"C'è chi crede in dio o nel denaro. Io credo nel cinema, nel suo potere. L'ho scoperto da ragazzino, mi ha aiutato a fuggire da una realtà in cui ero infelice. È una delle forme d'arte più alte che l'uomo ha concepito. Credo nel suo futuro."
(John Carpenter)

giovedì 30 luglio 2009

Harry Potter e il principe mezzosangue

Harry Potter e il principe mezzosangue

L’abbraccio mortale del Signore Oscuro inizia a mietere vittime anche nel mondo dei “babbani” e gli incidenti e le sparizioni si susseguono: in questo cupo clima Harry Potter inizia il suo sesto anno scolastico a Hogwarts, insieme agli amici di sempre. Le schermaglie amorose fra gli studenti ormai cresciuti si susseguono ai tentativi del preside Albus Silente di coinvolgere Harry nella scoperta dei segreti nascosti nel passato di Tom Riddle, l’ex allievo che sarebbe poi diventato Lord Voldemort. Per far questo Harry deve carpire il segreto dell’Oscuro Signore, nascosto in un ricordo di Lumacorno, nuovi professore di pozioni, convinto dallo stesso Silente a tornare in servizio dopo anni di inattività. Intanto Draco Malfoy prosegue il suo cammino verso il sentiero Oscuro, protetto dal professor Piton, che sembra aver rivelato ormai la sua natura di servitore del Male.

Manca ancora una storia (che sarà presentata in due film) per poter tracciare un bilancio definitivo sulla lunga avventura cinematografica di Harry Potter, ma questo sesto capitolo porta alla nostra attenzione alcuni aspetti interessanti che ci dicono dell’evoluzione impressa alla saga. Uno dei problemi del cinema hollywoodiano recente, infatti, sta tutto nella dicotomia che si è pervicacemente posta in essere tra i film indipendenti e i blockbuster: è una classificazione di comodo che si potrebbe confutare con molti esempi e Harry Potter è probabilmente uno di questi. Colossale nelle dimensioni, la storia del maghetto inglese è infatti caratterizzata da una medietà (da intendersi in una accezione non negativa) della messinscena che tende a restituire l’idea di un universo coerente, dove la magia è stata introiettata non come elemento fantastico, ma come parte delle cose e, come tale, non assume il ruolo di architrave del racconto o di qualità preminente dello spettacolo, secondo la logica tipica del fantasy. Harry Potter, insomma, è un racconto giovanile che incidentalmente utilizza le figure retoriche del fantasy: questo gli permette di stimolare in ogni caso la fantasia, ma di non essere succube degli effetti speciali che pure utilizza a profusione.

Certo, la regola non vale per tutti i capitoli: ad esempio Il prigioniero di Azkaban, diretto dal grande Alfonso Cuaron, lascia intravedere tutte le potenzialità, anche spettacolari, di un format che forse poteva manifestare ben altre ambizioni, ma è evidente come la carta del cinema d’autore non abbia attecchito, per volontà produttive o congiunturali, e abbia tracciato la via di un fantasy dal volto più umano. E’ una saga, quindi, sicuramente industriale, ma non meccanica come molti prodotti dello stesso genere e possiede degli elementi virtuosi che invitano a non accantonarla con superficialità.

Il principe mezzosangue ribadisce il concetto a perfezione: la storia è praticamente ridotta al minimo, in una progressione che supera le due ore e si concentra soprattutto sui caratteri e sulle dinamiche sentimentali dei protagonisti ormai cresciuti: la leggerezza del tocco permette alle scene di risultare estremamente reali e gustose, tanto da conferire alla storia una delicatezza sinora poco esplorata, che si giova anche dell’alchimia ormai stabilitasi tra i membri del cast, in particolare dei comprimari: se infatti il protagonista Daniel Radcliffe appare sempre molto controllato perché troppo conscio della centralità che il suo ruolo richiede, chi gli sta intorno si concede con maggiore trasporto e lirismo ai sentimenti che le situazioni naturalmente stimolano, regalando perciò le scene più riuscite.

Non è un caso che la regia di Yates risulti poco indovinata proprio nelle parti più colossali e spettacolari, che paiono un inutile orpello di fronte a un materiale che si apprezza ormai soprattutto in virtù della componente umana che offre. Ecco dunque le triangolazioni amorose che coinvolgono amici di ieri e di oggi, i rimorsi del professore che manipola i ricordi poiché si vergogna di aver offerto un aiuto a chi non lo meritava e le discussioni con chi chiede di non litigare per mantenere l’unità di fronte al male: tutti momenti che si stagliano come i più virtuosi e costituiscono il degno corollario del fulcro narrativo, ovvero il rapporto paterno fra Silente e Harry, culminante nella toccante sequenza in cui il mago deve sopportare atroci sofferenze e ingurgitare l’acqua maledetta. Un momento carico di umana pietà, ma anche di abnegazione al dovere, che sono poi gli elementi al cui interno si muove Harry sin dall’inizio, costretto com’è da un fato già deciso, ma da una umanità che si costruisce giorno dopo giorno.

E’ poi interessante anche il fatto che il gigante Hagrid, l’unico che non possieda legami affettivi seri con una controparte umana, non sia ugualmente dimenticato, ma si renda protagonista di una scena al tempo delicata e divertente in cui lo vediamo piangere la morte dell’aracnide Aragog. E che il percorso umano di Draco Malfoy lasci intravedere inedite sfaccettature nel cuore di un ragazzo confinato sin dall’inizio nel facile ruolo del “cattivo”.

A un mondo che viene contaminato progressivamente dal Male e che sembra rispecchiare le turbolenze del nostro presente, la saga oppone insomma la forza dei sentimenti come motore immobile della vita, capace di colorare qualitativamente ogni giornata e di offrire una gamma emotiva che rende il film, pur nella sua progressione molto sottotraccia e nella riproposizione di momenti iconici (come la partita di Qidditch o i rapporti tesi con Piton), estremamente vario. Yates, regista mediocre e artefice del peggior capitolo della saga (L’Ordine della Fenice), dimostra quindi di aver preso le misure alla materia che tratta e di concentrarsi sugli aspetti che risultano migliori, componendo un racconto che parla al suo giovane pubblico con dignità e senso paritario, trattando la materia in un modo superiore a quello di tante becere commedie e che, nella fusione con le figure retoriche del fantasy, riesce a creare un sistema di riferimenti tale da suscitare anche il piacere della scoperta e il senso della meraviglia: in questo senso il film diventa classico, e riverbera la forza di una concezione di cinema passata ma sempre attuale.

Harry Potter e il principe mezzosangue
(Harry Potter and the Half-Blood Prince)
Regia: David Yates
Sceneggiatura: Steve Kloves (dal romanzo di J.K.Rowling)
Origine: Usa, 2009
Durata: 153’

Intervista al cast
Sito italiano
Sito ufficiale americano
Sito di J.K. Rowling
Sito sui romanzi della serie
Harry Potter su Wikipedia

lunedì 27 luglio 2009

Indiana Jones e il segreto della legione fantasma

Indiana Jones e il segreto della legione fantasma

Italia 1934: Indiana Jones è in cerca di prove che possano confermare una ipotesi rivoluzionaria: moltissimi anni prima di Cristoforo Colombo i romani sarebbero arrivati nelle Americhe del Sud dove avrebbero anche edificato un tempio! Dopo aver esplorato la tomba del monaco Clemenzio ed essere sfuggito ai nazisti, interessati alle possibili implicazioni della scoperta, Indiana Jones prosegue la sua avventura in Messico, dove l’enigma troverà la sua conclusione.

Dedicare un fan-film a Indiana Jones è un’impresa difficile, forse anche più che riprodurre un qualsiasi episodio di altre celebri saghe cinematografiche: non solo perché il format è ormai esausto al punto che nemmeno i suoi creatori sembrano riuscire a rinnovarlo, ma soprattutto perché, in sé, l’essenza di Indiana Jones non si racchiude soltanto in una iconografia precisa, in un personaggio o in un tema, ma in uno stile. Raccontare le avventure del celebre archeologo, cioè, non significa soltanto mettere in scena un’avventura – impresa di per sé possibile, sebbene serva talento - ma anche fare i conti con il modo da sempre utilizzato per farlo, ovvero attraverso la regia di Steven Spielberg.

Fra le poche saghe a essere stare sviluppate da un unico regista, Indiana Jones è oggi inscindibile tanto dal volto iconico di Harrison Ford, insomma, quanto dallo stile impresso da Spielberg a quelle avventure, fatto di movimenti di macchina avvolgenti e ariosi, passaggi repentini dal campo lungo al primissimo piano, in un continuo gioco di sovrapposizioni, avvicinamenti, rivelazioni all’occhio di una macchina da presa che riverbera se stessa come artificio illusionistico: è questo a rendere la trilogia originale così ammaliante nella sua capacità di restare in bilico fra l’ingenuità retrò dell’idea e la messinscena di stampo più moderno e spettacolare, per quanto mediata da una fattura molto concreta, quasi artigianale, capace per questo di catturare l’attenzione del pubblico anni Ottanta (e va da sé che è lo stesso motivo per cui il quarto capitolo, così eccessivamente intriso di effetti digitali, non funziona).

Indiana Jones e il segreto della legione fantasma rivendica il primato di essere il primo fan-film italiano sul personaggio: non può vantare la ricchezza di altri progetti similari e non è esente da difetti, ma riesce a risultare interessante poiché dimostra di aver capito molto bene questo dettaglio. La regia di Luca Baggiarini (anche interprete nel ruolo di Indiana Jones) e Emanuele Contadini tenta quindi di riprodurre alcune tipiche scelte stilistiche spielberghiane, a iniziare dal logo che si trasfigura nel rosone di una chiesa esattamente come avviene solitamente con il monte della Paramount, per proseguire con l’uso delle musiche di John Williams. Il gioco di emulazione risulta tanto più divertente quanto è capace di adeguarsi a una realtà inevitabilmente percepibile come nuova: il film è infatti girato per la gran parte in esterni italiani e un accurato lavoro di scelta delle location gli permette di vantare un look omogeneo alla quadrilogia cinematografica, ma allo stesso tempo originale.

Essendo il format ovviamente basato sulla “non localizzazione” del concept (le avventure si svolgono sempre in luoghi differenti e non sono riconducibili a un unico posto iconico) la miscela si dimostra possibile e così Indiana Jones e il segreto della legione fantasma procede divertendo con le citazioni e affascinando con la bellezza dei luoghi (situati nelle Marche e in particolare nella provincia di Pesaro) che riescono a stagliarsi come co-protagonisti in una dinamica tanto gustosa quanto efficace. Ovviamente non mancano gli effetti speciali che, complici un semplice ma funzionale compositing digitale, riescono a “migliorare” ciò che l’architettura urbana già offre, rendendo i set ancora più credibili.

Questi aspetti comunque non celano alcuni difetti, relativi in primo luogo alla recitazione (tasto dolente di molta produzione indipendente italiana), all’anacronismo di alcuni dettagli, ma soprattutto al fatto che costruire un’avventura attraverso un continuo inanellarsi di citazioni rischia necessariamente di produrre un lavoro ritmicamente slegato. C’è però un altro aspetto che merita considerazione e che permette nel complesso di perpetrare l’interesse che il film suscita a un primo sguardo: la factory di “Insettimalvagi”, ovvero il gruppo di giovani videomaker (non professionisti) che ha realizzato questo fan-film, ha alle spalle un progetto decisamente più ambizioso, intitolato La legione fantasma, un thriller a sfondo storico che il nuovo Indiana Jones riverbera nel titolo e in alcune tematiche.

Appare dunque evidente come il fan-film in questione rappresenti per la factory anche un tentativo di andare alle origini di un precedente e più ambizioso progetto, pagando pegno a una delle sue matrici fondamentali, ma, allo stesso tempo, tentando di creare un possibile punto di contatto fra le due realtà dell’immaginario. Ecco dunque che questo Indiana Jones amatoriale è tanto un sentito omaggio al personaggio spielberghiano, quanto un possibile prolungamento di un universo proprio, e in questa rielaborazione sta il suo maggiore punto di forza, quello che riesce a mitigare la componente inerziale per rendere l’insieme tutto sommato virtuoso.

Ed è, in sé, anche una interessante riflessione sul concetto stesso di fan-film, basato sulla riproposizione fedele di un immaginario altrui, ma che in alcuni casi si dimostra anche un interessante tentativo di mediare l’altro da sé con istanze personali. Quando ci si riesce il risultato è meritorio: Indiana Jones e il segreto della legione fantasma ci riesce in parte, ma per questo dimostra di possedere dei meriti.

Il film, realizzato senza scopo di lucro, è visibile gratuitamente in streaming sul sito ufficiale raggiungibile attraverso i link in fondo a questo articolo.

Indiana Jones e il segreto della legione fantasma
Regia, soggetto e sceneggiatura: Luca Baggiarini e Emanuele Contadini (basato sui personaggi di George Lucas e Steven Spielberg)
Origine: Italia, 2009
Durata: 27’

Sito ufficiale
Il blog di insettimalvagi
Canale YouTube di Insettimalvagi
Indiana Jones Theme (John Williams)

lunedì 20 luglio 2009

Where’s Michael? ("Liberian Girl" Video)

Where’s Michael? ("Liberian Girl" Video)

Nonostante il passare dei giorni, la scomparsa di Michael Jackson continua a far sentire il suo vuoto, sia attraverso le affettuose iniziative di chi lo ha amato e seguito in vita, sia con le sterili polemiche e gli accanimenti morbosi che, come un ultimo sussulto, riverberano alcune atmosfere dei suoi ultimi anni. “Dov’è Michael?” sembra in entrambi i casi essere la domanda sulla bocca di tutti, il sintomo di un non sapere o volere accettare il fatto che non sia più qui, la più evidente formulazione di un’ossessione che tenti di razionalizzare ed elaborare il lutto.

A questo proposito il video di Liberian Girl si staglia oggi come una delle più efficaci forme di elaborazione preventiva di un lutto ancora lontano e torna a noi come un contributo ancora più sfaccettato di quanto già non apparisse nel 1989 in cui fu realizzato: il brano, nono singolo estratto dal fortunato album Bad non è uno dei più fortunati di Michael, sebbene non sia privo di una sua forza evocativa, soprattutto in virtù della sensualità che sprigiona, ma è uno di quei casi la cui diffusione è stata aiutata principalmente dal video, che però ha la strana qualità di risultare completamente avulso dal testo. Se, infatti, Liberian Girl brano è una lunga dichiarazione d’amore all’eponima ragazza, il video lo relega a semplice canzone fuori campo, che accompagna la lunga attesa di una serie di celebrità americane, evidentemente convocate da Michael stesso in un teatro di posa che riproduce un porto di mare.

L’idea alla base del video è che gli astanti risultano ignari di essere vittime di una “candid camera” orchestrata dallo stesso Michael, che nel finale palesa la sua presenza nel ruolo del regista che fino a quel momento ha filmato le loro azioni (in realtà la regia del video è di Jim Yukich): che si creda o meno alla veridicità dell’assunto non è importante, poiché gli elementi della messinscena evocano, sin dal ciak battuto all’inizio, la natura di fiction del racconto. Sta poi alla qualità dei singoli trasmettere l’impressione di essere ignari dei fatti, partecipi del gioco, attenti a costruire un proprio personaggio (come accade con Richard Dreyfuss nel ruolo del capitano di una nave), oppure intenti a riverberare alcuni tratti distintivi dello stesso Michael (si noti la spassosa parodia della “moonwalk” ad opera dell’attore Sherman Hemsley). Il discorso assume ben presto connotazioni metanarrative e lentamente si palesa l’intento del video, ovvero quello di costituire un divertito excursus all’interno della realtà spettacolare americana, nella quale lo stesso Michael si inserisce e dalla quale a sua volta deriva.

Per questo motivo Liberian Girl video diventa una testimonianza di un’epoca (la fine degli anni Ottanta), ma anche un tributo allo stesso Michael, e la cosa si fa tanto più evidente se consideriamo, fra le tante, le presenze iconiche di Quincy Jones (produttore del cantante) e del dimenticato Weird Al Yankovic, classico esempio di “meteora” americana, che all’epoca si fece una certa fama grazie alla parodia di alcuni celebri videoclip, come lo stesso Bad di Michael Jackson, trasfigurato nell’obesa presa in giro di Fat. In questo senso è come se Michael si specchiasse nel “suo” universo, che però è anche quello del pubblico, che vi ritrova i protagonisti dei telefilm dell’epoca (il citato Hemsley de I Jefferson, il Malcolm Jamal-Warner de I Robinson, il Lou Ferrigno de L’incredibile Hulk), dei film (il Carl Weathers di Rocky e Action Jackson, la Whoopy Goldberg di Ghost), ma anche dello sport (il manager dei pugili Don King), della musica (Paula Abdul), della letteratura (la scrittrice Jackie Collins) fino all’illusionismo (David Copperfield).

Un universo che, al pari dello stesso Michael, pur non rinnegando la sua forte componente “black”, mira a un cosmopolitismo (l’ebreo Spielberg, il filippino Lou Diamond Phillips, l’italo-americano John Travolta) che abbatta le frontiere, compiendo un’ipotetica saldatura fra il mondo dell’immaginazione hollywoodiana e la realtà. Il tutto è simboleggiato dalla struttura a scatole cinesi e dal gioco tra verità e finzione, dove la musica si insinua come una presenza distante ma percepibile: c’è chi tiene il tempo del brano, qualcun altro ne canticchia il testo, ma più di tutti stupisce il fulmineo ma stratificato focus sulla coppia formata da John Travolta e Olivia Newton John, che tornano a recitare il cliché dei fidanzatini americani codificato in Grease e in Due come noi. E’ singolare e interessante che la centralità del rapporto fantastico per eccellenza (i due attori non erano realmente fidanzati e rappresentavano una mera “coppia da set”) costituisca anche l’unico momento in cui due dei tanti personaggi presenti sul set davvero “interpretano” la canzone, sottraendola finalmente dal ruolo di semplice brano “di sottofondo” ed elevandola invece a momento qualificante del video.

Proprio questa continua cortocircuitazione fra realtà e finzione però ci dice un’altra cosa, molto importante: e cioè che l’apparizione finale di Michael non può risolversi in una semplice fine dei giochi. Al contrario, la percezione molto forte è che nel sciogliere il dubbio sul “Where’s Michael?” che attanaglia i presenti, il cantante sicuramente ribadisca la sua qualità di demiurgo ed orchestratore dello scherzo, ma forse anche marchi la sua volontà di persona altra rispetto a quell’universo che ha raccolto nel set. Il porsi cioè al di sopra della storia raccontata, attraverso l’interazione di colleghi e gente di spettacolo, può oggi essere letto come un tentativo di inquadrare a distanza un mondo che non si avverte totalmente come proprio. E nei cui confronti si vuole tornare ad avere un po’ di controllo (non è casuale il fatto che il singolo Liberian Girl arrivi immediatamente dopo il più diretto Leave Me Alone, dove il disagio denunciato dall’artista era molto più esplicito).

Sia come sia, è abbastanza evidente l’interdipendenza che il video ribadisce fra lo stesso Michael e quell’industria con cui egli ha avuto un rapporto complesso: anche per questo il video risulta oggi così efficace e, dietro la patina del divertimento, mostra una vena malinconica che lo rende ancora più potente e ne fa il miglior contributo alla sua assenza. Per chi volesse rivederlo, il video è disponibile per questa settimana nello spazio “Visioni della Rete”, nella colonna a destra.

Testo di Liberian Girl
Liberian Girl su Wikipedia
Alberto Di Felice: Before You Judge Him
Liberian Girl, una possibile alternativa (fan-made)

Collegati:
25 anni di… “Thriller”
In memoria di Michael

venerdì 17 luglio 2009

Coraline e la porta magica

Coraline e la porta magica

La piccola Coraline si trasferisce in una nuova casa con i genitori, che però non la degnano di attenzione, presi come sono dal lavoro. Fra le varie porte della casa ne spicca una, piccola e murata, che attira la curiosità della bambina, ignara che l’avventura è in agguato. La notte, infatti, il passaggio si apre per condurre a un’altra realtà, dove tutti portano dei bottoni al posto degli occhi e dove gli “altri genitori” di Coraline sono amorevoli e pieni d’attenzione nei suoi confronti. Tutto sembra meraviglioso e irresistibile in questo strano “altrodove”, ma ben presto l’altra madre chiederà a Coraline di fare una scelta…

Bisognerà probabilmente riflettere un giorno sul benefico contribuito che Neil Gaiman sta fornendo al cinema fantasy, in modo costante ma discreto, grazie alla sua attività di soggettista o sceneggiatore e dopo una lunga militanza nel campo dei fumetti (suo il celeberrimo Sandman). Dopo il bellissimo Mirror Mask e il buon Stardust è oggi il turno di Coraline e la porta magica, che si avvale anche della regia di Henry Selick, fortunatamente ormai libero dal cono d’ombra burtoniano dopo l’esordio di Nightmare before Christmas (e converrà quanto prima recuperare anche il suo secondo e poco visto lungometraggio James e la pesca gigante). Sono i loro sguardi trasversali oggi a conferire dignità al racconto fantastico di matrice anglosassone (humus dal quale Gaiman inevitabilmente affiora) e a sposarlo con la perizia tecnica di un’industria hollywoodiana alla perenne ricerca di storie e personaggi.

Un’industria che, come accade con Guillermo Del Toro o con Michel Gondry, è tanto più sorprendente quando è capace di mascherare la sua potenza tecnologica per lasciare spazio a una fattura quasi artigianale, dove l’esibizione dell’artificio diventa strumento per una poetica fondata sull’illusionismo: Selick in questo senso si pone in continuità con una tradizione molto precisa, che è quella di Ray Harryhausen (maestro della stop-motion), in perenne bilico fra avanguardia e artigianalità, e permette alla stessa di fare l’inevitabile passo in avanti grazie alle possibilità offerte da un digitale discreto ma ben presente. Il risultato, ancora una volta, è un piccolo miracolo visivo che regala allo spettatore un prodotto visivamente splendido e pregno di sense of wonder.

Si citava poc’anzi, però, anche la tradizione del racconto fantastico anglosassone, evidente nel riverberarsi di alcune suggestioni che rimandano a Lewis Carrol, per l’attraversamento del confine tra realtà e meraviglia, ma anche all'americano Il Mago di Oz (libro e film): in entrambi i casi l’intento è infatti satirico, la realtà nella quale la protagonista di turno (si chiami Alice, Dorothy o Coraline) si ritrova è uno speculare della precedente, deformata attraverso la chiave del fantastico e i tratti tipici del nostro mondo sono talmente esasperati da chiarire il pensiero critico dell’autore.

Nel caso specifico l’esigenza di dare ancora una volta corpo al sense of wonder non fa venir meno una sorta di inquietudine (sempre presente nelle opere di Selick) rintracciabile nella sostanziale organicità di un universo fantastico proiettato sulla perenne voglia di stupire, ma dove ogni particolare risulta perfettamente ordinato rispetto al compito che si intende seguire: mancano quei piccoli scarti tipici del mondo reale, dove un regalo è inaspettato, un nome viene pronunciato in modo sbagliato e chi si presenta con un comportamento bizzarro a tratti dimostra di saperne molto più di quanto non sembri. In questo senso il film mette in scena una dicotomia fra un mondo imperfetto ma vitale (perché aperto a inattese deviazioni) e un altrodove immaginifico ma sostanzialmente centripeto. Questo, prima ancora della cupezza figurativa di molte situazioni (ai confini con l’horror), rappresenta il cuore nero (e pulsante) della pellicola.

Al fondo resta comunque costante in entrambi i casi un problema di mancanze affettive, che però è rovesciato nelle figure di riferimento: Caroline soffre nel mondo reale lo stesso disagio dell’esistere senza essere considerata che è proprio dell’altra madre nel mondo parallelo. Il che conduce a interessanti possibilità circa il fatto che le due figure possano risultare interdipendenti e che forse l’altrodove non sia nient’altro che un frutto della fantasia di Coraline, suggestione che il film mantiene per buona parte della sua durata, salvo poi sciogliere quando è il momento di tirare le somme. Scelta peraltro comprensibile poiché in realtà Selick e Gaiman non cadono nell’errore tipico di molti racconti similari, dove la fantasia viene infine riposta nel cassetto come orpello inutile e anzi elemento che ha rivelato la sua pericolosità.

Al contrario il mondo di Coraline sembra invece attraversare l’avventura per ribadire il suo essere comunque permeabile alle spinte del fantastico, sintetizzato bene dalla figura del gatto, autentica scheggia impazzita tra i due mondi, altro esempio di personaggio che sembra sapere più di quanto non appaia. Anche per questo il finale, ben lungi dal ripristinare facilmente lo status-quo, chiude su una sostanziale normalizzazione dell’anormalità insita in un mondo pieno di difetti e dove l’inquietudine non si scioglie fino in fondo: e vissero dunque tutti non felici ma contenti.

Coraline e la porta magica
(Coraline)
Regia e sceneggiatura: Henry Selick (dal romanzo di Neil Gaiman)
Origine: Usa 2009
Durata: 100’

Sito italiano
Sito ufficiale americano
Videointervista a Henry Selick (sottotitolata)
Canale ufficiale YouTube del film
Pagina di Wikipedia sul romanzo
Sito ufficiale di Neil Gaiman (in inglese)

lunedì 13 luglio 2009

La ragazza del mio migliore amico

La ragazza del mio migliore amico

Tank fa uno strano lavoro: se il rapporto con la vostra ragazza è in crisi lui ci esce una sera e le rende la vita impossibile al punto da spingerla a tornare fra le vostre braccia. Un giorno, ad aver bisogno dei suoi servigi, è il coinquilino Dustin, prototipo del ragazzo introverso e un po’ sfigato, innamoratissimo della sua collega d’ufficio Alexis che però lo considera solo un buon amico. Alexis peraltro attraversa pure una fase problematica, perché si è resa conto che la sua vita sentimentale è a uno stallo. Di più: si è resa conto che la sua vita sessuale è un disastro e che le occorre “fare esperienza”. Tank è dunque l’uomo giusto al posto giusto e il suo proposito di spingerla fra le braccia di Dustin viene vanificato dalla passione che scoppia fra i due e che avrà le sue conseguenze…

La commedia romantica americana è uno di quei generi che, pur nell’assoluta rigidità delle sue regole, riesce sempre a tastare bene il polso della società e del periodo in cui è realizzata. E’ per questo profondamente immobile nella fedeltà ai suoi topoi, ma anche capace di risultare sempre accattivante: il problema sta nello stabilire se artisticamente si tratta di una tipologia di film virtuoso o parassitario, se cioè offra davvero degli spunti in grado di risultare intellettualmente stimolanti oppure se alla fine non si riduca soltanto a un continuo riproporsi di cliché. La ragazza del mio migliore amico non è uno dei migliori film del genere, ma possiede dei motivi d’interesse poiché riesce a modularsi attraverso una serie di scarti progressivi che lasciano intravedere percorsi interessanti e capaci di dare al tutto una certa forza evocativa.

E’ come se il film tentasse infatti di nascondere fra le pieghe di un tipico racconto da commedia romantica un sabotaggio degli elementi che connotano il genere: il primo risultato che balza all’occhio è una certa tensione disgregatrice che crea uno sfasamento fra una struttura molto “scritta” (come sempre accade in questi film dove il lavoro di sceneggiatura è molto importante) e una libertà dei corpi che sembra gridare la veridicità dei caratteri messi in campo. In questo senso è molto interessante il lavoro sui ruoli: si potrebbe pensare, infatti, che il protagonista del film debba essere Dustin, il coinquilino sfigato che, con la sua passione per Alexis, costituisce il motore della vicenda; invece, sorprendentemente, la vicenda del ragazzo è un autentico macguffin destinato a lasciare spazio a Tank, autentico mattatore della scena, personaggio che colpisce con la sua faccia da schiaffi (ottimo l’interprete Dane Cook) e capace di risultare a un tempo divertente e sgradevole, magari anche un po’ odioso, ma di quel tipo che non si riesce a odiare fino in fondo perché fa appello, con i suoi comportamenti, a una serie di dinamiche radicate nell’animo di tutti. E così, quando vediamo una delle ragazze chiedergli se si diverta a fare quello che fa, siamo consapevoli che quella è anche la nostra domanda.

Allo stesso tempo anche Alexis si dimostra un personaggio che, nella stereotipizzazione del ruolo, riesce a brillare di luce propria grazie alla forte fisicità di Kate Hudson: basta un sorriso, una smorfia fuori posto per provocare quello scivolamento che rompe la rigidità dello schema e apre un improvviso detour (seppure fulmineo) nel corpo della narrazione.

E poi consideriamo la schiettezza, molto spiazzante, di una storia che, in barba ai romanticismi, sembra veicolare una sorta di cinismo molto cupo al fondo, dove i rapporti sono tarati esclusivamente sull’utilità sessuale, ma senza colpevolizzare il sesso come un male della società (puritana). Anzi, i protagonisti lo praticano con piacere, e non amano la carineria: il padre maniaco dentro e filosofo fuori non mostra segni di redenzione, ma anzi, consapevole di essere una persona pessima, vuole solo trarre da questa sua natura il massimo giovamento. Il nerd che al ballo della scuola viene avvicinato per ricevere qualche consiglio paterno risponde mostrando il dito medio. I dialoghi in generale fanno appello a una terminologia molto forte e poco consona a questo tipo di storie e, di conseguenza, il percorso di formazione che Tank deve compiere non può che confluire nella sua decisione di portare avanti il proprio personaggio fino alle estreme conseguenze. Il film finisce praticamente lì, la coda è un retaggio da pagare al genere per non portare il suo sabotaggio alle estreme conseguenze, tanto che ci si dimentica anche di quale sia il finale vero e proprio.

Tutto questo si riassume d’altronde in un nome: Howard Deutch, regista che deve la sua fama principalmente a quello che è diventato un piccolo classico del teen-movie anni Ottanta, ovvero Bella in rosa. Inquadrato da questo punto di vista il film ha un senso: La ragazza del mio migliore amico è un teen-movie mascherato da commedia romantica “adulta”, con personaggi immaturi che sfuggono dalle loro responsabilità e attraversano dei luoghi topici (il ballo di fine anno), confidandosi con il classico amico/a di carattere opposto e ballano su successi di un ventennio precedente. Il richiamo esplicito a Harry ti presento Sally descrive quindi il percorso attraverso una direttrice davvero anomala: un Bella in rosa ibridato con il film di Rainer e contaminato da schegge di American Pie (da cui la presenza iconica di Jason Biggs).

Il tutto mantenendo un incredibile equilibrio e lasciando che alla fine emerga soprattutto l’idea di assistere a una “normale” commedia romantica. Sarà perché il meccanismo non viene sabotato fino in fondo, ma la sensazione è che sia un approdo cercato, per lavorare con calma sui sottotesti. D’altronde anche Bella in rosa aveva come caratteristica principale la capacità di fondare un’estetica senza darlo a vedere, riflettendo anzi un’idea di quotidianità molto rassicurante in superficie. E per questo risultava a suo modo inquietante.

Anche in questo caso, dunque, Deutch enuncia più di ciò che sembra a prima vista, e il sorriso sulle sue labbra in realtà si rivela essere il ghigno di chi descrive una società incapace di portare davvero avanti un rapporto interpersonale.

La ragazza del mio migliore amico
(My Best Friend’s Girl)
Regia: Howard Deutch
Sceneggiatura: Jordan Cahan
Origine: Usa, 2008
Durata: 103’

Sito italiano
Sito ufficiale americano
Video interviste al cast da Movieplayer.it
Sito su Kate Hudson (in inglese)
Sito ufficiale di Dane Cook
Bella in rosa fansite (in inglese)

domenica 5 luglio 2009

Transformers: La vendetta del Caduto

Transformers: La vendetta del Caduto

Gli Autobot e l’esercito americano hanno formato la NEST, una squadra speciale per affrontare le incursioni dei Decepticon, e in questo modo vengono a sapere che Fallen, un antico avversario, sta per tornare: il suo scopo è catturare Sam, nella cui mente, attraverso un residuo frammento di Allspark, si è riversata l’intera conoscenza dei Transformers. I Decepticon fanno quindi risorgere il loro leader Megatron e, dopo aver palesato la loro presenza al mondo, riescono a uccidere Optimus Prime, mentre la NEST viene smobilitata dal governo, desideroso di non lasciarsi coinvolgere in una guerra che ritiene estranea al genere umano: Sam deve quindi far da sé, insieme agli Autobot ancora al suo fianco e agli amici umani, la fidanzata Mikaela, l’amico sbruffone Leo, e il vecchio rivale di un tempo, l’agente Simmons.

Probabilmente, se Michael Bay dovesse identificarsi in un Transformer la scelta ricadrebbe sul gigantesco villain componibile Devastator, capace di divorare e distruggere ogni cosa al suo passaggio: è in fondo la sintesi perfetta di un sequel che mostra decisamente i muscoli e che nello stesso tempo rivela in filigrana il percorso artistico che questo controverso regista ha intrapreso da alcuni anni. Non è un mistero, d’altronde, che Bay non sia un autore quanto uno shooter (secondo la felice definizione coniata da John Carpenter), ovvero un regista interessato soprattutto a girare metri di pellicola, ma privo di un immaginario di riferimento: non che nella sua filmografia non manchino momenti topici (chiunque riconoscerà alcune figure che da tempo ritornano, dalle meteoriti agli elicotteri, alla patinatura di un universo in bilico fra pacchiano e sensuale), ma non sono che elementi privi di una coesione, incapaci di dare forma a un universo immaginifico forte e proprio: come il Transformer formato da mille sfere d’acciaio e privo di spessore, insomma.

E’ il motivo per il quale, peraltro, Bay ha bisogno di un immaginario forte su cui poggiare la sua enfatica visione (l’alternativa è il disastro di Pearl Harbor) e i Transformers, fortunatamente, hanno sopperito allo scopo, dotati come sono di una formula dinamica, che nel tempo ha saputo adattarsi alle esigenze dei vari artefici che li hanno plasmati in formule sempre diverse (fumetti, saghe televisive in 2-D, film dal vero, lungometraggi cinematografici, serie in CGI) dando vita al fenomeno transmediale che tutti ormai conosciamo. In questo modo Bay può permettersi stavolta di spostare l’ago della bilancia dalla sua parte sul versante visivo, ma sempre facendo leva sulla lezione fornita da Steven Spielberg, produttore-autore già visibilmente molto presente nel precedente film e che qui fornisce spunti soprattutto per la seconda parte, costruita su un modulo tematico, espressivo e narrativo degno della saga di Indiana Jones.

In questo senso l’alternanza di comicità, romanticismo e azione, da molti considerata a torto infelice, è in realtà la stessa che anima le avventure del celebre archeologo: sono cambiati ovviamente i tempi, e poiché lo schema originale da solo non funziona più (basti vedere il mesto risultato artistico del Teschio di cristallo), c’è ora bisogno di nuove figure di riferimento, capaci di essere in linea con l’estetica del nuovo cinema digitale, e i robot creati dalla Hasbro, ancora una volta, fungono perfettamente allo scopo.

Tutto questo per evidenziare come Transformers: La vendetta del Caduto sia un film funzionale e funzionante rispetto a istanze tra loro divergenti e pertanto costruito proprio sulla convergenza di forze in opposizione: il tema di fondo, dunque, è, una volta di più, quello (spielberghiano) del recupero di un tessuto unitario (rintracciato nella memoria) che permetta la conciliazione di elementi opposti, che vanno da concetti più grandi (razza umana e robotica, passato e presente, sopravvivenza e sviluppo tecnologico) ad altri riconducibili a sfere più personali e intime (il rapporto sentimentale fra Sam e Mikaela, minato da distanze, gelosie, incomunicabilità e gustosamente costruito sull’eterno rimandarsi di una dichiarazione d’amore).

Il tutto peraltro si riassume nella capacità metamorfica stessa dei robot: un’attitudine che nel primo film era l’unità di misura della meraviglia, in una pellicola che mirava (riuscendoci) a stupire il pubblico: non potendo ripetere il miracolo di fronte a un’utenza ormai abituata allo spettacolo dei robot che “prendono vita”, stavolta quella capacità resta comunque il più efficace metodo di valutazione per misurare la distanza fra gli opposti, nella ricerca di un tessuto connettivo che ricomprenda le storie delle due razze in un intero e, ancora una volta, permetta di reimparare a vedere il mondo come un’unità complessa nella somma delle sue tante diversità, spesso divise da problemi e diffidenze (come quelle che, ad esempio, animano il personaggio del consulente alla sicurezza nazionale Galloway, ostile agli Autobot). Non come uno scomparire di una razza nell’altra (deriva sintetizzata dal personaggio della Pretender Alice, un Transformer che assume sembianze umane), ma un tracciare un percorso da condividere nella propria specificità.

Il resto lo fa Bay con il suo incedere magniloquente, a tratti davvero eccessivo, ma liberatorio, che costruisce nella distruzione e chiede allo spettatore di lasciarsi andare al piacere di un’avventura che travalica i limiti. Ecco dunque che, alla fine, la trasformazione che il film compie in maniera più netta è quella tra gli universi degli stessi Spielberg & Bay, sintetizzata dall’upgrade finale di Optimus Prime e Jetfire: il presente di Bay si unisce al passato spielberghiano, una tradizione di cui Transformers vuole evidentemente fare parte pur mantenendo la sua autonomia.

Transformers: La vendetta del Caduto
(Transformers: Revenge of the Fallen)
Regia: Michael Bay
Sceneggiatura: Roberto Orci, Alex Kurtzman, Ehren Kruger
Origine: Usa, 2009
Durata: 145’

Sito italiano
Sito ufficiale americano
Le dichiarazioni degli sceneggiatori
Blog sul film (in inglese)
Transformers Blog (italiano)
Sito di Michael Bay (in inglese)

Collegati:
Transformers
Transformers Animated

venerdì 3 luglio 2009

La guerra Kree-Skrull

La guerra Kree-Skrull

L’uscita in edicola del volume “Super Eroi” dedicato alla Guerra Kree-Skrull (anticipato di poco dalla ristampa Panini in formato Marvel Gold per fumetterie) è interessante poiché viene a inserirsi nel pieno dell’evento editoriale Secret Invasion, che sta attualmente coinvolgendo le maggiori testate Marvel italiane (da Spider-Man a Devil & Hulk, fino a Punisher War Journal, senza dimenticare gli albi degli X-Men e dei Vendicatori). Curioso innesto di passato nel presente, il volume diventa quindi allo stesso tempo un retroscena che si offre ai fans poco avvezzi alle precedenti avventure editoriali degli alieni mutaforma Skrull, ma anche un insieme che già comprende quanto sarà oggetto di trattazione nel futuro, ovvero nel nostro presente: un evento terrestre che ha però il suo baricentro altrove, in vari spazi e tempi, tutti mescolati in un unico “piano” narrativo e, in questo caso, nella stessa testata (I Vendicatori).

L’uso del termine “curioso” è quindi motivato dal fatto che il ritorno di questa saga nel presente sembra prolungare l’idea stessa della storia, che alterna, per l'appunto, i suoi archi narrativi fra differenti dimensioni (c’è il nostro mondo e la Zona Negativa), ma anche fra diverse epoche e realtà: la sensazione che si prova immergendosi nelle pagine scritte da Roy Thomas e disegnate in larga parte da Neal Adams (con il contributo di John & Sal Buscema) è infatti quella di un autentico “trip” narrativo, dove la verosimiglianza è rintracciabile unicamente nell’architrave che tenta di giustificare le scelte di volta in volta portate avanti dalle singole storie: scelte che sfruttano pretesti scientifici per immersioni nel fantastico puro, producendosi nella costante ricerca di sempre nuovi perimetri entro i quali iscrivere le poderose imprese degli eroi.

Ecco dunque che mentre gli eventi si snodano fra la Terra e il profondo spazio, a un tratto ci si ritrova immersi nel corpo de La Visione (supereroe androide capace di controllare la densità della propria massa corporea), in una divertita parafrasi del cinematografico Viaggio allucinante, salvo poi ripiombare all’improvviso nella Zona Negativa (con tanto di despota Annihilus che tenta di penetrare la nostra realtà) per tornare infine sul nostro mondo dove si scopre che gli Skrull hanno assunto l’identità di altri supereroi o di importanti cariche dello Stato (esattamente come accadrà, su scala più ampia, in Secret Invasion).

La progressione è in realtà ben più complessa e investe faide millenarie fra le due razze eponime, con gli umani a svolgere il consueto ruolo di prede e ago della bilancia, complicato dalla sottile contrapposizione fra due gruppi di Vendicatori, ovvero il nucleo originario (formato da Capitan America, Iron Man, Thor e Ant-Man) e quello dei successori (La Visione, Golia, Quicksilver e Wanda). I disegni dal canto loro amplificano la sensazione lisergica del racconto attraverso composizioni visionarie, prospettive azzardate e volti che arrivano a deformarsi in ragione dell’esigenza espressiva.

L’intelligenza di Thomas non sta dunque soltanto nell’aver allargato il campo d’azione dei Vendicatori recuperando elementi sparsi nella fitta continuity marveliana per dare all’universo fumettistico una sua organicità, ma soprattutto nella sua capacità di adattare lo stile narrativo a un’idea concettualmente fondata sull’alterazione delle percezioni e sul ridefinirsi di uno spazio entro il quale ambientare l’avventura. In questo modo la storia (dichiaratamente nata senza una scaletta predefinita) riesce a essere profondamente organica e compatta, sebbene assolutamente sregolata e libera nell’offerta dei toni e delle ambientazioni: viene quasi da rimpiangere un’epoca in cui si poteva dare fondo con tanto entusiasmo a un’idea, abbandonandosi al puro piacere dell’avventura e della narrazione, riuscendo nello stesso tempo a restare perfettamente ancorati al presente. Innegabile infatti che anche La guerra Kree-Skrull sia figlia della sua epoca, perché riflesso di uno sbandamento percettivo globale figlio della società post sessantottina alla perenne ricerca di nuovi punti di riferimento (uno dei capitoli non a caso si intitola “Dio è morto”) e che con il suo impeto sembra quasi rivendicare una fiducia nel domani (il suo motto potrebbe essere lo storico “potere alla fantasia”?).

Una storia che quindi riesce a volgere le sue ingenuità in punti di forza, che a volte anche eccede nella velocità espositiva, “bruciando” in fretta molte situazioni pur di affastellarne sempre di nuove, ma non fa mai mancare il divertimento. E che soprattutto, in parallelo con il presente, dimostra di essere ancora una fertile fonte di ispirazione, di cui oggi vediamo gli effetti anche nel cinema sregolato e spettacolare che riempie le sale.

La guerra Kree-Skrull
(The Kree-Skrull War)
Scritto da: Roy Thomas
Disegni: Neal Adams, John Buscema, Sal Buscema
Pubblicato da Marvel Italia/Panini, Collana Super Eroi La Gazzetta
208 Pagine
1971

Pagina di Wikipedia sugli Skrull
Pagina di Wikipedia sui Kree
La recensione di Comicus

mercoledì 1 luglio 2009

Imprint: Sulle tracce del terrore

Imprint: Sulle tracce del terrore

Christopher, giornalista americano, torna in Giappone per ricongiungersi all’amata Komomo, una prostituta che ha promesso di portare in America. Dopo aver girato il Paese in cerca della donna, che sembra essere svanita nel nulla dopo essere stata venduta, l’uomo arriva in una misteriosa isola. Qui, una ragazza sfregiata assegnatagli per la notte gli racconta il tragico destino di Komomo, sottoposta a incredibili torture per una colpa che non aveva commesso. Ma la verità nasconde molti segreti, che verranno rivelati poco alla volta.

A rimarcarne soltanto l’efferatezza sbandierata in tutte le recensioni si rischia di avallare l’equivoco che sinora lo ha costretto nella nicchia dei cultori come una mera bizzarria d’autore per feticisti dell’estremo. Non che non siano necessari nervi saldi durante la visione, tutt’altro, ma ben più importante è rimarcare che Imprint, tredicesimo e ultimo episodio della prima stagione di Masters of Horror, senza mezzi termini, è un’opera magnifica, un fulgido esempio cinema in grado di sabotare la visione elevandosi al rango di titolo indispensabile.

Takashi Miike riesce nell’intento di compiere un vero miracolo filmico e, senza privarsi di nessuna strategia narrativa tipica dell’horror, confeziona una storia che evoca sensazioni tra loro difformi, usa il genere come un amplificatore di emozioni e costringe lo spettatore a interrogarsi sui fatti cui assiste. Ciò che quindi si offre agli occhi di chi guarda è un caleidoscopio di influenze che rendono Imprint tanto un “puro” horror, quanto, molto più direttamente, un’opera che rifiuta ogni facile catalogazione.

Tutto questo avviene con grande ricercatezza visiva, ma con un’altrettanto evidente naturalezza, evitando sapientemente le trappole del cinema che declama la propria natura teorica: non esistono infatti elementi diretti o artifici linguistici che palesino l’idea della messinscena (l’unica eccezione è data dallo sguardo in macchina della protagonista dopo i titoli di coda), eppure risulta evidente come Miike voglia evocare la sensazione di un proscenio, una tela su cui si agitano delle ombre, attraverso un confronto da kammespiel fra due attori (Christopher/Billy Drago e la donna/Yuki Kudoh) in uno spazio che si reinventa ad ogni inquadratura per lasciare che le storie di volta in volta narrate prendano vita. Quello cui assistiamo è dunque un rincorrersi di visioni che sembrano accennare alla natura affabulatoria e al potere della narrazione propri del cinema, e svelano se stesse attraverso una struttura a spirale dove ogni nuova versione della stessa storia non fa altro che scendere sempre più in profondità nell’abisso di orrori indicibili, dove i tabù vengono infranti con una potenza devastante e, più si affonda, più si respira una sensazione quasi lieve di un dolore che diventa assoluta visione della bellezza.

Ecco, forse l’artificio più grande realizzato da Miike è quello di lasciar coincidere il picco dell’orrore con quello della bellezza: Imprint è un film estremo nel senso più autentico della parola, poiché va oltre la percezione del dolore e, pur mantenendone la sensazione estremamente fisica, materica, della carne violata, fa di ogni gesto sadico una pennellata in un quadro visivo di rara bellezza, che sembra materializzare visioni da tela fiamminga o da crude visionarietà alla Bosch. Corpi vivi e morti e immagini di fantasmi vengono perciò a coincidere, la Komomo seviziata appare come una grottesca trasfigurazione degli spiriti inquieti ritratti in anni di pellicole giapponesi e se l’approccio non è visionario come nelle opere di un Nobuo Nakagawa è perché stavolta i fantasmi appaiono drammaticamente reali.

Gli estremi quindi si uniscono narrativamente e tematicamente creando un turbamento profondo, tipico di chi vede i metodi tradizionali d’approccio al reale sconvolti e danno la misura di una storia semplice eppure estremamente complessa, dove lo spettatore, insieme al protagonista maschile (un giornalista, dunque un narratore della verità) è atterrito, ma diversamente da lui è anche affascinato dagli ossimori creati da Miike. La crudeltà dell’aborto si sposa quindi con il gesto delicato di chi colloca una girandola nel terreno a suggello della vita che non è germogliata, la gentilezza di chi condivide il cibo è ripagata con l’accusa di un reato non commesso, mentre visi e corpi si deformano nella coesistenza di bellezza e mostruosità.

L’impressione che si ricava è quella di un racconto orientato su un disvelamento progressivo della realtà che si rivela essere una presa di coscienza della caducità dell’idea stessa di verità, non dissimile da quella che animava il celeberrimo Rashomon di Akira Kurosawa (segnalo a questo proposito il bel saggio di William Leung fra i link), dove i termini con cui normalmente ci si rapporta alla vita sono rovesciati implacabilmente e a dominare è la morte e una sorta di dannazione perenne per tutti i personaggi coinvolti. Se il mondo di Imprint è tutto lì è un mondo corrotto, che nella sua trasfigurazione in immagine cinematografica riflette una sorta di ideale bellezza del Male (la stessa che permea il disegno dell’inferno che la protagonista vede su una tela arrotolata e la stessa che rende l’arte così succube al fascino della perversione) e condanna senza appello chi resta coinvolto nelle sue spire. Capolavoro assoluto.

Masters of Horror: Sulle tracce del terrore
(Masters of Horror: Imprint)
Regia: Takashi Miike
Sceneggiatura: Daisuke Tengan (tratto dal racconto Bokke, kyote di Shimako Iwai)
Origine: Usa, 2005
Durata: 61’

Trailer di Imprint
Sito ufficiale giapponese di Imprint
Saggio comparativo tra Rashomon e Imprint (in inglese)

Collegati:
Masters of Horror
Pro-Life: Il seme del Male
Deer Woman: Leggenda assassina