Diary of the Dead: Le cronache dei morti viventi
I morti sono tornati in vita attaccando i vivi e il mondo precipita repentinamente nel caos: Jason Creed, studente di cinema intento a realizzare un film horror come saggio di fine corso, decide quindi di documentare con la sua telecamera il viaggio che compirà insieme al suo gruppo di amici per tornare a casa. L’esperienza è caratterizzata da tensioni all’interno del gruppo, ma soprattutto dal costante pericolo insito in un paese lacerato da conflitti e dal costante pericolo degli attacchi, da parte dei vivi e dei morti. Quello che noi vediamo è un documentario montato da Debra, fidanzata di Jason, come monito per un’umanità smarrita.
Presente sin dal primo capitolo della Dead Saga, il ruolo dei mass-media nell’immaginario globale diventa centrale nel quinto film, pensato per una distribuzione straight-to-video e che poi ha comunque goduto di una limitata uscita in sala (in Italia è arrivato, con forte ritardo, in un solo cinema di Roma): non si tratta comunque di riprodurre lo stile verité del Real Cinema, dove già altri titoli hanno fatto meglio (basti pensare allo sconvolgente [REC]), quanto di dare forma a un discorso più vicino a quello del Redacted di Brian De Palma, con la giustapposizione di fonti differenti che restituiscano sia il (non)senso del Caos di un mondo dominato da un esubero di informazioni più o meno veritiere, sia l’idea della documentazione di un evento nel suo farsi. Per questo motivo stavolta la saga rompe la consueta linearità narrativa, che aveva comunque situato i quattro film precedenti in una ideale (seppur fittizia) continuity, e torna all’origine del contagio, all’inizio dello sfaldamento del tessuto sociale conseguente la resurrezione dei morti.
E’ un ritorno che il film descrive attraverso una fedele ricognizione degli elementi topici della saga e dei suoi luoghi, in un percorso circolare che infine vedrà sovrapporsi i piani narrativi fino a rendere Diary of the Dead come una sorta di ideale prequel de La notte dei morti viventi, con i protagonisti asserragliati in una casa in mezzo al nulla, circondati dai non morti che tentano di entrare. Già questa decisione chiarisce dunque gli intenti di un progetto che sta nel presente ma guarda al passato, e si presenta come un montaggio di outtakes, dove la documentazione del reale è affidata a non professionisti, lungo un percorso che, a conti fatti, vedrà le categorizzazioni rovesciarsi.
Ecco dunque che l’assalto dei militari che derubano i protagonisti appare tanto un omaggio alla cifra antimilitarista de Il giorno degli zombi, quanto un’adesione di Romero a un punto di vista che rifiuta le figure costituite dell’autorità per tracciare inattese solidarietà fra studenti spiantati, professori alcolizzati e una gang di colore che ha preso il potere in una zona del paese. La ricerca della verità non ha senso se non è finalizzata a una nuova impostazione degli equilibri che ci dica della complessità di quel tessuto umano che si è andato sfaldando con l’insorgere dell’Apocalisse.
Per questo motivo diventa interessante constatare come la traccia portante della documentazione, che i dialoghi spingono volutamente in primo piano, in maniera spesso forzata e didascalica, sia invece minoritaria rispetto a un progetto più complesso che mina a ridefinire i rapporti di forza e a giocare con le aspettative dello spettatore. Ecco dunque che Jason, sebbene presenza oggettivizzante dell’orrore con la sua telecamera che documenta i fatti, è, nella sostanza, un non-personaggio che non riesce mai a essere fondamentale e utile ai compagni, rinchiuso com’è nell’illusione di poter determinare la realtà ed essere utile soltanto dietro l’obiettivo. La sua presenza in perenne fuoricampo (poiché dietro la camera) non lo fa coincidere con la figura del narratore, concretizzata invece dalla fidanzata Debra (l’ottima Michelle Morgan), che più di ogni altro non condivide l’idea del video-diario, ma pure alla fine si convincerà dell’idea di portarlo a termine.
Romero porta avanti questo progressivo slittamento/scollamento dei ruoli predefiniti attraverso una lenta sovrapposizione del piano del reale con quello della fiction, che di fatto renda evidente la natura fittizia dell’immagine. Non a caso Debra avvisa lo spettatore di aver introdotto della musica nel filmato di Jessie per renderlo “più spaventoso” e quindi più efficace, in un immaginario che non è capace di prendere coscienza dei fatti senza la mediazione dell’artificio cinematografico, unica forma di narrazione possibile per Romero nel caos delle immagini impazzite. Il film dunque procede nella progressiva presa di coscienza del proprio essere finzione, arrivando a sovrapporre il piano della documentazione con quello della creazione amatoriale, attraverso la scena migliore del film, in cui Jason si ritrova suo malgrado testimone del concretizzarsi della scena madre del progetto che aveva imbastito come saggio di fine corso: la bella inseguita dalla mummia non è soltanto la consacrazione della confusione dei piani narrativi, ma costituisce anche la sovrapposizione fra il film romeriano e la tradizione classica dell’orrore che comunque Diary of the Dead porta avanti e che sembra l’unica chiave di volta possibile per reimparare a leggere il reale: anche per questo il regista insiste sulla deambulazione lenta dei non morti, in opposizione a certo moderno e serioso cinema che ha smarrito il gusto della metafora e concepisce il morto vivente come mera icona pop, la cui fenomenologia è slegata dal contesto in cui la stessa si inserisce.
Se quindi, i morti viventi guidati da Big Daddy ne La terra dei morti viventi già marcavano la distanza fra una realtà di vivi ipnotizzati dalla rimozione del problema, Diary of the Dead (che nasce non a caso in continuità tematica al film precedente ma anche in contrapposizione allo stesso per libertà d’azione, ristrettezza delle risorse ed essenzialità narrativa) espande il discorso investendo direttamente l’atto della creazione cinematografica e il senso della narrazione di genere, ponendosi l’obiettivo ambizioso di recuperare un rapporto più onesto fra l’esigenza spettacolare del cinema e la sua capacità di usare la trasfigurazione fantastica per stare comunque nella sfera dell’umano. Perché alla fine la dicotomia della saga è sempre la stessa: loro/noi che diventa noi/noi. Cambia soltanto la prospettiva dalla quale inquadrare questo problematico rapporto, all'interno di una saga che non a caso continua a portare avanti l'idea di ricostruzione dello sguardo.
Diary of the Dead – Le cronache dei morti viventi
(Diary of the Dead)
Regia e sceneggiatura: George A. Romero
Origine: Usa, 2007
Durata: 95’
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2 commenti:
A me è piaciuto veramente molto, un vero e proprio Romero come ai tempi d'oro. Certi didascalismi insiti in alcuni dialoghi e in alcuni personaggi, è vero, potevano essere evitati, ma al di là di questo il film è altamente godibile, oltre che interessante circa la questione informazione/comunicazione/verità.
Ale55andra
Ciao Alessandra e grazie come sempre per i commenti!
Sì, anche a me "Diary" è piaciuto molto, non vorrei aver suggerito il contrario :-)
A presto.
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