vol. 8: Widowmaker)
Scritto da: Garth Ennis
Disegni: Lan Medina
Pubblicato da Marvel Italia/Panini Comics
168 pagine
2007

L’archetipo dell’eroe: il Punitore (dal sito Panini)
Il Punitore su Wikipedia
Garth Ennis su Wikipedia
Intervista Garth Ennis (in inglese)

domenica 12 ottobre 2008

The Mist

The Mist

Dopo un forte temporale, una cittadina del Maine viene avvolta da un banco di nebbia che sembra nascondere qualcosa al suo interno. David Drayton, pittore di manifesti cinematografici, è il primo a comprendere l’entità del pericolo quando, ritrovatosi insieme ad altre persone in un supermercato, vede dei mostruosi tentacoli spuntare dalla foschia e avere ragione di un ragazzo del personale. Restare asserragliati nel supermercato sembra dunque l’unica soluzione possibile, ma le tensioni interne al gruppo rischiano di esplodere quando l’integralista religiosa Mrs. Carmody inizia lentamente a convincere gli astanti che tutto rientra in un disegno divino, per placare il quale bisogna offrire in sacrificio delle vittime. David decide quindi, insieme a un gruppo di volontari, di abbandonare il luogo e affrontare la nebbia.

Frank Darabont è un bell’esempio di regista capace di veicolare le proprie istanze in un modo che sa essere profondamente rispettoso dei modelli con i quali si confronta: non è un caso che si sia per questo guadagnato una certa fama con le trasposizioni dei romanzi di Stephen King, autore a lungo tempo ritenuto “infilmabile” a causa della particolare alchimia dei suoi testi. Il confronto con il bel racconto/romanzo breve La nebbia (contenuto nell’antologia Scheletri, pubblicata al solito da Sperling & Kupfer) ovviamente induce a tenere presente anche un altro fondamentale modello cinematografico, ovvero lo splendido Fog di John Carpenter, al quale Darabont paga un omaggio affettuoso - ma non banalmente ossequioso - nella sequenza iniziale, dove vediamo, fra i bozzetti disegnati da David Drayton, anche quello de La cosa, altro epocale capolavoro del Maestro americano.

Il rispetto per l’opera kinghiana passa invece, oltre che per una trasposizione alquanto puntuale della storia, anche attraverso un approccio antispettacolare, meno “cesellato” di quelli al quale lo stesso regista ci aveva abituato, e più immediato, attento soprattutto alla veridicità dei personaggi (fra i quali peraltro non compare nessun divo, ma volti dal sapore quotidiano, anche dimesso) e alla forza dei dialoghi. In questo modo Darabont utilizza una regia di stampo televisivo che non poggia mai sulla forza evocativa delle creature (gli effetti speciali anzi sono di caratura inferiore agli standard odierni) o delle situazioni più spettacolari: si veda ad esempio il primo attacco dei tentacoli, che non raggiunge la tensione dei serrati confronti dialogici fra le opposte fazioni.

La scelta, rischiosa per i tempi attuali dove si richiede all’horror un impatto visivo sovraccaricato e estetizzante, riporta il genere agli albori del New Horror anni Settanta e in questo senso The Mist riesce nel dimenticato obiettivo di recuperare la cifra allegorica tipica degli esempi migliori del genere, che al mero evento impresso su schermo sanno accompagnare una pungente indagine sui malesseri tipici della società contemporanea: non ci si riferisce tanto alla palese (e facile) critica del bigottismo religioso, quanto a un più generico atto d’accusa contro la stupidità umana, elevata a stato inevitabile dell’essere, a elemento proprio e connaturato alla nostra natura, che diventa quindi causa dell’implosione del mondo.

Il film in questo senso nega completamente l’ottimismo insito nell’umanesimo che pure spesso è invece perseguito dal genere fantastico, e lo fa attraverso un’ironia feroce e beffarda, che illustra come ogni scelta sia il frutto di una autentica catastrofe. La lezione romeriana è evidente, ma Darabont si tiene volutamente a distanza dal senso della pietas tipico del regista di Zombi, per affondare invece le mani in un nichilismo (certamente più vicino a quello dell’originale kinghiano) che regala al film una struttura circolare destinata a sfociare in uno dei finali più duri che si siano visti da molto tempo a questa parte, assente anche nel romanzo originale e che definisce e completa puntualmente il senso dell’opera.

La pellicola inizia quindi con un disastro e termina con un altro, chi ha causato il danno alla fine è anche chi sembra riuscire a fronteggiarlo, mentre l’eroe di turno compie la più dolorosa ed errata delle scelte. Le motivazioni non sono comunque meccaniche, ma poggiano sulla convinzione di dover rovesciare il punto di vista rispetto a ogni utopia per prendere atto del fallimento già in atto, del quale il film non è che una icastica rappresentazione. Negando quindi i concetti di “giusto” e “sbagliato”, i profughi salvati dai soldati appaiono prigionieri di guerra in un campo ormai privo di vita e la salvezza dei singoli viene affidata alla privazione della vita, in modo parallelo a quel sacrificio umano richiesto da una fede religiosa anch’essa svuotata di ogni forma di misericordia, che però sembra fornire di fatto la lettura più calzante dell’arretramento e della privazione di identità del nuovo mondo che si sta affermando dopo l’arrivo della nebbia.

L’umanità insomma trasuda un senso dello sbando tale da rendere la comunità dei protagonisti un nucleo mai coeso e sempre slabbrato, articolato in fazioni divise e dominato da un’incertezza e da una totale mancanza di comunicazione: così molte delle morti sono determinate soprattutto dalla contrapposizione ideologica fra le parti (il ragazzo che apre la saracinesca per dimostrare che non ha paura, il vicino amico/rivale Brent che si getta nella nebbia per dimostrare di non credere ai mostri). E le scelte registiche di Darabont vanno nello stesso senso, mostrando i volti spaesati dei protagonisti attraverso una serie di rapidi stacchi di montaggio e riducendo all’osso il controcampo, tanto da negare piena visibilità ai mostri se non in poche scene: il punto di vista è quello delle vittime, non sappiamo chi siano le creature e come siano organizzate (se lo sono), la nebbia rimane fino all’ultimo una minaccia impalpabile e onnipresente, che rispecchia puntualmente l’immanente senso di fine della speranza in una umanità che ha perso il suo diritto a stare al mondo.

The Mist
(id.)
Regia: Frank Darabont
Sceneggiatura: Frank Darabont, dal racconto “La nebbia” di Stephen King
Origine: Usa, 2007
Durata: 127’

Sito ufficiale italiano
Sito ufficiale americano
Sito ufficiale americano di Stephen King
Sito ufficiale italiano di Stephen King
Video intervista a Frank Darabont e Stephen King (sottotitolata)

giovedì 9 ottobre 2008

I Fantastici 4 e Silver Surfer

I Fantastici 4 e Silver Surfer

Reed Richards (ovvero Mr. Fantastic) e Susan Storm (la Donna Invisibile) stanno finalmente per sposarsi, ma la Terra è minacciata da un nuovo pericolo: un alieno dal corpo argenteo che viaggia per le immensità dello spazio a bordo di una tavola da surf minaccia infatti di disintegrare il pianeta entro otto giorni, come ha già fatto con altri mondi. L’esercito chiede quindi ai Fantastici 4 di intervenire e li costringe a collaborare con il loro acerrimo nemico Victor Von Doom (il Dottor Destino)! Ma il Silver Surfer non è il vero Distruttore, svolge il compito di araldo stellare per una malvagia entità cui ha consegnato la sua vita per salvare il suo pianeta e la donna che ama…

Non c’è dubbio che un sequel come I Fantastici 4 e Silver Surfer sia penalizzato dalle scelte adottate in origine per il suo disastroso predecessore, reo di avere banalizzato il fumetto epocale di Stan Lee e Jack Kirby, vera matrice del classico paradigma dei “supereroi con superproblemi”. Nelle intenzioni dello staff di realizzatori (che peraltro vede anche partecipare nomi importanti come lo stesso Stan Lee e Chris Columbus, quali produttori escutivi, e lo sceneggiatore Mark Frost, celebre per la collaborazione al serial Twin Peaks) l’intenzione era quella di creare un brand dal taglio più solare e scanzonato attraverso la formula non del kolossal, ma del racconto seriale di matrice televisiva, evidente soprattutto nella (discutibile) scelta del casting (il Julian MacMahon di Nip/Tuck, il Michael Chiklis di The Shield e la Jessica Alba di Dark Angel). Anche la regia è stata pertanto affidata non a un nome di grido, ma a un autentico carneade come Tim Story, riciclatosi come director dopo aver visto fallire una carriera nel campo della musica in seguito alla morte violenta di un collega.

Il pessimo risultato del primo film, abborracciato e banale, ha comunque portato a un secondo capitolo di livello certamente più dignitoso, complice l’introduzione del più bel personaggio mai sfornato dalla ricca scuderia Marvel: Silver Surfer! La figura solitaria e malinconica di questo viandante delle stelle, nel cui tragico destino si riflette la disillusione di un’epoca di ideali infranti, trova nella caratterizzazione eccellente dell’ottimo Doug Jones (l’Abe Sapiens di Hellboy) e nella bella voce di Laurence Fishburne una perfetta controparte, tanto che il suo aspetto fiero e autorevole è da solo in grado di reggere la fragile architrave del film. La regia di Tim Story dal canto suo si limita a servire la storia, evitando le implicazioni più complesse dello stesso personaggio (in particolare la sua evidente caratura cristologica) ma per una volta si rivela funzionale nel riprodurre lo stile della serialità televisiva, molto asciutto e attento a valorizzare i caratteri principalmente attraverso la forza dei dialoghi.

La sinergia con la sceneggiatura di Frost, permette quindi una esplorazione delle dinamiche comportamentali interne ed esterne al gruppo dei Fantastici 4, che produce esiti interessanti. In particolare è degna di nota la polarizzazione del testo sui concetti di apparenza e sostanza, che contestualizza la natura di personaggi pubblici dei quattro supereroi e i loro dubbi circa la capacità di formare una micro-comunità coesa, dove i ruoli sono in continua via di definizione e le dinamiche affettive sono improntate a ogni possibile variante (amore fraterno, amicizia, legame di coppia, rapporto fra una figura più infantile e altre maggiormente responsabili e vicarie dei genitori). La figura argentata del Surfer si inserisce quindi all’interno di un quadro dai contorni sfumati dove è necessario cercare un compromesso fra la visibilità dell’icona e i suoi più intimi desideri, sintetizzati dalla frase di Johnny Storm su come si vorrebbero trascorrere gli ultimi minuti di vita. Ecco quindi che la minaccia di portata globale costringe il quartetto a definire i confini dell’azione reciproca e a rompere il giogo fatto di piccole ripicche reciproche o di scontri con gli avversari più consueti (come avviene con il Dottor Destino che, non comprendendo affatto il pericolo in atto, pensa unicamente al proprio tornaconto).

Ovviamente il discorso si fa tanto più interessante quanto più riesce ad “uscire” dai confini della pagina scritta per essere elaborato visivamente, attraverso una serie di elementi iconici che vanno dall’invisibilità di Sue, al gioco di mascheramenti/smascheramenti del Dottor Destino (che ritrova il suo aspetto di villain quando finalmente riesce a raggiungere il suo scopo e ad ottenere il potere del Surfer) alla cecità di Alicia Masters, l’unica che riesce a “vedere” davvero la sostanza delle persone che ha accanto. Pertanto i singoli eroi capiscono l’importanza del gruppo, superando non solo le singole debolezze (più evidenti in Reed e nel suo conflittuale rapporto con il Generale Hagler), ma anche i propri limiti, come accade con il più vanesio e scavezzacollo Johnny che, attraverso il contrappasso dello scambio di poteri comprenderà il pericolo di essere rifiutato dai suoi cari: non a caso con il ritrovarsi finale del gruppo proprio a lui saranno delegati i poteri di tutti per affrontare la battaglia con il Dottor Destino.

Temi e schemi narrativi che in controluce lasciano quindi intravedere spiragli delle potenzialità insite nella “superfamiglia” Marvel. Il resto è un film semplice e godibile, indiscutibilmente superiore al predecessore, che peraltro offre l’opportunità di rivedere in formato Live Action alcune pagine memorabili del fumetto originale, come il furto della tavola del Surfer da parte del Dottor Destino, in passato trasposto anche in animazione.

I Fantastici 4 e Silver Surfer
(Fantastic 4: Rise of the Silver Surfer)

Regia: Tim Story
Sceneggiatura: Don Payne e Mark Frost
Origine: Usa, 2007
Durata: 88’

Intervista a Jessica Alba e Chris Evans
Sito ufficiale americano
Scheda di Wikipedia sui Fantastici 4 (fumetto)
Scheda di Wikipedia su Silver Surfer (fumetto)

martedì 7 ottobre 2008

The Hurt Locker

The Hurt Locker

Iraq. Il team EOD è una squadra di sminatori dell’esercito americano, impegnata in missioni rischiose per neutralizzare gli ordigni nascosti nel terreno o fra i rottami dai nemici. Nonostante l’equipaggiamento di alto livello è sempre necessaria una grande dose di sangue freddo e di intuito, ma non sempre le cose vanno come dovrebbero e infatti in una delle prime missioni cui assistiamo il Sergente Thompson perde la vita, lasciando i suoi compagni senza una guida carismatica. Il suo posto viene rilevato dal Sergente William James che, a differenza del predecessore, è animato da un istinto più incosciente e distruttivo, cerca le situazioni pericolose e costringe la squadra a confrontarsi con lo spettro della morte in guerra. Il film segue il periodo di ferma dell’intero team, le loro missioni e i confronti interni.

Il ritorno di Kathryn Bigelow avviene nel segno di un cinema ancora una volta performativo e incentrato su un’ossessione, ma – e la cosa ha spiazzato più d’uno – anche lontano dalle lusinghe del più scontato film bellico di denuncia. La situazione tracciata dalla regista è cioè archetipica, la guerra è quella “sporca” irachena, ma la sua scelta è puramente strumentale, potrebbe anche essere il Vietnam o, ancora meglio, la Seconda Guerra Mondiale perché la focalizzazione è del tutto interna al gruppo dei soldati e non si sofferma sulle cause del conflitto, non si preoccupa di denunciare le manovre politiche che hanno portato quei “ragazzi” in quella situazione. La scelta è ponderata e coraggiosa, perché in questo modo può permettersi di assumere un tono oppressivo e che ancora una volta dimostra la natura eminentemente fisica di un cinema concepito come immersione in un atto estremo (sia esso la prigionia in un sommergibile, la convivenza con un gruppo di vampiri, la caccia a dei rapinatori surfisti e via citando).

Inoltre la scelta della regista permette al film di esplorare un concetto non troppo spesso evidenziato dal cinema bellico che, essendo per l’appunto spesso sopravanzato dal bisogno di cercare la causa del conflitto, tende a ignorare come esistano personaggi per i quali l’azione sul campo di battaglia è una sorta di estasi. La citazione iniziale del giornalista Chris Edgar, che ricorda come la guerra sia anche una droga, serve proprio a focalizzare immediatamente la prospettiva attraverso la quale sarà inquadrato tutto il film, e serve a dare una necessaria contestualizzazione (e nello stesso tempo a esprimere una critica) a quell’indole guerriera tipica del war-movie americano (a sua volta mutuata dagli archetipi del western) focalizzata sul senso della vendetta. L’eroe americano, cioè, è sostanzialmente un vendicatore (un “punitore” verrebbe da pensare, e in questo senso incuriosirebbe vedere la Bigelow alle prese con il personaggio Marvel, magari in una trasposizione del seminale Punisher: Born che in fondo racconta una storia vicina a questa), una figura che combatte sul campo per vendicare i compagni uccisi e si isola in questo modo in una spirale di ritorsioni incrociate che finisce essenzialmente per cancellare ruoli e colpe e per giustificare la violenza per la violenza (può essere illuminante a questo proposito un parallelo con Black Hawk Down di Ridley Scott, che illustra proprio questo tema assecondandone però la filosofia).

The Hurt Locker in questo senso è un film che viaggia su due registri, quello, appunto, performativo che ne fa una pellicola robusta, potente e ansiogena, girata con mano sicuro e grande senso del ritmo, che immerge lo spettatore in uno stato di stress e di tensione continua, diventando esperienza fisica da vivere sensorialmente; e poi quello più “filosofico” che esplora la dipendenza dal conflitto, tema che rimanda alla filmografia della regista. Si può quindi paragonare questa dipendenza a una sorta di “Squid bellico”, con ovvio riferimento alla droga virtuale di Strange Days: la tecnica di ripresa adottata peraltro è molto simile, con ampio uso della soggettiva e della steadycam.

Ovviamente si può pensare che il personaggio di Thompson sia il fulcro della narrazione, quello che, con la sua alienazione e il suo cinico e incosciente gettarsi nell’azione detti i tempi e le regole alla vicenda: questo è senz’altro vero e la performance di Jeremy Renner è straordinaria in questo senso, ma l’aspetto più interessante in realtà non sta tanto nel modo in cui viene “spiegato” questo stato dell’essere dipendenti dal conflitto, ma nei piccoli dettagli che progressivamente lo mettono in crisi e ne denunciano il ripiegamento nella follia, lasciando emergere le prime crepe nello schema ossessivo del racconto. Da questo punto di vista il personaggio fulcro è quello del sergente Sanborn, compagno di squadra di Thompson che attraverso il confronto con il collega matura progressivamente la cognizione dell’importanza del vivere e inizia a desiderare di tornare da quella moglie nei cui confronti non nutriva alcun senso di responsabilità, dimostrando tutta la fatica del dover diventare uomini in quello che era sempre stato affrontato come un’esperienza a metà strada fra il semplice dovere e il gioco più assurdo. Nello scegliere di affidare a un comprimario la voce critica rispetto alla direttrice incarnata dal protagonista, la Bigelow dimostra di aver compreso la lezione del miglior cinema americano e in questo, più che nell’impianto generale, va ricercato un possibile legame con i numi tutelari invocati prepotentemente in più recensioni (da John Ford a Samuel Fuller).

Il resto è un intelligente e anche divertito (per le apparizioni cameo degli attori famosi, spesso destinati a uscire di scena violentemente lasciando spazio ai protagonisti semi-sconosciuti) gioco con lo spettatore, fino alla magnifica provocazione del finale, che ovviamente va scoperto nel buio della sala.

The Hurt Locker
(id.)
Regia: Kathryn Bigelow

Sceneggiatura: Mark Boal
Origine: Usa, 2008
Durata: 127’

Intervista a Katryn Bigelow e al cast

giovedì 2 ottobre 2008

The Wrestler

The Wrestler

Randy “The Ram” Robinson è un lottatore professionista che, vent’anni dopo i fasti del suo incontro con lo storico rivale “L’Ayatollah”, è ormai ridotto ai margini dell’industria del Wrestling e sbarca il lunario fra lavori part-time e incontri di bassa levatura. Nel tempo libero frequenta uno strip-bar dove lavora Cassidy, una matura ma ancora affascinante spogliarellista che però non vuole intrecciare relazioni serie con i clienti. Un giorno, dopo aver sostenuto l’ennesimo incontro, Randy crolla nello spogliatoio per un infarto: il verdetto dei medici è implacabile, la sua carriera è finita, il fisico non è più in grado di reggere l’abuso di violenza e farmaci dopanti, e la possibilità di sostenere un incontro speciale che celebri il ventennale della sconfitta dell’Ayatollah, ottima possibilità per riguadagnare la ribalta, è destinata a sfumare. Il reinserimento nel mondo non è però facile e così, su consiglio di Cassidy, Randy prova a ricominciare ricucendo i rapporti con la figlia Stephanie. Inizialmente sembra andare bene, ma anni di incomprensioni ed errori non si cancellano in un colpo.

Meritato Leone d’Oro alla Mostra di Venezia 2008, The Wrestler è il film che officia definitivamente il funerale di un’epoca (gli anni Ottanta durante i quali Aronofsky – e molti di noi con lui – è cresciuto), e di un immaginario attraverso il corpo iconico di Mickey Rourke, il cui percorso umano e artistico si intreccia inevitabilmente con quello del suo personaggio accrescendo la potenza lirica del racconto. Attore gigantesco, Rourke si dona al film con potenza e grazia, passando in rassegna una serie di momenti che spaziano dall’ironico al tragico, donando al “suo” Randy una umanità sorprendente, che dribbla immediatamente qualsiasi possibile accusa di malizia da parte della pellicola e del regista. Randy “The Ram” Robinson cade, si ferisce, esibisce la sua carne martoriata e il viso rigonfio dai pugni, patisce ogni sofferenza in nome di uno spettacolo preordinato (come da regole del wrestling) e soffre nel privato per gli affetti negati e le relazioni che non riesce a costruire: la sua parabola è potenzialmente cristologia, ma il sottotesto viene esplicitato, e quindi scardinato, quando la sua amica Cassidy chiama in causa un paragone con il film La passione di Cristo. Il dialogo ha una connotazione quasi grottesca per il modo in cui la ragazza banalizza il martirio definendolo con divertita enfasi “due ore di torture”, evidenziandone quindi la forma eminentemente spettacolare. In tutto questo è racchiusa una perfetta chiave di lettura del film, nel quale Aronofsky sancisce la natura mass-mediale di Randy Robinson, il suo avere senso soltanto in quanto icona spettacolare che accontenta le masse anche nella fase terminale della sua carriera, per quanto ormai inerte sia la gloria (splendida a questo proposito la scena in cui l’atleta viene riunito ad altre glorie decadute del wrestling per firmare autografi).

Pertanto il percorso umano di Randy (che, si badi, pretende di essere chiamato con questo che non è il suo nome vero, riconoscendosi sempre e comunque in quanto personaggio e non persona) altro non è che una presa di coscienza, attraverso l’immersione nel mondo esterno al ring, della propria condizione di inadeguatezza, della sua incapacità di costruire altro che non sia uno spettacolo (come si nota nella divertente sequenza in cui il nostro serve al bancone del supermarket inscenando una serie di gag). Varcare una soglia per lui significa sempre entrare in scena anche quando la condizione non è più quella del protagonista, ma del subalterno.

Randy esiste davvero solo sul ring e quindi deve sacrificare e mettere in scena la propria morte ancora una volta sul quadrato, in un rito privato che diviene collettivo quando tutti gli spettatori sono chiamati a partecipare. Per questo la morte di Randy è la morte di un modo di pensare il mondo e di un immaginario che si rivela ormai anacronistico, fatto di heavy metal pesante che esce dall’autoradio, di un universo muscolare e pittoresco, che nella sua finzione pure conserva una certa innocenza. Aronofsky lo celebra con rispetto, ma stabilisce anche come il definire la realtà attraverso i simboli del passato sia ormai un’attività decadente di fronte a un presente che è ormai completamente diverso.

L’autore è comunque bravissimo nel farsi da parte, rinunciando alle sperimentazioni visive e narrative dei precedenti lavori per un approccio brutale e documentaristico alla materia, con camera a spalla, pedinando il personaggio spesso ripreso di spalle, e permettendo al film di costruirsi letteralmente sulle spalle di Rourke. E nel finale riesce a mantenere un mirabile equilibrio tra il rispetto affettuoso per il suo personaggio (al punto che l’emozione è palpabile e suscita una profonda commozione) e una vibrante amarezza, amplificata dalle splendide note di un grandissimo Bruce Springsteen.

The Wrestler
(id.)
Regia: Darren Aronofsky
Sceneggiatura: Robert D. Siegel
Origine: Usa, 2008
Durata: 105’

Intervista a Mickey Rourke, Darren Aronofsky e Rachel Evan Wood
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Trailer italiano dal canale YouTube Lucky Red
Ritratto di Mickey Rourke
Fansite su Mickey Rourke (in inglese)
Blog di Darren Aronofsky