"C'è chi crede in dio o nel denaro. Io credo nel cinema, nel suo potere. L'ho scoperto da ragazzino, mi ha aiutato a fuggire da una realtà in cui ero infelice. È una delle forme d'arte più alte che l'uomo ha concepito. Credo nel suo futuro."
(John Carpenter)

martedì 25 dicembre 2012

Buon Natale

Buon Natale

Auguri di Buon Natale a tutti i lettori, gli amici e i visitatori del Nido!

Allego una foto natalizia che è anche "a tema" con la mia più recente avventura libraria. Perché sia un Natale "mostruoso"!


domenica 23 dicembre 2012

Habemus Godzilla!

Habemus Godzilla!

C'è voluto più tempo del previsto, ma ora è finalmente pronto il mio libro Godzilla il re dei mostri: Il sauro radioattivo di Honda e Tsuburaya, che avevo annunciato a fine ottobre, quando avevo anche pubblicato l'indice in anteprima.

Il volume è attualmente in fase di distribuzione, in questo momento è già acquistabile su Amazon, nei prossimi giorni lo sarà anche negli altri portali più noti e nelle librerie italiane.

Questo post continuerà a essere periodicamente aggiornato con i link ai siti che vendono il volume: ricordo che è possibile accedere a tutti i post correlati cliccando sull'immagine del libro qui a destra o attraverso l'etichetta "Miei lavori".

Buona lettura a tutti!

Il libro su Bloodbuster
Il libro su Deastore
Il libro su La Feltrinelli
Il libro su Hoepli.it
Il libro su IBS
Il libro su Libro Co. Italia
Il libro su In Mondadori
Il libro su Unilibro

venerdì 21 dicembre 2012

Maniac (2012)

Maniac (2012)

Frank Zito è un serial killer: abborda giovani donne, casualmente o dando loro appuntamento via chat, per ucciderle e scotennarle, e con i loro capelli decora i manichini del suo laboratorio. A guidarlo sono i traumi provocati da un rapporto difficile con la madre, ormai defunta, e che si divertiva a provocarlo passando da un amante all'altro, quando non lo puniva. Frank agisce come in preda a un disturbo bipolare della personalità, che si manifesta attraverso forti emicranie. Un giorno, però, alla sua porta bussa Anna, una fotografa affascinata dai manichini esposti nel laboratorio: la ragazza inizia una relazione con lui e lo coinvolge nei suoi successi, ma infine Frank non riuscirà a nascondere la sua vera natura.


Come già si è scritto da queste parti, il nuovo Maniac, più che un semplice remake è un film che rende merito all'idea di re-imagining. Ci riesce perché, nel rimettere in scena la storia di Frank Zito, le fa compiere il doveroso passo in avanti, evolvendo e sviluppando alcune idee presenti in nuce nel prototipo di William Lustig. Gli sceneggiatori Alexandre Aja e Gregory Levasseur, infatti, optano per una struttura più forte rispetto all'originale, complice una dimensione produttiva più solida che permette un maggior lavoro di pianificazione: inoltre, forti del senno del poi, i due - di concerto con il regista Franck Khalfoun - riescono ad affrancare l'operazione dalla semplice ricognizione sui codici dello slasher, per abbracciare in pieno il concept dell'alienazione metropolitana e del disagio del protagonista, qui più evidentemente affetto da un disturbo bipolare della personalità.

Non che manchi la violenza, fortissima anzi nelle scene in cui Frank scotenna le sue vittime, ma stavolta si ha più la sensazione di un bilanciamento fra l'affidarsi alla semplice forza espressiva della rappresentazione della morte e la dimensione interiore del killer. Quest'ultimo aspetto, infatti, sebbene già presente nel prototipo, assume maggiore centralità attraverso le forti emicranie che colgono Frank all'improvviso, quasi a voler costituire un monito nei suoi confronti: all'atto pratico, i dolori gli impediscono quindi di fuggire dal destino di morte che l'uomo si è tracciato, condannandolo alla perenne reiterazione degli omicidi.

Pertanto, la sua continua ricerca di una compagna, non risulta subordinata unicamente al bisogno di soddisfare la propria sete assassina, ma al contrario al desiderio di crearsi una possibilità che gli permetta di spiccare finalmente il volo verso un nuovo futuro. Di qui anche la dialettica visiva che il film chiama in causa con l'uso felice della soggettiva assoluta. Lo spettatore “vede” il mondo dal punto di vista di Frank, ma allo stesso tempo il personaggio riflette la sua doppiezza a volte “uscendo” dalla dimensione in prima persona, come se si “vedesse dall'esterno”. Il regista Frank Calkhoun non scioglie mai la riserva se questi momenti siano subordinati alla semplice logica spettacolare (inquadrare i delitti “dal di fuori” per renderli graficamente più potenti) oppure per sottolineare proprio l'estraneità del Frank “interiore” rispetto a quello esteriore: l'ambiguità è infatti un altro degli aspetti interessanti dell'operazione, e trova il suo punto di forza nell'aspetto rassicurante di Elijah Wood, qui preferito alla prepotente fisicità di un Joe Spinell.

Ci sono alcune concessioni al marketing e al fandom: gli eccessivi rispecchiamenti su superfici riflettenti per inquadrare il volto di Wood, o la scena in cui lo vediamo dal collo in giù con i capelli della sua vittima in mano, come nella locandina del Maniac originale; ma, a parte questi isolati aspetti, il film che ci si para davanti è crudele, compatto e sfaccettato, e la sua dialettica con il precursore si ritrova principalmente nel tentativo di recuperare un rapporto “dal basso” con la città, fatta di notti al neon, musiche e tinte cupe e ossessive. Partendo da questa struttura, il film si innalza secondo una logica che è più verticale che orizzontale, dove troviamo lussuosi appartamenti con ampie finestre sul panorama cittadino e un generale senso di ariosità che crea un felice contrasto con le discese di Joe Spinell nelle viscere della metropolitana.

La battaglia diventa quindi ancora una volta estetica: in questo modo il nuovo Maniac porta a definitivo compimento quel processo di riqualificazione e “plastificazione” dell'immaginario che, dai tempi del film di Lustig, è giunto alle dinamiche “digitali” dell'epoca odierna. Ecco dunque le chat attraverso le quali ci si conosce via foto e tutta la dinamica dei corpi femminili tatuati, mascherati in ruoli ben definiti (la ballerina, la fotografia, l'agente dai modi bruschi), che trova poi la sua rappresentazione ideale nei manichini di Frank. Non a caso stavolta Anna smette di fotografare corpi reali e utilizza invece le statue restaurate dallo stesso Frank, rendendo in questo modo il legame fra i due più pertinente alla storia e avvicinando i personaggi. Li vediamo infatti anche in momenti intimi, come quando vanno al cinema insieme, e in generale la loro relazione ha un peso specifico molto maggiore rispetto al film di Lustig.

C'è poi un altro punto di differenza fondamentale rispetto al prototipo: la rappresentazione delle donne e della violenza che Frank infligge loro è stavolta più consapevole del suo potenziale pruriginoso e della dinamica di desiderio/punizione che si genera con lo spettatore. Il mondo del “nuovo” Frank è infatti attraversato e retto da donne bellissime, intraprendenti e sicure della propria fisicità, di fronte alle quali il protagonista è “timido”: l'agguato diventa quindi una traslazione del desiderio che l'uomo (e lo spettatore) prova per loro, rendendo il tutto molto più ambiguo.

L'esito è perciò se vogliamo meno allucinato e malsano, ma più lirico nella sua potenzialità malinconica. E le punizioni che Frank infligge alle sue vittime fanno forse ancora più male, in particolare se a farne le spese sono creature angeliche come l'Anna di Nora Arnezeder, dotata di una gamma espressiva che la vede insieme forte e fragile, esattamente come accade con Frank. Di fronte a un ritratto così composito, l'idea di un ipotetico lieto fine (che il film accarezza, pur negandola alla prova dei fatti) non spaventa così tanto, ma anzi diventa quasi una allettante possibilità.

UPDATE: uscito in Italia direttamente nel mercato dell'home video il 28 Maggio 2014.


Maniac
(id.)
Regia: Franck Khalfoun
Sceneggiatura: Alexandre Aja, Grégory Levasseur
Origine: Usa, 2012
Durata: 93'

mercoledì 19 dicembre 2012

Maniac

Maniac

Frank Zito è un serial killer: il suo obiettivo sono giovani donne che, in una visione distorta del mondo, gli ricordano la madre con cui, da piccolo, aveva un rapporto difficile, fatto di gelosie e maltrattamenti. Frank le tallona, le assale e le scotenna, per poi usare i loro capelli per decorare i manichini che custodisce in casa. La sua vita sembra però prendere una svolta dopo l'incontro con Anna, una fotografa di modelle con cui inizia a instaurare una relazione apparentemente priva di problemi. Ma i demoni interiori torneranno a farsi sentire...


L'omicidio iniziale della coppia sulla spiaggia sancisce immediatamente i canoni di una dinamica slasher da cui un film come Maniac naturalmente discende. Allo stesso tempo, però, il successivo giro in città di Frank Zito, con relativo abbordaggio di una prostituta, sembra molto più vicino alle atmosfere decadenti di un Taxi Driver che ai vari Venerdì 13. Il film in fondo si ritrova in questa dinamica del doppio passo: da un lato si offre come un testo interessato al confronto diretto con l'horror coevo, dall'altro come un cascame dei racconti di alienazione metropolitana all'epoca portati avanti da registi come Michael Winner o Martin Scorsese.

D'altra parte, bisogna anche considerare la diversa estrazione degli artefici: William Lustig all'epoca aveva un trascorso nel cinema hard e, da conoscitore e cultore del cinema di genere, doveva essere probabilmente più ispirato dalla prima delle due possibilità (elaborare i codici dello slasher). La sua mano si avverte anche in alcuni tocchi propriamente splatter, come la celebre fucilata al malcapitato automobilista (interpretato non casualmente da un volto cult dell'horror come Tom Savini, anche autore degli FX) o la “resurrezione” finale della madre di Frank, una figura che sembra uscita dai vicini zombie-movie di Lucio Fulci (in particolare Zombi 2).

Joe Spinell, che del film è interprete, autore del soggetto e co-sceneggiatore, veniva invece da un cinema più “impegnato”, il suo volto butterato aveva fatto capolino nelle saghe del Padrino, di Rocky e nel già citato Taxi Driver. L'aspetto più intrigante del film diventa quindi questa continua dialettica alto/basso che si ritrova anche nella particolare forma cinematografica: si passa infatti dal dilettantismo di alcuni momenti - figli, evidentemente, della fretta con cui si dovettero girare molte scene, essendo la troupe mancante di permessi - a scene che invece riescono a centrare magnificamente la poesia malsana del soggetto. Lustig immerge lo spettatore nella mente del mostro, attraverso autentiche soggettive associate che, con il solo uso espressivo del grandangolo, riescono a portare la storia su binari allucinati. L'attitudine malsana del testo si stempera così in una visionarietà malinconica, che lascia intravedere un minimo barlume di speranza nella storia con Anna.

In mezzo c'è il corpo ingombrante e magnificamente laido di Joe Spinell, che disegna un killer ributtante e feroce e che riesce a esprimere la forza del suo personaggio con la sola fisicità, più che con i monologhi o le azioni. Con il senno di poi, è possibile vedere nella forza espressiva garantita dalla semplice potenza iconica dell'attore uno scampolo di una possibile poetica sul potere dell'immagine, che diventerà effettivamente predominante nei decenni a venire. Non appare dunque casuale che il film chiami in causa molto spesso l'arte, con la decorazione dei manichini, Frank che si presenta come un pittore e Anna che è una fotografa. Sebbene il film motivi l'ossessione del protagonista per i manichini come un tentativo di “fermare” la bellezza perduta delle donne in cui rivede l'amata/odiata madre, è parecchio intrigante pensare che sottotraccia si nasconda una critica alla “plastificazione” dell'immaginario che sempre più negli anni a venire trasformerà l'immagine femminile (in particolare quella fotografica) in grottesche creature inanimate, prive di ogni imperfezione esteriore. Non è dato sapere quanto Lustig fosse consapevole, ma il suo Frank Zito è stato il primo esponente di una battaglia estetica combattuta sul corpo delle donne.

Al di là di questi possibili livelli secondari di lettura, il film funziona anche se preso semplicemente per quello che é. Lustig, infatti, cerca di andare al di là della semplice coazione a ripetere degli omicidi: in particolare, la morte della modella si fa notare per il momento in cui Frank, dopo aver pugnalato la vittima, si muove sul suo cadavere mentre il sangue che fuoriesce dalla ferita descrive una grottesca parodia dell'amplesso, resa ancor più oscena dal discorso incestuoso che coinvolge il personaggio. E' interessante notare come la dinamica eros/tanatos posta in essere dal film trovi la sua realizzazione soprattutto nell'espressione dell'atto violento: per il resto, infatti, il film è insolitamente privo di componenti pruriginosi, anche laddove coinvolge direttamente il nudo femminile o il sesso. Lustig, suo malgrado, esplicita la tensione celibe dell'horror e in questo trova sponda nel suo protagonista, arrivando a comprenderne i disturbi della sfera sessuale, che non sono figli dell'impotenza fisica, ma di una dinamica tutta mentale.

Tutte le direttrici confluiscono poi nel magnifico finale che segna la saldatura tra realtà e finzione, tra dimensione soggettiva e realtà oggettiva, sposando definitivamente l'idea dell'amore che si fa morte e della forza violenta che diventa anche atto di possessione fisica. Il momento, potentissimo a livello emotivo e visivo, segna anche la perfetta sovrapposizione fra la due nature del film, quella più interessata alla pura dinamica horror e quella che focalizza invece la sua attenzione sul senso di solitudine di un uomo ormai prigioniero delle sue ossessioni. Anche per questo, la sorte di Frank sembra quasi porsi come un rovesciamento del massacro salvifico perpetrato da Travis Bickle in Taxi Driver.

Il film è considerato oggi un classico nella trattazione dei serial killer (in netto anticipo rispetto ai più noti American Psycho, Assassino senza colpa, Manhunter o Henry: Pioggia di sangue): pare che Spinell abbia lottato per anni per realizzare un sequel, salvo morire dopo essere riuscito solo a girare un promo reel. William Lustig si vede in un cameo come addetto alla reception dell'hotel dove Frank si incontra con la prostituta.


Maniac
(id.)
Regia: William Lustig
Sceneggiatura: C.A. Rosenberg, Joe Spinell (soggetto di Joe Spinell)
Origine: Usa, 1980
Durata: 83'

giovedì 13 dicembre 2012

E.T. - L'Extra Terrestre

E.T. - L'Extra Terrestre

Un alieno in ricognizione sulla Terra viene abbandonato dai compagni, fuggiti per l'arrivo improvviso di una squadra di umani. L'essere viene trovato da Elliott, un bambino che sta attraversando un periodo difficile a causa del divorzio dei genitori. Il piccolo condivide il segreto dell'alieno, ribattezzato E.T., con il fratello maggiore Michael e la sorellina Gertie. Elliott, comunque, è l'unico a stabilire un legame di simbiosi con l'extraterrestre, percepisce le sue emozioni e le condivide. Ben presto E.T. si ambienta quel tanto che gli basta per riuscire a creare un comunicatore in grado di richiamare i suoi compagni dallo spazio. Il tempo a disposizione, però, non è molto: l'atmosfera del nostro pianeta rischia infatti di nuocergli. E inoltre le autorità sono sulle sue tracce...


A Carlo Rambaldi

30 anni dopo la prima, trionfale, uscita nelle sale, l'alieno più famoso di tutti i tempi torna nelle sale del circuito The Space Cinema per una riedizione che centra i festeggiamenti per il centenario della Universal e l'uscita della versione Blu-Ray Disc. L'occasione è quella giusta per riconciliarsi con un autentico classico e per re-impararne la lezione, in ossequio a quello scambio reciproco di esperienze e emozioni che l'extraterrestre compie, all'interno del film, con i suoi amici bambini. Se infatti un torto è stato commesso nei confronti del capolavoro spielberghiano è quello di aver frettolosamente costretto il film nel cono d'ombra del clamoroso successo commerciale ottenuto ai botteghini nel 1982 (quando raggiunse la vetta di film più visto della storia del cinema). Fatto che, inevitabilmente, lo ha incasellato nella categoria futile del blockbuster, e della perfetta macchina da soldi, pensata furbescamente per il successo, e quindi priva di reali valori che andassero al di là della maliziosa tecnica strappalacrime.
 
Rivisto con la giusta distanza temporale, E.T. si dimostra al contrario per il piccolo film che è, nemmeno troppo commerciale nelle scelte: pochi dialoghi, ambientazione quasi tutta circoscritta alla casa del piccolo Elliot (con qualche incursione nelle vicine vie cittadine o nel bosco poco distante), ritmo lento e sognante che, soprattutto nella prima parte, crea una particolare atmosfera sospesa. Persino gli effetti speciali del compianto Carlo Rambaldi, all'avanguardia per l'epoca, oggi riflettono un forte sapore di artigianalità. Steven Spielberg riparte dal suo Incontri ravvicinati del terzo tipo, ma ne crea una versione intimista e fiabesca, che parla direttamente al pubblico dei giovanissimi. A un certo punto Elliott spiega alla sorellina Gertie (un'adorabile Drew Barrymore) che “solo i bambini possono vedere” l'alieno. Si tratta di un escamotage per impedirle di rivelare la presenza del nuovo arrivato agli adulti, ma in effetti il film conferma in più occasioni questa regola. Valga solo come esempio la sequenza slapstick in cui E.T. si muove per la casa senza essere visto dalla madre di Elliott; d'altra parte l'unico suo modo per palesarsi al mondo è mascherato da fantasma durante la parata di Halloween e l'altro grande contendente al ruolo di suo conoscente è il misterioso “uomo con le chiavi” (capofila dei cercatori che tentano di stanare l'alieno), che sognava di vederlo “da quando aveva 10 anni”, ovvero l'età dello stesso Elliott.
 
E' chiaro come Spielberg predichi un ritorno all'infanzia, da lui vista come un'età pura, perché ancora vergine dai condizionamenti esterni, ma già capace di comprendere le implicazioni più drammatiche del mondo. Elliott infatti risente della lontananza del padre e si lega in questo modo all'amico spaziale che, come lui, vive la mancanza dai compagni galattici. In ossequio al nuovo immaginario fondato insieme all'amico George Lucas (chiamato in causa attraverso molteplici citazioni da Star Wars), Spielberg fonda una palingenesi che vede nello spazio la frontiera in grado di preservare il valore dell'innocenza (rappresentata da E.T.), ma anche di fornire soluzioni a un mondo tarato sulla misura degli adulti. Ecco dunque che il film si muove ad altezza di bambino, gli adulti sono spesso raffigurati con la testa in fuoricampo (come nelle comiche di Tom & Jerry, che non a caso fanno capolino in tv) e ritratti in modo grottesco, come gigantesche e minacciose presenze che donano al film quel sapore un po' dark tipico di un'età in cui le sensazioni sono più forti e il mondo appare sotto una luce a tratti minacciosa. D'altra parte, gli umani del film risultano schiavi di una visione scientifica che non è in grado di salvare E.T. dalla sua malattia e che si estrinseca in esperimenti, tute asettiche, intubazioni che rimandano un po' a un immaginario gotico da inventori pazzi alla Frankenstein (e alla fantascienza anni Cinquanta, qui simboleggiata dalla citazione televisiva di Cittadino dello spazio).
 
Al contrario il rapporto fra l'alieno e Elliott funziona perché è di tipo empatico, sottolineato dalla sequenza iniziale in cui E.T. ripete i movimenti dell'umano, esattamente come avveniva in una celebre scena de Lo squalo, dove il capo Brody vedeva il figlio “rifare” le sue espressioni. Dopotutto questa è una storia di legami, ma anche di rapporti padre/figlio traslati su figure vicarie. Ecco dunque che E.T. è allo stesso tempo un bambino, con cui condividere i giochi, i trucchi di Gertie o i mascheramenti di Halloween e che si nasconde fra i pupazzi, rendendosi “invisibile” agli occhi della madre; ma è anche un adulto che sa costruire marchingegni complessi e ha accesso a tecnologie sconosciute e poteri che gli permettono di spostare gli oggetti con il pensiero. E', insomma, il prototipo perfetto di un “uomo nuovo” e più evoluto, che Spielberg identifica nelle stelle e che potrebbe elevare l'umanità e salvarla dai propri errori: di qui anche la velata connotazione messianica data dalla capacità di guarire le ferite altrui con il suo dito luminoso o di far rinascere una pianta ormai appassita.
 
Il film, in ogni caso, evita dicotomie troppo nette: se gli adulti, pur nel loro accanimento, non paiono mai del tutto “cattivi” verso il nuovo arrivato, è allo stesso tempo evidente come E.T., pur costituendo un possibile modello evolutivo per l'umanità, impara anche molto dalla stessa. Apprende infatti la lingua terrestre e la forza dei sentimenti, attraverso una sequenza-omaggio a Un uomo tranquillo di John Ford. Regista che, non a caso, guardava sempre al valore fondativo di una comunità e alla palingenesi e che, per questo, ha molto più in comune con Steven Spielberg di quanto generalmente non si creda.


E.T. - L'Extra Terrestre
Regia: Steven Spielberg
Sceneggiatura: Melissa Mathison
Origine: Usa, 1982
Durata: 115'

domenica 9 dicembre 2012

Le 5 leggende

Le 5 leggende

Babbo Natale (Nord), il Coniglietto pasquale (Calmoniglio), la Fatina dei Denti (Dentina) e Sandman (Sandy), l'Uomo dei Sogni, sono i Guardiani che proteggono i bambini e infondono nel mondo meraviglia, speranza, gioia e sogno. La loro missione sta però per essere messa a dura prova dal ritorno di Pitch Black, l'Uomo Nero, che intende far trionfare la Paura cancellando dai cuori dei bambini la fede nei valori positivi e nell'esistenza stessa dei Guardiani. Così, i quattro sono costretti a unire le forze e, dietro mandato del misterioso Uomo della Luna, che su tutto vigila, devono anche annettere alla compagnia un nuovo Guardiano: si tratta di Jack Frost, maestro delle nevi e dell'inverno. Ma quale ruolo può avere un personaggio così solitario e dispettoso, spesso associato al freddo e alle intemperie, con i Guardiani? La missione si sposa quindi con la ricerca del “centro” di Jack, collegato al suo passato, quando ancora era un essere umano...


Guillermo Del Toro ha compiuto il miracolo: il grande regista messicano (qui produttore esecutivo e consulente artistico) è infatti riuscito a piegare alla propria poetica la formula della Dreamworks Animation, da sempre appiattita su ritmi forsennati e banali ammiccamenti alla cultura pop, incapaci di esprimere appieno la forza delle pur buone idee a disposizione. Incredibile ma vero, nell'anno in cui la concorrente Pixar ha sfornato l'unico suo prodotto deludente (Brave), afflitto proprio dai difetti che sempre erano imputabili alla Dreamworks, la casa della mezzaluna ci regala il film più maturo della sua produzione, un'ode dolcissima e poetica al meraviglioso e alla capacità di sognare.

La mano di Del Toro è evidentissima nel piacere della narrazione e nel ritmo contemplativo che permette alla storia di dispiegarsi senza rinunciare mai all'esaltazione delle caratteristiche precipue di un racconto pensato per il bambino che è in ogni spettatore, come a voler proclamare il valore della fede nel fantastico. Non siamo molto lontani nemmeno dai territori di uno Steven Spielberg e in effetti serpeggia un'atmosfera da fantasy pre-digitale (nonostante le mirabilia tecniche offerte proprio dalla Computer Graphic), vicine anche a certe opere di Hayao Miyazaki (i buffi elfi di Babbo Natale sembrano usciti da un'opera del Maestro giapponese) e ai libri di Michael Ende, con in testa l'indimenticata Storia infinita. Anche in questo caso, infatti, il racconto, oltre a costituire un'epica avventura che avviluppa lentamente lo spettatore nelle spire di una grande battaglia fra Bene e Male, è altresì una ricognizione critica e un lavoro di smontaggio e rimontaggio sui codici della narrazione e della mitologia popolare.

I Guardiani del film, infatti, mostrano una natura “teorica”, in quanto risultano costruiti secondo una dinamica di gruppo che guarda ai codici delle fiabe e dei racconti d'avventura: Nord è un personaggio istrionico ed è il capobanda, raffigurato come una sorta di vecchio pirata (con tanto di scimitarre e tatuaggi); Calmoniglio è l'elemento irrequieto e più “bellicoso” del gruppo; Sandman è il buffo comprimario silenzioso, che nella sua apparenza quieta e pacioccona nasconde incredibili poteri; Dentina è l'elemento “schizzato” e iperattivo. La loro interazione funziona quindi anche in virtù delle reciproche e diverse caratteristiche caratteriali. I quattro, naturalmente, rappresentano poi anche diverse “tappe” del fantastico, in rapporto al tempo e all'età delle persone: c'è il Natale, la Pasqua, il momento del sonno e quello della perdita dei denti da latte, che segna il passaggio dalla prima infanzia alla vigilia dell'adolescenza.

L'interazione dei Guardiani diventa così anche un simbolico percorso di formazione che si definisce attraverso il confronto con l'Uomo Nero, rappresentante dei timori collegati alla perdita dell'innocenza e, quindi, al raggiungimento dell'età adulta. Non a caso la lotta si snoda su un piano ideale che è anche quello del mantenimento della linearità del tempo: Pitch Black, infatti, vuole far “tornare indietro” il mondo ai secoli bui, laddove i Guardiani vigilano perché ogni bambino possa sostanzialmente compiere il suo percorso di vita in maniera lineare.

Il punto di fuga offerto da una dicotomia così netta è garantito da Jack Frost, il quale è effettivamente il personaggio che deve compiere il suo percorso, ma lo deve fare sia sconfiggendo Pitch (e dunque proteggendo la linearità temporale) sia “tornando indietro” all'infanzia, secondo una dinamica quasi psicanalitica che dice della complessità del testo. Il confronto con i ricordi, che permettono di individuare il “centro” del personaggio, ha infatti il sapore di una seduta che permette a Jack di diventare finalmente membro a tutti gli effetti del gruppo e di costituire allo stesso tempo l'elemento cerniera con quell'infanzia che i Guardiani (guarda caso tutti adulti) di fatto proteggono, ma dimostrano di non conoscere fino in fondo.

Al contrario, Jack è l'unico a coltivare ancora il piacere del gioco e della collaborazione con i bambini, perché è l'unico a comprendere realmente la materia in cui è coinvolto. Ci riesce per un motivo molto semplice: perché, oltre al divertimento, conosce la mancanza dello stesso. I ragazzi infatti si giovano dei suoi poteri, ma non riescono a vederlo. Frost, insomma, è l'unico personaggio che non aderisce facilmente a uno schema (la storia infatti stravolge anche abbastanza la sua classica iconografia, mostrandolo come un novello Peter Pan) e per questo si dimostra un personaggio particolarmente maturo, a metà fra i due mondi contrapposti. Il suo cuore guarda all'innocenza (matrice dei valori difesi dai Guardiani), ma non ignora né demonizza semplicemente il potere della Paura che attiene a Pitch: al contrario, ne comprende bene la forza, e perciò lo scontro con il cattivo assume anche i termini di una contesa personale.

L'aspetto più interessante (e qui ritroviamo ancora Del Toro e il suo amore per i legami affettivi) è però dato dal fatto che la cognizione di Frost non lo pone come elemento più potente del gruppo (qualifica che può invece essere attribuita a Sandman, che pure subisce più degli altri la forza di Pitch): al contrario, la vittoria arriva grazie alla cooperazione che Jack permette di instaurare fra Guardiani e bambini, che nel finale si uniscono contro il nemico comune, in una dinamica che eleva a potenza la forza del gruppo, dove protetti e protettori si aiutano a vicenda.

Jack Frost è, insomma, l'elemento a un tempo destabilizzante (perché rompe gli schemi) e fortificante dei mondi che la vicenda pone in essere. Il film è quindi costruito interamente dal suo punto di vista, e la sua storia aderisce naturalmente alla prospettiva cara a Del Toro, al regista Peter Ramsey e a William Joyce, figura eclettica, animatore e autore dei romanzi di partenza, che si ritaglia il ruolo del Michael Ende della situazione.

Il risultato finale è uno dei cartoon del decennio, che recupera la forza dell'innocenza in una struttura apparentemente semplice, ma in realtà complessa e matura: un perfetto film di Natale.


Le 5 leggende
(Rise of the Guardians)
Regia: Peter Ramsey
Sceneggiatura: David Lindsey-Abaire (ispirato a I guardiani dell'infanzia di William Joyce e al cortometraggio The Man in the Moon, dello stesso autore)

venerdì 7 dicembre 2012

Amour

Amour

Georges e Anne sono due professori di musica in pensione: dopo una vita di lavoro, sempre fianco a fianco, raccolgono le loro soddisfazioni vedendo gli allievi di un tempo muovere i primi passi sulla grande scena musicale. Un giorno, però, Anne inizia a manifestare i primi sintomi di una malattia degenerativa. Sottoposta a intervento, resta paralizzata nella parte destra del corpo e Georges si fa carico di aiutarla a combattere il suo male, cercando di gravare il meno possibile sull'aiuto di terzi e della figlia Eve.


Palma d'Oro al Festival di Cannes 2012, Amour arriva nelle sale italiane sull'onda lunga delle polemiche che sempre accompagnano l'opera di Michael Haneke, cineasta controverso e disturbante, spesso accusato di eccessiva freddezza e di un atteggiamento ostinatamente crudele nei confronti dei suoi personaggi. Il tema della malattia che affligge un personaggio anziano - di per sé già delicato - offre naturalmente il fianco alle peggiori accuse che, però, si rivelano in gran parte pregiudiziali.

Il punto di vista prediletto dal regista, asciutto e apparentemente distaccato, si rivela infatti propedeutico a una trattazione rigorosa del dramma: accusare Amour di compiacimento nella crudele esibizione del corpo semiparalizzato di Anne/Emmanuelle Riva significa onestamente non avere bene in mente la portata dei pietismi che connotano tanto cinema recente, dai quali il regista austriaco si dimostra lontanissimo. Al contrario, la regia si pone sempre un passo indietro rispetto alla potenza espressiva (e iconica) dei volti di Jean-Louis Trintignant e Emmanuelle Riva, letteralmente meravigliosi nella naturalezza con cui tratteggiano questa coppia di anziani compagni di vita, alle prese con la loro ora più oscura.

Ciò che colpisce è come Haneke ponga la prospettiva del suo racconto sulla lunghezza d'onda dei personaggi anziani: il torto che, cioè, spesso si commette con storie simili è quello di raccontare il dramma della malattia in modo da impressionare lo spettatore sano (o al limite per compiacere chi ha avuto la sventura di vivere un'esperienza simile). Niente di tutto questo: Amour non è il racconto di una malattia che distrugge, ma al contrario l'espressione di un'esperienza che qualifica due personaggi, descrivendo un loro universo. Non a caso, il racconto glissa sui passaggi salienti del decorso del male, affidandoli a scarni dialoghi, e preferisce puntare più che altro su episodi singoli, quelli che più interessano ai fini del suo discorso.

La malattia, infatti, tende naturalmente a “escludere” gli altri da sé: è esemplare in tal senso il personaggio della figlia Eve, che non riesce a comunicare con la madre perché la paralisi le impedisce di formulare compiutamente le parole (ancora una volta la parola nel film è un inutile orpello). Eve, in quanto personaggio “giovane” (e dunque escluso dalla prospettiva cara al film), vive l'esperienza con un'emotività che lascia trapelare più il proprio senso di impotenza che la reale comprensione di quanto sta passando sua madre. Lo stesso potrebbe valere anche per il giovane Alexandre, ex allievo di Anne, verosimilmente a disagio di fronte al destino della sua insegnante.

Bisogna inoltre aggiungere il fatto che Anne tenda naturalmente a isolarsi, a rifiutare il contatto con gli altri, a non accettare visite, a non volere che qualcuno la veda, fino al traguardo estremo di non riconoscersi in quel corpo lesionato dal male, che la porta a rifiutare il cibo. Haneke è sincero nella descrizione quotidiana del dramma: la malattia è brutta, umiliante (la dolorosa scena del bagno) e, soprattutto, disarmante nel suo coglierti nei momenti più intimi e semplici del giorno (la paralisi durante la colazione) e nel suo essere alimentata dai perversi giochi del destino (l'operazione che finisce per peggiorare la situazione). Dall'orizzonte descritto dal male, però, non viene escluso George, l'unico che segue Anne con una dedizione e una dignità disarmanti, al pari dello stesso male, perché generosa e inevitabile.

L'uomo è infatti l'unico che riesce sempre a comunicare con lei, in virtù di un territorio comune che i due hanno descritto e che si fonda sui ricordi (la visione delle foto), sulle esperienze vissute insieme (i racconti del passato con cui lui fa luce anche su fatti che lei non conosceva), sul divertimento provato (le rievocazioni degli accadimenti più buffi) e sull'amore per la musica (la splendida scena in cui i due cantano insieme). In questi momenti appare chiaro come la malattia descriva uno spazio sì limitato, ma che non riesce e non può mai escludere l'amore del e per il compagno. Un amore, che, come ha sottolineato giustamente Emmanuelle Riva (l'intervista è linkata in calce) “non viene mai dichiarata a parole. Perciò, siamo davanti ad una vicenda in cui c’è il verbo che diventa carne”. Si ribadisce in questo modo come il lavoro registico compiuto da Haneke sia stato intelligentemente in levare, con la storia che si affida ai gesti e alla fisicità dei suoi straordinari interpreti.

Così, il gesto estremo cui George viene condotto dalla straziante esperienza, diventa anche un momento di comprensione del dramma altrui, attraverso il quale l'uomo rimarca la sua condivisione del male e il suo farsene in qualche modo carico. Haneke esagera con il simbolismo nella scena del piccione che viene anch'esso “imprigionato” e poi liberato, ma il finale è da brividi, con i due che riprendono la loro vita quotidiana: un sogno? Una speranza? O forse - è la lettura che trovo più pertinente - una riunione fra i due, in una vita che ormai è soltanto loro, mentre agli altri la casa appare semplicemente vuota. Fa venire in mente certe soluzioni di Marco Bellocchio, e scusate se è poco.


Amour
(id.)
Regia e sceneggiatura: Michael Haneke
Origine: Francia, 2012
Durata: 125'

mercoledì 5 dicembre 2012

Torino 30: Happy End

Torino 30: Happy End


Alla fine degli anni Novanta, il Torino Film Festival si era conquistato sul campo la palma di miglior festival d'Italia. Articoli di giornale celebravano la proposta qualitativa dei suoi programmi ritenendola superiore a quella di Venezia e magnificavano le scoperte e le rivalutazioni di autori spesso erroneamente considerati “minori”. Fast-forward: è l'1 dicembre 2012 e, durante la premiazione finale, il sindaco di Torino, Piero Fassino, ribadisce che il Torino Film Festival non è una manifestazione “da red carpet”, ma un appuntamento che punta alla qualità della proposta. Alla luce dei presupposti sopra elencati potrebbe apparire una considerazione quasi lapalissiana, ma smette immediatamente di esserlo se si considera quello che è accaduto nei circa quindici anni che descrivono questo intervallo: il mercato si è saturato di offerte festivaliere, ha prevalso la logica perversa della prima mondiale e dei grandi nomi “a tutti i costi”, mentre la politica ha messo il naso dove non doveva, rischiando di scardinare il sistema. Il fatto quindi che sia un politico, oggi, a ribadire la stabilità della formula torinese è un segnale importante, pur nella consapevolezza di quanto aleatorie e contraddittorie, spesso, siano le parole di chi indossa le insegne istituzionali.
 
Il trentesimo Torino Film Festival, in perfetta continuità con quanto sinora enunciato, è stato dunque l'elemento certo in un panorama sempre più caotico, il classico appuntamento che, alle critiche, ha opposto “cristianamente un altro film”, per dirla alla Lucio Fulci, continuando a cercare e a scavare mentre intorno fioccavano le chiacchiere e le polemiche più o meno pretestuose (e nel mucchio ci va anche quella innescata da Ken Loach e subito abbracciata dai “barricaderos” della Rete, nonostante l'evidentissimo errore di comunicazione compiuto dal regista inglese). Mi piace questa idea di uno spazio che crede ancora “possibile” parlare di cinema per ciò che esso vuole dirci, crea l'illusione di un tempo e di un luogo maturo e concreto, dove la presenza di madrine d'eccezione come Claudia Gerini o Ambra Angiolini non diventa l'elemento catalizzatore, ma ciò che dovrebbe sempre essere: uno dei tanti elementi propedeutici alla fruizione e al funzionamento della manifestazione nel suo complesso.
 
In virtù di tutto questo, il finale dell'epoca Gianni Amelio ha mostrato la voglia di lasciare qualcosa, diciamo pure una pesante eredità per chi verrà dopo: non è stato un “finale col botto”, né la migliore edizione dell'ultimo lustro, ma un festival sicuramente solido, che è quanto più dovrebbe interessare, più della costante (e snervante) ricerca del capolavoro a tutti i costi - pratica, sia detto, alquanto infantile e figlia di una cinefilia bulimica e incapace di valutare con serenità la bontà dell'offerta media. Nell'articolo di presentazione scrivevo che mi aspettavo delle sorprese e queste non sono mancate: è ancora presto per valutare l'impatto che avranno sul cinema registi come il vincitore James Marsh, il Mikael Marcimain di Call Girl o il Kamal K.M. di I.D. (solo per limitarmi ai titoli in Concorso). No, ciò che più mi ha coinvolto è stata la forza e la coerenza dei percorsi tematici che hanno descritto un festival capace di stare a metà fra l'analisi della storia recente (con la sua indagine a tutto tondo sulle zone oscure degli Anni Settanta), l'alienazione del contemporaneo (protagonista nella sezione Concorso) e il gioco prezioso di ossessioni/fobie e derive dell'immaginario oscuro di Rapporto Confidenziale, senza dimenticare l'autentico divertimento di un'offerta molto varia. Uno sguardo a 360° che, all'uscita dalla sala, hanno lasciato il pubblico con la percezione abbastanza netta delle direzioni perseguite dal cinema in questo momento.
 
Tutto si riflette in questa struttura rigidamente porosa, dove ogni spazio intrattiene una dialettica con gli altri: la ricerca di Onde, sezione dedicata al cinema di ricerca, ad esempio, sta a metà fra la sperimentazione radicale di pellicole come Invisible e la qualità anche schiettamente popolare (pur nelle sue sperimentazioni linguistiche) di titoli come Le gouffres e Tabù di Miguel Gomes. Allo stesso tempo, Festa Mobile è tanto un canonico “fuori concorso” quanto un'appendice delle sezioni retrospettive, con la riproposta di classici come Viaggio in Italia. Ecco, se lo vedi dall'esterno il festival a prima vista ti appare magmatico, quasi incoerente, poi lo studio del programma rivela una pianificazione capace di descrivere aree ben precise, ma lasciando sempre occasioni di smarginamento, perché non si può chiedere al cinema di essere cartesiano quando le pulsioni spesso sono prettamente emotive.
 
Quest'anno, peraltro, la prima impressione era anche quella di un festival con qualche sbavatura a livello organizzativo: le lunghe code dei giorni iniziali non sono state provocate soltanto dall'aumento di pubblico (intorno al 20%, alla faccia della crisi), ma anche da alcune carenze logistiche. Eppure alla fine tutto è rientrato nei ranghi, il sistema si è riassestato in fretta e, almeno per quanto mi riguarda, non sono mai rimasto fuori dalla sala, anche quando la fila iniziava a parecchi metri di distanza.
 
Un'edizione-bilancio, insomma, consapevole del passato che ormai avvolge il marchio “TFF” e con un'eredità che deve andare avanti. Scherzosamente verrebbe da fare un paragone con Skyfall, l'ultimo film di James Bond, ricco e composito, ma con lo sguardo sempre saldamente ancorato alla tradizione. E mi consola apprendere, da fonti interne, che una delle idee dello staff - poi purtroppo scartate - riguardava anche un possibile omaggio a 007: sarebbe stata una divertente quadratura del cerchio!

domenica 2 dicembre 2012

Torino 30+9 (+1)

Torino 30+9 (+1)

Come una partita che giunge ai tempi supplementari, la domenica permette spesso di recuperare i titoli che si sono perduti durante i 9 giorni di programmazione del Torino Film Festival (che dall'esterno possono sembrare molti, ma in rapporto alle tante pellicole passate sugli schermi bastano a malapena a coprire una bassa percentuale dell'offerta). Quest'anno, il Cinema Massimo ha dedicato la giornata a riproporre i film premiati, e l'occasione si è rivelata quella giusta per vedere Shell, di Scott Graham, vincitore, per l'appunto, della categoria principale, ovvero il Concorso Lungometraggi.
L'opera batte bandiera scozzese e si ambienta non a caso nello splendido paesaggio delle Highlands, che l'occhio di Graham riprende con particolare gusto, lasciando trasparire la forza imponente nota a chiunque abbia mai avuto a che fare con quei luoghi, senza però dimenticare quella qualità un po' aliena e ieratica, tipica di un angolo di mondo che sembra fare storia a sé. Qui vive Shell, una ragazza che, insieme al padre Pete, gestisce una pompa di benzina in mezzo al nulla. Le sue giornate trascorrono fra clienti talmente sporadici da esserle ormai familiari e un rapporto con il genitore che più volte sembra sfiorare la morbosità. Sebbene la possibilità dell'incesto venga esplicitata soltanto nel finale, per quasi tutta la sua durata il film suggerisce più che altro una condizione di immobilismo temporale che “blocca” la ragazza in una condizione infantile, come una bambina in un corpo di adulta e che perciò la spinge a cercare gesti d'affetto spontanei o a nascondersi nel letto paterno in cerca di calore, quando la caldaia si rompe. Il nome Shell, infatti, rimanda tanto a una nota marca di benzina (e quindi definisce l'attività lavorativa) quanto al “guscio” nel quale il personaggio è prigioniero, e che si lega al paesaggio immutabile delle Highlands. Sentimenti ambivalenti e opposti, che più di tutto sono sintetizzati dalla splendida figura della protagonista Chloe Pirrie, in grado di unire un'aria quasi impermeabile agli stimoli esterni, a una capacità di risultare estremamente desiderabile nella sua vulnerabilità. Un film di luoghi e di corpi, dunque, che affascina la mente più che appassionare il cuore, complice una struttura narrativa esilissima, tanto da far sorgere a tratti il sospetto di una pellicola abbastanza “facile” nella sua composizione e nella sua ricercata lentezza. Amata dalla giuria (che l'ha premiata all'unanimità) e dal pubblico, la si ricorderà comunque per il rumore costante del vento e quella ricerca del calore che, nell'ultimo cortocircuito sensoriale generato dal festival, si sovrappone alle temperature bassissime che da poco hanno iniziato a flagellare il capoluogo piemontese. Come realtà e finzione (e quindi vita e cinema), che ancora una volta si mescolano a formare un tutt'uno.
I resoconti giornalieri terminano qui, fra un paio di giorni – a mente più fredda – ci sarà un'ultima riflessione generale sul festival, mentre nelle prossime settimane il Nido dedicherà degli appuntamenti specifici ai titoli più interessanti.

Torino 30+9

Torino 30+9

Ultimi fuochi del Torino Film Festival, che si congeda dal suo pubblico (numerosissimo) con uno dei titoli più attesi della sezione Festa Mobile, Anna Karenina, di Joe Wright, scritto da Tom Stoppard e che può contare su un cast davvero notevole. Accanto a Keira Knightley (Anna) troviamo infatti un ottimo Jude Law (il marito tradito) e il sempre più sorprendente Aaron Johnson, che ne ha fatta di strada dai tempi dell'adolescente sfigato di Kick-Ass. La messinscena sontuosa (e vagamente à la Baz Luhrmann, ma evitiamo confronti troppo stringenti) rinfaccia spesso allo spettatore l'idea del proscenio, o del palco teatrale su cui si consumano le azioni, in un andirivieni di ricostruzione storica e sfarzo scenografico. Il tutto esalta la natura barocca di una Russia imperiale evidentemente percepita come una sorta di universo autosufficiente nella sua finzione. In effetti, la storia di Anna e Aleksej, amanti adulteri in una nazione dove il “rispetto delle regole” (sociali e familiari) è considerato più importante della stessa legge, diventa più che altro il pretesto per mettere in scena un conflitto tra la pulsione irrazionale dei sentimenti e la rigidità schematica di una logica che pretende di governare il mondo. Come spesso accade, però, la struttura così apparentemente libera risulta soffocata dalla natura colossale della messinscena: per questo, alla fine spiccano soprattutto i personaggi minori, capaci di far vibrare la struttura narrativa più degli stessi protagonisti.
Se il cinema mainstream non ride, al contrario quello indipendente si dimostra estremamente capace di interessare e divertire: la sezione Rapporto Confidenziale, infatti, ci porta Thanks for Sharing, di Stuart Blumberg, già sceneggiatore dell'ottimo I ragazzi stanno bene. Abbiamo già visto passare in questo spazio altre pellicole dedicate alle ossessioni della contemporaneità. Stavolta tocca alla dipendenza sessuale, che affligge il sempre grande Mark Ruffalo e i suoi compagni di sedute in puro stile Alcolisti Anonimi. Viene spontaneo fare il confronto con il più noto Shame, ma significherebbe far passare al povero Blumberg (qui al suo primo lungometraggio) un brutto quarto d'ora, vista la superiorità tecnica della pellicola di Steve McQueen. Sul piano della scrittura, però, Thanks for Sharing vince la partita, grazie a dialoghi straordinariamente briosi, divertenti e pieni di citazioni pop, e a una struttura narrativa che, nel passaggio dai toni della commedia a quelli del dramma, centra l'argomento con maggiore pertinenza, aprendo davvero uno squarcio su questa patologia. Da segnalare una Gwyneth Paltrow straordinariamente sexy e, in un piccolo ruolo, la celebre cantante Pink, la cui presenza dovrebbe (si spera) assicurare visibilità alla pellicola quando sarà distribuita dalle nostre parti (con il titolo Tentazioni irresistibili).
Tornando poi alla sezione Festa Mobile, si cambia del tutto latitudine (e tipologia di film) con il francese L'étoile du jour, di Sophie Blondy, storia di una piccola compagnia circense squassata da gelosie che sfociano in tentativi di omicidio e tradimenti. Anche qui il cast è significativo, per i volti che riflettono varie realtà del cinema francese: si va infatti da Beatrice Dalle (purtroppo ormai sfatta e irriconoscibile) al bessoniano Tcheky Karyo, al Denis Lavant visto anche in Holy Motors di Leos Carax, fino alla dolce Natasha Regnier, che rimanda al cinema di Eugène Green, grande protagonista dell'edizione 2011 del festival. Su tutto un'anomala “coscienza” che ha le fattezze rock del mitico Iggy Pop, qui in inedita versione “angelica” e di bianco vestita. Il film è una malinconica ballata attraversata da sequenze oniriche effettivamente vicine a Carax e in grado di rendere ancora più affascinante un'operazione raffinata e visivamente molto intrigante, in cui i sentimenti più forti si stemperano in un'atmosfera decadente e surreale.
Chiusura affidata infine a Sally Potter, con il suo Ginger & Rosa (sempre Festa Mobile, ma avrebbe meritato il Concorso): è la storia di due giovani nate nel giorno del bombardamento di Hiroshima e che vivono la loro adolescenza durante la crisi dei missili di Cuba del 1962. Il contesto storico disegna uno scenario senza futuro, che si riflette nella frantumazione del microcosmo di Ginger (autentica protagonista, interpretata dalla sempre ottima Elle Fanning): suo padre infatti tradisce la madre con Rosa, determinando in tal modo la fine sia della famiglia che dell'amicizia fra le due ragazze. A colpire, comunque, non è tanto il dramma intenso e “bergmaniano”, che chiama in causa i conflitti edipico-familiari, quanto il fatto che tutto sia traslato sui valori che muovono i personaggi e che finiscono per essere svuotati di senso. L'attivismo di Ginger (che vuole protestare contro la possibile Terza Guerra Mondiale provocata dalla crisi dei missili) diventa infatti un mero surrogato della mancanza di punti fermi nella vita quotidiana; e i ragionamenti anticonformisti e filosofici del padre risultano soltanto un modo per mascherare le sue mancanze di uomo e genitore. In questo modo si crea una risonanza fra i vari livelli del film (umano, familiare, sociale e storico), tutti accomunati dal tema della disgregazione, che rendono la pellicola intensa e potente. Ottimo ancora una volta il cast, con ruoli minori per Oliver Platt e Annette Bening, come a ricordarci che, pur nella differenza qualitativa delle proposte, questa ultima giornata ci consegna un festival di splendidi volti, capaci di disegnare bellissimi personaggi.

Thanks for Sharing - trailer
L'étoile du jour - trailer

sabato 1 dicembre 2012

Torino 30+8

Torino 30+8

Dopo una fisiologica flessione nella parte centrale della settimana, l'arrivo del weekend riporta il pubblico nelle sale torinesi: ad accoglierlo ci sono storie intime su scenari di ampio respiro, spesso mozzafiato o intrisi dei destini della Grande Storia. Si parte dall'India, da dove arriva I.D., di Kamal K.M. (in Concorso). Un uomo muore mentre sta tinteggiando le pareti di un appartamento. L'inquilina cerca in tutti i modi di conoscere l'identità dell'operaio, che fa parte dei lavoratori a giornata e che (forse) proviene dagli slum, una delle zone più povere del paese. Il viaggio della donna è l'occasione per un'immersione dal sapore prima kafkiano e poi via via sempre più ipnotico in una realtà multiforme: lo scenario tentacolare di Mumbai si trasforma ben presto in un paesaggio apocalittico, raccontato con sguardo curioso e tocchi di malinconia che rendono il tutto quasi magico. Ma, soprattutto, spicca una miscellanea di suoni che trovano il loro apice nel linguaggio, un mix di indiano e inglese, in grado di creare un effetto piacevolmente straniante.
Anche la sezione Rapporto Confidenziale flirta con l'idea dell'apocalisse: lo fa con Fin/The End, primo lungometraggio dello spagnolo Jorge Torregrossa, in cui un gruppo di ex studenti si ritrova per una rimpatriata a quasi vent'anni dalla loro ultima volta insieme. Fra loro scorrono tensioni che affondano nelle vicende del passato, ma l'aspetto più particolare è che strani fenomeni atmosferici stanno precipitando il mondo verso il baratro. Le persone spariscono tutte all'improvviso e lentamente anche il gruppo inizia a perdere pezzi. Il confronto con le esperienze passate si rispecchia in un mondo senza futuro, in cui il regista riflette – anche in questo caso – tanto un distorto ideale di bellezza (il film ha a suo modo una caratura poetica) quanto un angosciante monito a un'umanità che non è stata capace di seminare nulla di virtuoso. Se l'impianto sembra strizzare l'occhio a serie come Ai confini delal realtà, alcuni passaggi del finale rimandano alle cose migliori di Narciso Ibanez Serrador, dove il fantastico è sempre lasciato sullo sfondo di un racconto dalla forte caratura umana. Nel cast ritroviamo la splendida Maribel Verdù che già si è fatta notare in Blancanieves (peraltro è presente anche in una terza pellicola, Como estrellas fugaces).
La risposta più vitale della giornata si ritrova negli spazi angusti di un polmone d'acciaio, quello in cui è rinchiuso il protagonista di The Sessions (sezione Festa Mobile), dell'ex regista televisivo Ben Lewin. Prendendo ispirazione da una storia vera, Lewin racconta l'iniziazione sessuale di un uomo paralizzato dalla poliomelite e che viene educato alla scoperta del proprio corpo da Cheryl (la sempre bravissima Helen Hunt), una partner surrogata. I presupposti per un film patetico o afflitto da forzata “carineria” c'erano tutti, ma, anche se la struttura narrativa non si discosta molto dai canoni di certi racconti americani contemporanei, stupisce la levità con cui un argomento pure così spinoso viene trattato. Merito di attori perfettamente in parte, fra cui svetta uno strepitoso William H. Macy, prete dalla visione liberale, che bypassa splendidamente le fobie sessuofobiche del cattolicesimo. Ne viene fuori un film toccante, in cui – per una volta – il sesso non è materia per umorismi pruriginosi (sebbene il tutto sia anche divertente), ma un elemento necessario per la conoscenza di se stessi, uno di quegli fattori che rendono la vita complessa e affascinante.
D'altra parte, che il mondo sia un posto difficile, arriva a ricordacelo Shadow Dancer (ancora Festa Mobile), di James Marsh, che ci fa tornare ai conflitti in Irlanda del Nord, attraverso la vicenda di un'attivista dell'IRA costretta a collaborare con i servizi segreti britannici e a rivelare i traffici in cui sono invischiati i suoi fratelli. Diversamente ne farebbe le spese il figlioletto. Il suo contatto con le autorità è il redivivo Clive Owen, tenuto a bada da una irreprensibile direttrice che ha le fattezze di Gillian Anderson, la Scully di X-Files qui in inedita versione bionda. La materia è ottima per il potenziale drammatico che potrebbe esprimere, fra intrecci di potere, reminiscenze di un periodo storico difficile e dinamiche umane e familiari che pesano sulle azioni dei personaggi. Ma, nonostante i colpi di scena finali, il risultato è debole e poco incisivo, e trasmette il sapore di un'occasione sprecata. Idealmente lo si può comunque ricollegare alle atmosfere di Call Girl e di Good Vibrations, visti nei giorni passati, con cui può formare un'ideale trilogia a cavallo fra complotto e società allo sbando.

venerdì 30 novembre 2012

Torino 30+7

Torino 30+7

Gli anni Settanta sono stati il miglior decennio del XX secolo e il Torino Film Festival è lì a ribadirlo: un periodo turbolento, magmatico, che già presentava tutti i segni della crisi della modernità, eppure era un fermento continuo di creatività e nuovi furori. Tre film della settima giornata è come se sintetizzassero queste affermazioni attraverso una trattazione a tutto campo dei “favolosi Seventies”.
Si parte con l'ottimo Call Girl, di Mikael Marcimain (in Concorso), che racconta il clima nella Svezia del 1976, divisa fra la lotta per la parità dei sessi (portata avanti dai partiti progressisti) e il giro di prostituzione che arrivava ai livelli più alti dello stato, coinvolgendo proprio i paladini dei diritti civili, smascherati nella loro solenne ipocrisia. Il tutto è raccontato attraverso la vicenda di due minorenni, finite nel meccanismo stritolatore a base di sesso, denaro, cocaina e tentativi delle autorità di insabbiare tutto. Che la nazione nordica avesse i suoi scheletri dell'armadio - in piena opposizione al ritratto edulcorato che si è propagandato per decenni - non è una novità: basterebbe citare i romanzi di Stieg Larsson, riferimento inevitabile anche per la figura del detective solitario che si batte per portare il marcio allo scoperto. La struttura si muove dunque fra una parte più intimista e fortemente empatica nei confronti delle ragazze, e dinamiche più spettacolari e di ampio respiro, che rendono la progressione incalzante (memorabile lo score vagamente carpenteriano) e il finale nichilista ancora più duro da digerire. Da segnalare la performance della sempre magnifica Pernilla August, qui nel ruolo della “matrigna” che tira le fila del mercato del sesso.
Basta poi spostare lo sguardo dall'altra parte dell'Europa per ritrovarci nell'Irlanda del Nord scossa dalle divisioni fra cattolici e protestanti, al limite della guerra civile. In questo scenario, un giovane idealista di nome Terri Hooley apre il suo soprendente negozio di dischi, Good Vibrations, che è anche il titolo del film di Lisa Barros D'Sa e Glenn Leyburn (in Festa Mobile). L'attività, infatti, diventa la culla del movimento punk rock di Belfast, che il film presenta come una valvola di sfogo dalle tensioni sociali dell'epoca e come una iniezione di vitalità e divertimento in un mondo squarciato. Good Vibrations e il piccolo mondo di Terri, infatti, diventano un'oasi in cui le divisioni politiche vengono superate in nome del fermento creativo portato dalla nuova tendenza musicale. I due registi lavorano sulle dinamiche della commedia per restituire il clima di euforia e rischiano la carta dell'eccessiva edulcorazione (sebbene non nascondano mai il difficile scenario sociale). Pur con i distinguo del caso si resta così affascinati dalla vicenda e dallo splendido panorama musicale descritto. Il pubblico accoglie con scroscianti applausi.
Dunque il fermento culturale dei Seventies è acclarato, la disgregazione politica e sociale anche: a completare il quadro ci pensa un classico come La rabbia giovane di Terrence Malick, presentato nella sezione Figli e Amanti (dove è stato scelto da Daniele Vicari e Michele Riondino) e che appare in perfetta continuità con il discorso sin qui seguito. La vicenda dei due ribelli senza causa Kit e Holly mostra infatti già tutti i segni del percorso d'autore di Malick, ma con un forte precipitato politico per come le imprese assassine dei due riflettono i disordini umani, materiali e sociali dei Seventies. Il decennio, in fondo, è tutto qui: nella tenerezza dei due amanti, nel romanticismo di un viaggio che è anche un recupero del rapporto con la natura in opposizione alla città, negli scenari mozzafiato delle Badlands e nella violenza immotivata e senza scampo dei giovani in fuga senza una meta. Un film a suo modo necessario e definitivo.
Si chiude con un progetto del tutto diverso e fuori da ogni possibile collocazione temporale: la sezione Onde ci porta infatti Invisible, di Victor Iriarte, racconto di un film di vampiri che... non esiste. La storia è infatti illustrata attraverso sintetiche didascalie su fondo nero, suoni, frammenti di dialogo e, in parallelo, le prove in sala di registrazione di Maite Arroitajuaregi, intenta a creare la colonna sonora con l'ausilio di incredibili performance vocali e vari strumenti. Dunque allo stesso tempo un'operazione che mette lo spettatore nella condizione di dover immaginare un film letteralmente invisibile, unita al processo creativo dell'unica componente non visiva della pellicola: la banda sonora. Un esperimento pertanto radicale, ma anche immaginifico e poetico, con cui risulta interessante confrontarsi.

Call Girl - trailer
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La rabbia giovane - trailer
Invisible - trailer

giovedì 29 novembre 2012

Torino 30+6

Torino 30+6

Con la pioggia che continua a flagellare le strade, chiudersi al caldo nel cinema è decisamente la soluzione migliore, una sorta di grosso incentivo a non badare all'inevitabile stanchezza, dopo sei giorni di intense visioni. La nuova giornata del Torino Film Festival è stata all'insegna delle sperimentazioni e per questo ha visto in prima fila le proposte dalla sezione Onde, l'angolo dedicato alle opere di ricerca, curato da Massimo Causo con la collaborazione di Roberto Manassero.
La prima cartuccia sparata in apertura di giornata è il bel film francese Les gouffres (ovvero “Le voragini”), scritto e diretto da Antoine Barraud, nel quale è possibile ritrovare subito quegli smarrimenti e quelle “fughe e discese” evocate dai selezionatori nelle note di introduzione alla sezione. Protagonista è infatti una donna che, in una non meglio precisata zona del Sudamerica, attende il ritorno del marito, apparentemente disperso dopo essersi recato a esplorare delle voragini scoperte di recente. Lo smarrimento diventa tanto sensoriale quanto panico ed elementale (tanto da far azzardare paragoni con il cinema del primo Peter Weir): il viaggio della donna nelle voragini del titolo è quindi sia reale che metaforico, e dona al film la caratura di horror metafisico, tutto giocato sull'asprezza degli ambienti, i corpi degli indigeni che sembrano abitare le cavità e un uso espressivo delle sfocature che restituiscono lo sfasamento percettivo dell'esperienza. Al film (di soli 65 minuti) è accostato il bel corto portoghese Os vivos tambem choram (“Anche i vivi piangono”), in cui un portuale di Lisbona sogna di fuggire in Svezia. Ci riuscirà? Anche in questo caso il viaggio si carica di slanci onirici, che ci restituiscono un bell'esempio di cinema libero e vitale. Una piccola folgorazione.
Restiamo sempre in Portogallo e facciamo un salto alla proiezione serale, che ha visto (sempre nell'ambito di Onde) protagonista Miguel Gomes, omaggiato da una personale, inaugurata da Tabu, suo ultimo lungometraggio già presentato a Berlino. Una sperimentazione sui codici espressivi del muto (immagine in bianco e nero, formato 4/3, dialoghi spesso sostituiti dalla sola voce narrante) per una storia densa e in bilico fra passato e presente. La struttura narrativa è infatti scissa in due storie ben distinte, che solo a un certo punto si capiranno essere collegate, e formano una tenera storia d'amore raccontata con i codici dell'avventura e financo del feulleiton. Ne viene fuori un film mosaico, composito pur nella sua apparente compostezza, e per questo molto interessante.
Cambiando completamente sezione, continuiamo però il viaggio nei film che rielaborano l'estetica del cinema muto con Blancanieves, fra le pellicole più apprezzate di questa edizione (la sezione è Festa Mobile, mentre il regista è Pablo Berger). Come si può intuire dal titolo, è la favola di Biancaneve, riveduta e corretta in salsa spagnola, tanto che stavolta il padre della fanciulla è un torero, così come i nani... e infine anche la stessa Biancaneve sfiderà il toro nell'arena per riannodare i fili di una vita messa in crisi dalla perfida matrigna - una strepitosa e magnetica Maribel Verdù che cattura fin dal nome: Encarna! Come lo stesso regista ha dichiarato, il progetto è di lunga data, ma si è potuto metterlo in piedi solo dopo il successo di The Artist, con cui presenta delle analogie. Ancor più dopo averlo visto in sequenza rispetto al rigoroso Tabù emerge infatti una certa tendenza alla “carineria” e all'esercizio di stile abbastanza fine a se stesso. Ad ogni modo, considerando la filiazione fiabesca, si può anche soprassedere rispetto a queste perplessità e constatare come la storia si segua comunque con piacere grazie a un ritmo brioso e a una messinscena elegante e priva di flessioni.
In questo percorso non cronologico, si arriva in fondo con le due pellicole dell'immancabile sezione Rapporto Confidenziale, dedicata a ossessioni e fobie. Nel primo caso abbiamo Smashed, di James Ponsoldt, che racconta il dramma dell'alcolismo. La prospettiva però presenta una novità: il punto non è mostrare (come al solito) il decadimento fisico dell'attrice di turno - nel caso specifico Mary Elizabeth Winstead, finalmente in un ruolo decente dopo tanti film inutili; al contrario, il punto sta nel mostrare la ricaduta della scelta di smettere di bere sull'ambiente circostante, sugli amici e i genitori che non capiscono e, paradossalmente, remano contro. In virtù di questa scelta il film si dimostra soprattutto la storia di una scoperta del proprio microcosmo e della propria identità dopo anni di “sballo” e di vita inerziale: va aggiunto, però, che l'impianto segue in maniera abbastanza puntuale i canoni del film “indie” americano, in un continuo andirivieni di ironia e serietà, personaggi tipizzati e una certa verbosità. Da vedere sapendo a cosa si va incontro.
Sul versante delle fobie invece c'è un'altra piccola folgorazione del festival, l'anglo-irlandese Citadel, di Ciaran Foy, in cui il giovane Tommy è perseguitato da misteriose figure che, dopo avergli ucciso la moglie, ora attentano alla vita della figlioletta. Sono esseri attratti dalla paura e per affrontarli Tommy dovrà imparare a convivere con il terrore che ormai connota la sua vita. Ad aiutarlo (forse) ci saranno un prete dai modi spicci e un bambino cieco. Al di là della “mitologia” che il racconto mette in piedi (e che presenta alcune incongruenze), il film ritrae molto bene il senso di annichilimento del protagonista e, nella parte finale, crea un'atmosfera da incubo carica di grande tensione, nonostante le evidenti ristrettezze del budget. Speriamo in una distribuzione italiana!

Os vivos tambem choram - trailer
Tabu - trailer
Blancanieves - teaser trailer
Smashed - trailer
Citadel - trailer

mercoledì 28 novembre 2012

Torino 30+5

Torino 30+5

Scende la pioggia su Torino e l'atmosfera si fa seria: potrebbe apparire un paradosso dopo il lunedì delle visioni oscure, ma in questo caso la “serietà” cui si fa accenno è quella del cinema che guarda al reale e orienta la sua attenzione sui problemi della società o della Storia (quella rigorosamente con la maiuscola). Per carità, niente di cui spaventarsi perché, come si potrà notare, al solito la ricetta è ricca di ingredienti.
L'inizio è infatti affidato a K-11, di Jules Stewart, ex montatrice ipertatuata che balza agli onori della cronaca soprattutto per essere la mamma di Kristen, l'eroina di Twilight. Ma le atmosfere del suo film non potrebbero essere più distanti da quelle di Edward e Bella: l'ambientazione è infatti un anomalo braccio di detenzione carceraria, dove vengono stipati drogati, transessuali e pedofili. L'accostamento delle figure è politically incorrect e in effetti si capisce subito che la Stewart vuole giocare con i cliché, inseguendo modelli “alti” come John Waters o Russ Meyer, al punto che la “regina” di questo “girone infernale” è una novella Tura Satana (un'incredibile performance di trasformismo da parte dell'attrice messicana Kate del Castillo). La ricetta è talmente bizzarra da essere affascinante, ma il finale “buonista” finisce naturalmente per scontentare i cinefili più incalliti.
A spostarsi poi nell'altro titolo della sezione Rapporto Confidenziale si rischia di andare fuori percorso: cosa potrà mai avere di realista un film come Shopping Tour (di Mikhail Brashinsky), in cui una madre russa e il figlio adolescente si ritrovano in balia di finlandesi decisi a sbranarli dopo aver attraversato il confine? E' presto detto: il film insegue il filone del “Point of View Cinema” e viene narrato attraverso i filmati amatoriali che il giovane realizza dal suo telefono cellulare. Una sorta di REC “in movimento”, che ha il pregio di divertirsi a mettere in scena una situazione paradossale e volutamente autoparodistica, ma attraverso uno stile e un tono serissimi. Ecco dunque che i finlandesi sbranano gli stranieri in ossequio a una... antica tradizione culturale (!). E così, anche qui il gioco sui cliché è servito. Un film simpatico, ma che praticamente è monco di un finale (meglio avvisare per tempo gli spettatori che potrebbero restare delusi).
Nessuna possibilità di mancare l'obiettivo, invece, con il film in concorso Az do mesta As/Made in Ash, che è addirittura il rappresentate per l'Oscar della Cecoslovacchia ed è diretto dalla giovane Iveta Grofova: è la storia, indubbiamente drammatica e seria, di una ragazza slovacca inviata dai genitori nella Repubblica Ceca per trovarsi un lavoro. Ma l'occupazione sfuma in fretta e le strade che si aprono per la malcapitata sono la prostituzione o magari accettare l'offerta di un tedesco che la vorrebbe portar via in Germania. Una proposta fragile (l'uomo è sposato), che si scontra con i sogni traditi di una giovane che attende l'ex fidanzato dalla Slovacchia. Il racconto è dolente, ma ha il pregio di cercare un interessante punto di incontro fra una trattazione documentaristica della situazione e una tensione espressionista che lavora sull'inquadratura, con uso lirico del fuori fuoco e fugaci sequenze animate che elaborano il passaggio dalla dimensione ideale in cui la protagonista è immersa a un mondo reale pieno di trappole.
Infine la pellicola più controversa del lotto, il francese Le fils de l'autre, di Lorraine Levy (Festa Mobile): due famiglie, una ebraica e una palestinese, scoprono che i loro figli (ora adolescenti) sono stati scambiati nella culla. La situazione, già complessa di per sé, è naturalmente aggravata dai celeberrimi problemi che uniscono e dividono Israele e Palestina e che costringono i due ragazzi a fare i conti non solo con la propria identità, ma anche con le differenti opportunità offerte dalle rispettive condizioni. Come da prassi, il cinema francese si dimostra narrativamente empatico con il dramma dei personaggi, delicato in molti passaggi e cerca di far sì che lo spettatore si senta un tutt'uno con figure lacerate e in cerca di un punto d'equilibrio. La materia però è talmente incandescente che la reticenza con cui la storia evita di andare a fondo nelle implicazioni enormi portate dal dramma finisce per rendere il film esemplificativo (soprattutto nella seconda parte) e ne smorza molte buone intenzioni. La vicenda ha comunque il merito di fare luce su un problema irrisolto, riletto in chiave non tanto storica quanto umana e “intima”, lasciando sullo sfondo le figure che rappresentano l'autorità (uno dei due ragazzi è figlio di un colonnello dell'esercito israeliano). E infatti i riconoscimenti internazionali non stanno mancando: il pubblico italiano potrà comunque giudicare con i suoi occhi fra un paio di mesi, quando la pellicola sarà distribuita nelle nostre sale.