Gabriele torna in Puglia per dare l’ultimo saluto al padre morente: il ritorno in quei luoghi gli fa tornare alla mente la sua infanzia, vissuta all’ombra di un genitore frustrato per le sue velleità artistiche mai appagate e che si era infine convinto a realizzare una mostra dei propri quadri. Il fiore all’occhiello dell’evento doveva essere una curata riproduzione di un quadro di Cezanne esposto alla Pinacoteca di Bari. Nel frattempo Gabriele si divideva fra le scorribande con l’amico Bruno e la paura per un misterioso “uomo nero” che aveva incontrato per caso mentre giocava a nascondino. La visita finirà comunque per rivelare a Gabriele il segreto a lungo nascosto dal padre.
Arrivato al decimo lungometraggio da regista, Sergio Rubini si conferma un anomalo caso di “milite ignoto” del cinema italiano, capace di penetrare l’indifferenza generale unicamente come attore, ma non come autore. E’ un peccato perché la sua filmografia da director, stante alcuni momenti di stanca o qualche deviazione non riuscita (si vedano il farsesco Prestazione straordinaria e il penultimo, velleitario, Colpo d’occhio) rappresenta per il resto una delle nostre realtà più felici, carica com’è di un afflato vitalistico che riesce a catturare colori e sapori del meridione italiano esplorandone a un tempo le contraddizioni umane, fatte di un certo immobilismo dei gesti e delle ritualità, e una componente più misteriosa, selvaggia e quasi magica che rende quei luoghi così scarni capaci di aprirsi a contaminazioni con il fantasy (lo splendido L’anima gemella).
In questo personalissimo percorso, L’uomo nero giunge come un inaspettato punto di arrivo, che rivela l’ormai raggiunta maturità e consapevolezza dell’autore pugliese: scambiato erroneamente per una commedia o magari per un affresco storico-sociale sulla falsariga dei kolossal di Giuseppe Tornatore, il film è invece ancora una volta una sorta di favola che racconta il ritrovarsi di un protagonista attraverso il confronto con le proprie radici e la propria terra. Quello del ritorno a casa, peraltro, è un topos abbastanza comune nelle opere di Rubini (pensiamo all’inizio de La terra), che qui si ritaglia anche il ruolo del capostazione, come a voler tornare agli albori della sua produzione, a quel La stazione che a cavallo fra gli anni Ottanta e Novanta inaugurò la sua carriera di regista.
Si parte dunque dalla memoria, dal conforto del noto, ma si arriva a un risultato complesso, magmatico, stilisticamente sorvegliato e costruito attraverso la contrapposizione fra una realtà generale, che sembra definirsi unicamente nell’evidenza dei suoi toni uniformi, e una serie di umori molto vari che corrono invece sottotraccia, e si palesano soltanto a uno sguardo più attento e obliquo. Esattamente come accade con la grande varietà di colori celati dal paesaggio apparentemente bicromatico che Gabriele e suo padre Ernesto vedono dal finestrino del treno che li conduce a Bari. E’ proprio Ernesto a evidenziare, invece, la grande varietà di tinte che si nascondono e si mescolano in quello scorcio di terra, a formare un sorprendente impasto di tonalità.
Il film in questo senso procede lungo il tentativo di rompere il guscio di ovvietà insito in una realtà che si bea della propria stolidità e dei propri pregiudizi. La spinta, prima ancora che sociologica, è umana e trova la sua ragione d’essere nella frustrazione che domina Ernesto e nel perenne disagio che invece accompagna proprio il piccolo protagonista Gabriele: un dolore, quest’ultimo, incarnato poi dalla figura dell’Uomo Nero (la cui identità verrà svelata solo nell’ultima parte del film). Rubini però evita la facile contrapposizione dicotomica, lavorando anzi sulla negazione del controcampo, in una particolare alchimia che lascia spazio all’ignoto e al fantastico (in ossequio alla prospettiva infantile offerta da Gabriele) e nega invece la visione dell’arte, evidentemente relegata a un fuggevole obiettivo perseguito dai “grandi” e che Gabriele dichiaratamente non riesce a capire.
Così, non vediamo il quadro di Ernesto prendere forma, ma è soltanto il retro della sua cornice a riempire l’inquadratura, mentre centrale sotto l’obiettivo è l’insieme dei sentimenti che investono lo stesso pittore fallito nella creazione della sua opera; non vediamo il film che i parenti e gli amici riuniti seguono in televisione, lo sguardo si posa invece sui gesti passionali che coinvolgono lo zio Pinuccio e una delle convenute: l’arte assume dunque il ruolo di cascame da museo, di chimera da inseguire, ma anche di elemento accentratore, distogliendo lo sguardo dal quale è invece possibile cogliere la complessità e la varietà di quei colori e umori nascosti da una realtà stolida dentro cui si agitano energie divergenti e passionali.
Tutto questo trova poi sublimazione nelle visioni di Gabriele, capaci a un tempo di traslare i sentimenti che legano il bambino alle persone che lo circondano, ma anche di rivelare una volta di più l’incredibile varietà di forze che agiscono fra le pieghe della realtà. Qui Rubini dà sfogo alla sua vena più lirica, assecondando una precisa richiesta di meraviglia che il suo cinema gli porge e che lo avvicina ai grandi poeti del reale del nostro cinema, da Sergio Citti al Luigi Comencini di Pinocchio. Ecco dunque Gabriele scoprire attorno a sé la presenza di spiriti del passato, come quello di un barbuto Cezanne che, sfruttando le fattezze di suo zio Pinuccio (un Riccardo Scamarcio che rinnova la sua ottima mimica lasciata presagire in Verso L’Eden, di Costantin Costa-Gavras), si lancia poi in folli salti dal sapore chiaramente chapliniano.
Possiamo dunque vedere L’uomo nero come il semplice racconto di un bambino alle prese con il primo amore e una famiglia difficile, ma anche come un mosaico più complesso, che trova infine la sua quadratura nella scoperta della grande burla commessa dal padre ai danni dei compaesani: un momento anch’esso magico per come riesce a scompaginare le carte del racconto rivelando un sistema di riferimenti completamente opposto a quello creduto sino a quel momento, dove gli esperti d’arte si riveleranno per gli inetti che sono e il vessato capostazione come un gran furbone che aveva invece capito tutto e ha messo in scena la sua vendetta. Perché in fondo questa realtà mobile nella sua immobilità non accetta di essere scoperta nelle sue contraddizioni, non concepisce gli scatti d’ira che accomunano ad anni di distanza Ernesto che si scaglia contro i suoi ospiti e Gabriele che vorrebbe accusare di viltà chi viene a rendere omaggio alla salma di quel padre che in vita aveva insultato e deriso. In una realtà così, in fondo, si può agire soltanto sottotraccia, per avere il diritto all’ultima risata.
L’uomo nero
Regia: Sergio Rubini
Sceneggiatura: Domenico Starnone, Carla Cavalluzzi e Sergio Rubini
Origine: Italia, 2009
Durata: 115’
Sito ufficiale
Intervista al regista e al cast
Trailer de L’uomo nero
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