"C'è chi crede in dio o nel denaro. Io credo nel cinema, nel suo potere. L'ho scoperto da ragazzino, mi ha aiutato a fuggire da una realtà in cui ero infelice. È una delle forme d'arte più alte che l'uomo ha concepito. Credo nel suo futuro."
(John Carpenter)

martedì 15 dicembre 2015

Le anime disegnate

Le anime disegnate

Le anime disegnate è un libro dalle molte vite. Il fatto che sia citato spesso prova quanto si sia guadagnato sul campo la statura di classico: in fondo ha più di vent'anni sulle spalle e rappresenta uno dei primi saggi a comparare l'animazione occidentale con quella orientale senza particolari complessi di superiorità o inferiorità da una parte e dall'altra. Allo stesso tempo, però, è un libro che, nel tempo, è stato sottoposto dal suo autore a svariate riedizioni e quindi è stato rivisto, cambiato e ampliato – qui prendo in analisi la terza edizione del 1998, edita da Castelvecchi, ma ce ne sono altre più recenti. La cosa in sé può apparire anche bizzarra, ma è sufficiente una lettura anche superficiale per rendersi conto che la struttura è abbastanza rapsodica: che non significa improvvisata, si badi.

Ci sono tre macrocapitoli: uno dedicato al genio di Walt Disney, uno alla natura controcorrente dei cortometraggi Warner Bros (che si allunga anche alla MGM e a Hanna & Barbera), per poi arrivare al Giappone. Su questa gabbia ben definita, si aprono poi le molte possibilità ispirate da una scrittura che, seppur molto lucida, sembra seguire il filo dei pensieri in modo molto colloquiale, come se nascesse dall'ispirazione del momento, interrompendosi, concedendosi digressioni, aprendo deviazioni più o meno brevi su punti che si vogliono comunque “fermare” in questo divertito ma mai futile viaggio nei mondi animati.

Ed è un libro che smentisce se stesso: nel senso che la tradizione ce lo ha tramandato come un libro quasi esclusivamente orientato alla difesa dei cartoon giapponesi. Ma invece tutto è ben distribuito, nella sua divisione del mondo. Certo, la parte “americana” dimostra una maggiore scioltezza, tipica di un argomento con cui si ha la dimestichezza data dalla lunga frequentazione e dalla saggistica già corposa. Quando si arriva al Giappone il percorso è chiaramente più impervio, nei primi anni Novanta è ancora un territorio poco noto: la scrittura si fa quindi più guardinga, attenta a rimettere anche in riga i pregiudizi fioccati nel decennio precedente, ma sempre con quel gusto per la scoperta che emerge prezioso, goloso, in tutte le pagine.

Così, le “anime” del titolo non sono semplicemente gli anime giapponesi, ma i pensieri che muovono i vari autori, alle varie latitudini, nella creazione di opere che sono anche riflesso di un sentire personale e universale. E' una storia culturale dell'animazione, affrontata con il piacere del collegamento fra punti altrimenti considerati distanti, dove si esalta spesso il gusto del paradosso. Ad esempio quello che vede la cultura occidentale profondamente distante e quasi fiera della propria differenza rispetto a quella orientale, eppure così attratta dalle storie prodotte nel lontano arcipelago (“Gli europei si sentono lontani anni luce dall'universo giapponese, dalla sua cultura, e dal suo stile di vita. Eppure […] il cartone giapponese ha proposto situazioni in cui i nostri ragazzi si sono riconosciuti e continuano a riconoscersi. Questo […] perché nei confronti della nostra infanzia la cultura occidentale, la nostra cultura, è molto più repressiva di quanto questa voglia riconoscere”).

Va da sé che, dunque, ci si sofferma meno sulla tecnica e più sugli aspetti sociologici e contenutistici, nell'ambito di un approccio comunque analitico, in grado di esaltare le differenze, ma anche i tratti in comune fra i vari universi. In fondo Le anime disegnate sembra voler dimostrare che tutto è figlio di valori universali e di una tecnica che, fra i vari cambiamenti del caso, persegue gli stessi scopi. Un libro agile come il suo piccolo formato, ma molto profondo, di cui si sente il bisogno, anche dopo due decadi, in un mondo che tende sempre a chiudere in recinti ciò che invece è pensato per abbattere barriere.
 
Le cover delle varie edizioni, dalla prima del 1994 (a sinistra) alla
più recente del 2005 (ultima a destra)

Le anime disegnate – Il pensiero nei cartoon da Disney ai giapponesi
di Luca Raffaelli
1994
Terza edizione, 1998
Castelvecchi, Roma
192 pagine
(attualmente il libro è nel catalogo Minimum Fax)

martedì 8 dicembre 2015

Animeland – Racconti tra manga, anime e cosplay

Animeland – Racconti tra manga, anime e cosplay

La storia è nota: l’arrivo dei cartoni animati giapponesi sulle nostre emittenti, alla fine degli anni Settanta, ha marcato un “prima” e un “dopo” nella storia del costume italiano, creando un legame fortissimo con un pubblico ben definito – principalmente quello dei più giovani, maggiormente attenti e ricettivi rispetto alla “novità”. Un amore che ha resistito al tempo e che ha assunto, negli anni, varie forme: c'è il collezionismo dei manga (i fumetti giapponesi), la costante visione degli anime (i cartoon appunto), e infine il cosplay, ovvero la pratica divertente e divertita di mascherarsi dal proprio personaggio preferito per partecipare alle manifestazioni dove inscenare i momenti più celebri dell’opera.

Quello che era iniziato come un semplice divertimento, magari da relegare ai soli anni d’infanzia, alla prova del tempo si è insomma dimostrato un enorme bacino di storie e forme. Di più: è il riflesso di una cultura lontana ma capace di farsi linguaggio universale, grazie alla forza espressiva del mezzo. Anime e manga vantano infatti uno stile dinamico e innovativo nell’uso delle tecniche visive, dove l'evocazione e la forza emotiva sopravanzano quel rispetto del verosimile più caro alle culture occidentali, donando all'esperienza un maggiore impatto immersivo. Da qui, a cascata, sono poi nati un fandom articolato e varie professionalità e competenze, come studiosi e critici della materia, nonché editori che si sono fatti carico di portare in Italia le più recenti produzioni.

A tutto questo è dedicato il documentario Animeland – Racconti tra manga, anime e cosplay, opera prima di Francesco Chiatante, che cerca di tracciare una mappa di questo composito universo, partendo dalle origini dell’invasione per poi inseguire le tracce sedimentate nell’immaginario italiano. Lo fa in due modi, attraverso i resoconti di “chi c’era” e le dichiarazioni di chi ha poi costruito a sua volta nuove forme, diventando parte della cultura popolare: attori (Paola Cortellesi, Valerio Mastandrea), registi (Fausto Brizzi, Michel Gondry, Maurizio Nichetti), cantanti (Caparezza) solo per citarne alcuni, che compongono un mosaico affascinante.

Il racconto è fluviale e riesce replicare l'idea immersiva traghettando lo spettatore in un universo “altro”, ma familiare anche ai meno avvezzi, grazie alla capacità di fare appello a un bagaglio visivo-percettivo che è ormai percepito come globale e trasversale alle fasce d'età. Si parla insomma di Goldrake, Heidi, Candy Candy, Holly & Benji, Hayao Miyazaki ma poi il racconto si prende la libertà di concedersi i necessari detour, come a dire che quei titoli restano sicuramente dei punti cardine, ma non esauriscono il discorso in quanto singoli cascami di un tutto più grande e articolato: sono non il punto d'origine e d'arrivo, ma piuttosto la chiave per aprire la porta di un mondo più complesso. I bambini di ieri, quindi, sono diventati gli adulti di oggi e tutte queste storie e forme che hanno portato in dote sono diventate la via preferenziale per raccontare il percorso passato e definire le nuove tendenze del presente.

Ne emerge perciò un ritratto molto personale, che fa appello alla passione dell’autore, ma – esattamente come i lavori che racconta – diventa poi opera universale, capace di instaurare un dialogo con lo spettatore, affascinandolo con un’atmosfera fiabesca ma concreta per la specificità degli argomenti trattati. Un po' ricordo, insomma, un po' ricognizione documentata, grazie anche alle linee guida fornita da alcuni studiosi, primo fra tutti Luca Raffaelli, celebre saggista e qui elevato ad autentico “narratore” e voce critica di una generazione che ha deciso di affidarsi a questo flusso narrativo e visivo per definire la propria realtà.

Francesco Chiatante è un videomaker tarantino, montatore e autore di cortometraggi e documentari, ed è stato premiato per il suo backstage del film di Ivano De Matteo, I nostri ragazzi, al Festival del Cinema Città di Spello. Animeland è stato realizzato in piena indipendenza attraverso anni di ricerche, incontri con le varie personalità e un’impressionante mole di materiale iconografico, ed è stato infine presentato in anteprima mondiale al Roma Fiction Fest 2015. Su Siderlandia è possibile leggere la mia intervista al regista, sul film e la passione per anime e manga:

venerdì 4 dicembre 2015

Torino Film Festival 2015

Torino Film Festival 2015

Dal 20 al 28 Novembre si è rinnovato il rito della trasferta torinese per il festival del cinema, amatissimo e estremamente partecipato - quest'anno, nonostante il ritorno delle tre sale del Lux, le code hanno spesso lasciato fuori una parte del pubblico. Il programma può essere ben sintetizzato dalla retrospettiva Cose che verranno, dove si esplorava il futuro visto dal passato (attraverso i classici della sci-fi più o meno distopica), perché in effetti sappiamo bene che al festival è cara la tradizione del cinema, ma senza che questo faccia mai venir meno lo sguardo verso le nuove tendenze – e infatti, in un magnifico gioco di paradossi, la retrospettiva resta uno spazio “protetto” ma meno centrale che in passato.

Il segreto della fortunata ricetta torinese, in fondo, sta proprio in questo: non cambiare mai nell'impostazione generale, ma senza negarsi al contempo il piacere della novità. I percorsi si sono perciò articolati fra il classico Concorso (dove ha vinto Keeper, di Guillame Senez); la macro-sezione Festa Mobile, trasversale alla proposta dei nuovi titoli di autori consolidati e piccole grandi scoperte; i percorsi monografici su Orson Welles (per il suo centenario), Julien Temple e Terence Davies; la sezione più “di genere” e “dark” After Hours; e infine, ma non ultime, le Onde di Massimo Causo e Roberto Manassero con il cinema sperimentale e di ricerca.

Torino resta quindi un faro per il cinema di qualità, senza le tentazioni dell'evento mondano fine a se stesso, ma è ugualmente capace di attirare le masse e di produrre il divertimento: lo stesso direttore Emanuela Martina ha sempre concluso ogni annuncio con un augurale “Buon divertimento”, diverso dal più classico “buona visione” e la sfumatura non è da poco. A proposito di divertimento, va segnalata quest'anno la novità della Notte Horror, maratona della sezione After Hours proseguita fino all'alba con tanto di distribuzione di cornetti, cola e caffè per i più irriducibili (il sottoscritto non poteva naturalmente mancarla!).

Qui di seguito (dopo il salto) brevi schedine di alcuni fra i titoli più interessanti visti o riscoperti al festival, nella speranza che siano prima o poi distribuiti regolarmente in Italia:

mercoledì 18 novembre 2015

Star Wars: la trilogia di Thrawn

Star Wars: la trilogia di Thrawn



L'arrivo del settimo Episodio di Star Wars nelle sale cinematografiche è previsto fra un mesetto e, per ingannare l'attesa, riscopriamo quello che, fino a pochi anni fa era considerato il seguito ufficiale delle avventure di Luke Skywalker e soci: la trilogia di romanzi scritta da Timothy Zahn nei primissimi anni Novanta, e composta da L'erede dell'Impero (1991), Sfida alla Nuova Repubblica (1992) e L'ultima missione (1994). Pubblicati quando la saga cinematografica attraversava un periodo di appannamento – i prequel non erano ancora nell'aria e l'onda lunga del successo ottenuto dalla Trilogia Classica era ormai esaurita – i romanzi fornirono all'epoca un rinnovato slancio all'avventura lucasiana, piazzandosi in testa alla classifica dei best-seller e permettendo l'autentico fiorire di quello che con il tempo sarebbe stato conosciuto come l'Universo Espanso di Star Wars: un ricchissimo corpus di storie che, tra romanzi, fumetti, videogame e tanto altro, ampliavano la storyline della galassia lontana lontana, pur non essendo create o supervisionate direttamente da George Lucas (con il recente passaggio alla Disney, queste storie sono state collocate al di fuori della continuity ufficiale, azzerata per ripartire dai soli film e dalla serie animata Star Wars: The Clone Wars). Il successo dell'Universo Espanso fu comunque tale che alcune sue trovate furono effettivamente “canonizzate” all'interno dei prequel e della già citata serie di Clone Wars.

La storia si ambienta cinque anni dopo Il ritorno dello Jedi e vede la Nuova Repubblica messa in piedi dagli ex ribelli Leia Organa, Han Solo e Luke Skywalker alle prese con la difficile ricostruzione della galassia. Dai territori più remoti però, un nuovo nemico sta raccogliendo attorno a sé i resti del defunto Impero Galattico. È il Grand'Ammiraglio Thrawn, finissimo stratega, forte di alcuni importanti assi nella manica: in primis gli ysalamiri, animali in grado di inibire l'uso della Forza; poi Joruus C'Baoth, un Jedi Oscuro già asservito all'Imperatore; e infine una tecnologia che, fra apparati di clonazione ritrovati fra i cimeli dell'Imperatore e le navi della grandiosa flotta Katana (recuperate dopo essere state considerate disperse), rischiano di scatenare una nuova Guerra dei Cloni. Nella vicenda intervengono molti altri personaggi, fra i quali vale la pena segnalare quantomeno Mara Jade, ex braccio destro del defunto Imperatore, ora riciclatasi come contrabbandiere, il cui scopo è eliminare Luke Skywalker.

Appena quarantenne all'epoca del primo romanzo, Timothy Zahn aveva alle spalle già un premio Hugo e una certa nomea nell'ambito della fantascienza letteraria: il suo stile si dimostra immediatamente lineare e versatile quel tanto che basta da ricreare molto bene le interazioni fra i personaggi già noti al pubblico dei tre film sino a quel momento prodotti (Guerre stellari, L'impero colpisce ancora e Il ritorno dello Jedi). Han Solo, Luke Skywalker, i droidi C3-PO e R2-D2, Lando Calrissian e i vari personaggi già visti sul grande schermo rivivono fra le pagine dei tre romanzi con incredibile naturalezza e ognuno agisce in modo significativo per la progressione del racconto, senza limitarsi al ruolo di semplice comparsa, dando un'idea di grande compattezza al tutto: il solo personaggio di Leia Organa è caricato di un'inedita qualità ansiogena e malinconica, motivata dalla dolce attesa di due gemelli e dal rapporto per lei nuovo con la Forza (conseguente la sua scoperta, nel Ritorno dello Jedi, di essere la sorella di Luke Skywalker).

Più della familiarità del noto, però, il lavoro di Zahn colpisce per le molti innovazioni apportate al canone: totalmente privo di evidenti timori reverenziali verso la materia, l'autore americano schiva perfettamente la trappola della nostalgia spicciola e l'effetto fan-fiction, evitando di rimestare nel già fatto per aggiungere invece elementi nuovi. La prospettiva è razionalista, l'inibizione della Forza permette infatti allo scrittore di sfumare la componente più mistica per concentrarsi su un gioco di strategie che ha nell'infallibile intuito di Thrawn uno dei suoi elementi più affascinanti – il rapporto fra il Grand'Ammiraglio e il suo secondo, il Capitano Pellaeon, ricorda molto quello fra Sherlock Holmes e il dottor Watson.

La triangolazione fra la familiarità garantita dai “vecchi” personaggi e le novità apportate dai nuovi arrivati è tenuta insieme da un'attenta conoscenza degli elementi sino a quel momento noti nella mitologia di Star Wars: l'autore azzarda spunti interessanti partendo da particolari secondari delle pellicole cinematografiche per creare un affresco particolarmente avvincente. Dove inoltre Zahn si dimostra eccellente profeta è nella descrizione delle dinamiche politiche interne alla Nuova Repubblica, con i giochi di potere e le varie difficoltà nel tenere insieme i pezzi del nuovo ordine, che anticipano quanto lo stesso Lucas mostrerà nei tre prequel prodotti a cavallo del nuovo secolo (Episodio I: La minaccia fantasma, Episodio II: L'attacco dei cloni e Episodio III: La vendetta dei Sith). Zahn, insomma, dimostra davvero di aver compreso a fondo le potenzialità insite in un universo che può modularsi contemporaneamente attraverso la fantascienza, l'avventura di ribaldi contrabbandieri, il mistery, il fantasy con poteri fuori dalla sfera dell'ordinario e il thriller politico, rinnovando la sua forza di grande contenitore di storie.

La trilogia è ancora oggi molto amata dagli appassionati, che non a caso hanno per anni invocato una trasposizione cinematografica. L'ottimo lavoro di Zahn, però, funziona bene sulla carta, ma pensato in una prospettiva cinematografica denota alcuni limiti: molto dialogato e cerebrale nella guerra di logoramento fra Repubblica e Impero, il plot non indugia in molte scene spettacolari, indispensabili in un'eventuale controparte filmica. Si tratta, insomma, di un lavoro in tutto e per tutto letterario, che sfrutta appieno le potenzialità del mezzo, ma che difficilmente riuscirebbe a “uscire” dalla pagina scritta. Di certo, la prospettiva di vedere eventualmente sullo schermo un personaggio straordinario come il Grand'Ammiraglio Thrawn è di quelle che generano un comprensibile entusiasmo ed è un vero peccato che Disney non abbia preso in considerazione l'idea di recuperarlo in qualche modo nel nuovo canone.

Pubblicati in Italia da Sperling & Kupfer a poca distanza dall'uscita americana, i tre romanzi sono stati più di recente riproposti (con una nuova traduzione) da Multiplayer.it, con una veste grafica che rinuncia alle suggestive cover vintage di Tom Jung, ma propone L'erede dell'Impero in un'ottima edizione commemorativa, con tanto di note dello stesso Zahn. L'autore spiega così le scelte fatte e contestualizza i vari passaggi anche alla luce dei successivi sviluppi della saga cinematografica. Che la si consideri o meno in continuity, è una lettura che i fan della saga stellare non dovrebbero mancare.


martedì 9 giugno 2015

Il racconto dei racconti

Il racconto dei racconti

La regina del regno di Selvascura, smaniosa di un figlio, divora il cuore di un drago marino e dà così alla luce Elias. Ma anche la serva che ha cucinato il cuore per lei partorisce allo stesso tempo Jonah. Il profondo legame fra i due ragazzi è mal visto dalla sovrana.
Il re di Roccaforte è un uomo dissoluto, che brama la popolana Dora, ignaro del fatto che si tratta di una donna anziana. Ringiovanita da una strega, Dora diventa la moglie del sovrano, ma la sorella Imma si fa scorticare viva, per ritrovare la giovinezza e starle ancora accanto.
Nel regno di Altomonte, infine, il sovrano sfida i pretendenti alla mano di sua figlia a indovinare di chi sia una misteriosa pelle, appartenuta a una pulce gigante che l'uomo ha cresciuto con dedizione. A vincere la competizione però è un mostruoso orco, che così porta via la principessa...


Il tentativo ambizioso di ridurre in forma di lungometraggio tre delle molte novelle che compongono Il racconto dei racconti di Giambattista Basile, diventa nelle mani di Matteo Garrone l'occasione per una nuova ricognizione nei meandri di un'ossessione umana che ridisegna i confini del reale e il rapporto fra la concretezza del vero e il volo nel fantastico. La struttura, in fondo, non è poi tanto dissimile da quella del precedente Reality, con l'incipit che si apre sulla messinscena di uno spettacolo (qui alcuni saltimbanchi alla corte del re di Selvascura, lì un fastoso matrimonio), per poi scindere la singola ossessione del potenziale concorrente del reality show in tre vicende mosse da un'unica direttrice (l'ossessione per qualcuno/qualcosa) e in perpetuo dialogo attraverso una serie di riferimenti incrociati. A ogni azione c'è una corrispondenza, ci ricorda il negromante/anima critica del racconto e così il film corteggia costantemente il tema del doppio e della specularità fra storie che si inseguono e si accavallano, in cerca del punto di fuga che apra la “chiusura” dei singoli animi. Gli stessi regni in cui si ambientano le novelle non sono connotati da una precisa identificazione spaziale: come la Napoli di Gomorra si ha la sensazione di un universo-mondo potenzialmente senza barriere (in cui tutti i personaggi si incontrano alla fine, non a caso), dove però i confini sono delimitati dalle dinamiche “piccole” degli uomini.

L'ossessione della regina di Selvascura per il figlio Elias si rispecchia così nel legame inscindibile che spinge il ragazzo a cercare (e preferire) sempre la compagnia del fratellastro Jonas; la passionalità possessiva del sovrano di Roccaforte ha il suo corrispettivo nel desiderio di Imma di non essere abbandonata dalla sorella; il rapporto conflittuale fra il re di Altomonte e la figlia Dora incarna la doppia ossessione di un uomo morbosamente legato alla mostruosa pulce e di una ragazza che vuole a tutti i costi un marito, salvo poi ritrovarsi nella spiacevole situazione di vittima. Azione e corrispondenza non nascondono infatti la possibile deriva nell'infelicità, che prescinde da un aspetto puramente morale, tipico della fiaba, per farsi quasi racconto iniziatico di una vita “di fuori” che preme con nuove sfide e che, unica fra le tante, può impartire la necessaria lezione per affrancarsi dalla prospettiva limitata che l'ossessione offre. Così, Viola dovrà sconfiggere da sola l'Orco e si guadagnerà in tal modo un ruolo da sovrana, mentre Elias e Jonah arriveranno tanto vicino alla morte, da capire poi la necessità di un generoso gesto di separazione (e di donare l'altro agli altri).

Accanto all'aspetto puramente narrativo e tipicamente immerso nei temi cari al regista, è però interessante il più complesso lavoro di dialogo con un sistema di riferimenti che spazia dalla raffigurazione pittorica (Garrone ha chiamato in causa Goya o Caravaggio) alle dinamiche tipiche della fiaba nella sua forma più primigenia e archetipica: il fantasy de Il racconto dei racconti è infatti tipicamente figlio di una cultura che va al di là della semplice meraviglia (tipica del genere cinematografico) e, anzi, ricerca la ricaduta delle vicende più “grandi” sul corpo e sulla mente dei personaggi, destinati a patire le sofferenze delle rispettive sventure, portandone i segni nelle carni. La dinamica dell'azione-corrispondenza è resa infatti attraverso un continuo ricorso all'espediente della mutazione corporea e dell'offesa dei corpi: questo è vero sia per le stesse creature fantastiche (l'uccisione “rituale” del drago marino), sia per le figure umane, che a volte per un'azione violenta (lo sgozzamento dell'orco), altre per scelta precisa (il re che si dissangua per nutrire la pulce, Imma che si lascia scorticare), altre ancora per perpetuare una diversa immagine di sé (Dora che si tira e incolla la pelle) trova corrispondenza negli strumenti offerti dalla magia: le due donne ingravidate dal sortilegio e il ringiovanire di Dora ci dicono infatti di una realtà dove il volere (proprio o altrui) finisce per determinare lo scavalcamento fra il reale e il fantastico.

Quest'ultimo punto ci riporta a un'altra delle capacità tipiche del cinema di Garrone, quella della definizione del mondo attraverso una continua oscillazione fra il verosimile e l'impossibile: in passato, però, era spesso una capacità che, pur estrinsecandosi al mondo tutto, era sempre veicolata da una forte pulsione soggettiva. Il finale di Reality era lì a ribadire come l'immersione nella realtà-spettacolo, inseguita fin dall'inizio, restava comunque un discorso tutto interno alle percezioni del protagonista; le regole che sorreggevano l'universo di Gomorra erano comunque percepite dallo spettatore (e da alcuni isolati personaggi) come altre e avulse dalla “normalità” socialmente condivisa (tanto che il film può tuttora anche essere letto sotto una chiave grottesca, più che di precisa denuncia). Con Il racconto dei racconti è come se il regista finalmente abbracciasse l'idea di una pulsione umana che riesce a determinare oggettivamente le regole che sorreggono il mondo. Il risultato è un fantasy ben radicato nel reale e in location anche abbastanza note (si pensi a Castel Del Monte), spettacolare ma un po' “assorto” nel ritmo, eppure capace di riverberare in più occasioni un gusto visivo e una ricerca per l'invenzione anche pindarica, comunque mai fine a se stessa perché motivata da una precisa poetica narrativa e stilistica. In questo senso, Il racconto dei racconti è quasi una propaggine espansa della scena del grillo di Reality, qui richiamato proprio dalla piccola pulce che si ingigantisce fino a determinare alcuni dei destini chiamati in causa dal racconto.


Il racconto dei racconti – Tale of Tales
Regia: Matteo Garrone
Sceneggiatura: Matteo Garrone, Edoardo Albinati, Ugo Chiti, Massimo Gaudioso (dalle fiabe di Giambattista Basile)
Origine: Italia/UK/Francia
Durata: 125'


Collegati:
Reality

venerdì 27 marzo 2015

Mulberry St

Mulberry St

New York, un giorno come tanti: nella zona di Mulberry Street, a Manhattan, si incrociano le storie di alcuni abitanti di un condominio. C'è il roccioso ex boxeur Clutch, capofila della varia umanità del posto; sua figlia Casey, soldatessa in viaggio verso casa dopo essere rimasta sfregiata in Iraq; c'è Coco, drag queen locale, che porta un po' di leggerezza al contesto con la sua vivacità; l'anziano Frank, ammalato di cancro, cui bada Charlie, il tuttofare della palazzina; e poi c'è Kay, che gestisce il bar in strada e vive con il figlio Otto. Tutti restano coinvolti in una misteriosa epidemia, veicolata dai ratti del quartiere, che trasforma ogni vittima del loro morso in una belva, un ibrido uomo-ratto assetato di sangue. Le autorità dichiarano presto lo stato di emergenza e New York diventa un campo di battaglia, mentre i nostri protagonisti, guidati da Clutch, cercano di sopravvivere.


Il nome di Jim Mickle sta iniziando a ritagliarsi uno spazio importante all'interno del più recente cinema di genere americano, soprattutto in virtù della trasposizione da Freddo a Luglio di Joe Lansdale, che ha segnato per certi aspetti l'approdo a un cinema narrativamente più strutturato, sebbene sempre da considerarsi all'interno di una sfera indipendente. Mulberry St è la pellicola dell'esordio, un efficace zombie-movie riletto attraverso l'idea degli uomini-ratto e un'estetica da sottoproletariato urbano americano che ben si sposa all'impostazione da guerrilla filmmaking che caratterizza l'intera operazione.

La regia oscilla infatti tra una tensione documentarista, evidente nell'uso dei corpi attoriali privi di qualsiasi aura cool e nel modo in cui si getta a capofitto fra le atmosfere, i suoni e le pulsioni del mondo raffigurato; e poi una tendenza alla sgangheratezza da B-movie che si accompagna alla deriva più pulp della seconda parte della storia, quando emerge con più chiarezza l'idea del contagio e della proliferazione dei mostri assassini. Una natura ibrida che ritroveremo anche nelle altre opere del regista, compreso il già citato Freddo a Luglio, ma che qui più che altrove si sposa bene al desiderio di dare forma a un cinema di genere fiero di esserlo, e capace perciò di sguazzare tanto nelle pratiche più basse, quanto nell'ambizione di dare forma a un ritratto sociale che sia cartina di tornasole di un particolare momento storico.

Ciò che sembra interessare a Mickle è infatti il racconto di un tempo che scivola fra le dita e forgia in tal modo delle esistenze precarie, impegnate in una sopravvivenza continua che diventa specchio di un mondo condannato alla rovina. Il contagio che affligge New York diventa così nient'altro che la più evidente risultante di un'incapacità di tenere insieme le proprie vite tipica degli abitanti di Mulberry Street. I vari protagonisti sono infatti afflitti da una malinconia evidente, che il film elegge a linea guida restringendo sempre più il campo visivo addosso a ogni figura umana, amplificando in maniera progressiva e implacabile una situazione di assedio e di oppressione. Il vissuto stesso dei personaggi è rivelatorio: ci sono reduci di guerra, militari che recano le sofferenze sul corpo, ex atleti non realizzati e ragazze madri che si muovono in un contesto chiaramente influenzato dal clima di sfiducia post 11 Settembre, chiamato in causa non per gli eventi diretti delle Torri Gemelle, quanto per il clima di perenne tele/radiocronaca data dai costanti bollettini lanciati dai telegiornali o dalle trasmissioni che fanno il punto sull'emergenza (una mossa che, narrativamente, stabilisce anche un ponte con il capostipite La notte dei morti viventi).

La debolezza di certe raffigurazioni al limite dell'amatoriale si accompagna a tagli di inquadratura spesso sorprendenti nella loro raffinatezza, che riescono a riplasmare lentamente il mondo secondo una qualità espressionista. Gli spazi si reinventano, il fatiscente condominio diventa una trappola e i personaggi vengono immersi nei temi dominanti del verde e del rosso: la notte di fuga dai mostri diventa così un viaggio in una realtà psichedelica, illustrata con ritmi incalzanti, scanditi da un montaggio molto serrato (curato dallo stesso Mickle) e da un uso esasperato del grandangolo che genera la giusta tensione e rivela un'idea di cinema molto più definita di quanto le prime battute non facciano pensare.

Il divertimento si stempera poi nell'amarezza, mentre le varie microstorie convergono verso destini amari e privi di speranza. Un bell'esempio di quel pulp capace di oscillare fra emozioni e esiti anche diametralmente opposti, riverberando la vitalità di un genere altrove ormai troppo autoreferenziale e inerte. Anche solo vedendo questo film, si capirà bene perché Lansdale si sia affidato a Mickle per il suo lavoro.

Inedito in Italia, Mulberry St è stato proiettato al Torino Film Festival 2014 nell'ambito di un omaggio tributato al regista.


Mulberry St
Regia: Jim Mickle
Sceneggiatura: Nick Damici, Jim Mickle
Origine: Usa, 2006
Durata: 84'


venerdì 20 marzo 2015

7 anni nel Nido

7 anni nel Nido

Preceduto dal restyling del blog e dalla nuova cornice più "spaziosa" (cui, spero, si aggiungerà quanto prima il nuovo logo), il Nido ha compiuto sette anni questa settimana. Se ricorderete, ero convinto di tagliare questo traguardo già l'anno scorso e quindi ora che il momento arriva davvero mi sento particolarmente contento (poi, non so perché, il numero 7 da sempre mi dona un senso di appagamento e soddisfazione).

Di recente qualcuno mi ha anche chiesto se avessi mollato, forse anche a causa dell'effettiva chiusura del blog gemello La luna di Cybertron. In realtà, anche se gli aggiornamenti sono stati pochissimi, si va tranquillamente avanti, pur con i compromessi concessi dal poco tempo a disposizione. Dopotutto l'importante è perseverare!

Come sempre grazie a chi prova interesse nei post e nell'attività del blog in genere. Da parte mia c'è sempre l'impegno a mantenere il compromesso fra il divertimento per la scrittura, la passione per il cinema (e tutto il resto) e la serietà dell'analisi.

Buon cinema a tutti!

Collegati:
1 anno nel Nido
2 anni nel Nido
3 anni nel Nido
4 anni nel Nido
5 anni nel Nido
6 anni nel Nido

mercoledì 25 febbraio 2015

Wake in Fright

Wake in Fright

John Grant, insegnante in una scuola di Tiboonda, nel remoto Outback australiano, parte per godersi le vacanze natalizie. Si ferma così una notte nella cittadina di Bundanyabba, prima di prendere l'aereo per la Sidney, dove lo attende la sua ragazza. Qui, però, John perde tutti i suoi soldi in un banale gioco di scommesse: impossibilitato a proseguire il viaggio, viene così risucchiato nella vita locale, fra ubriacature, battute di caccia ai canguri, scazzottate e la compagnia di Doc Tydon, un medico alcolista lucidamente dedito all'autodistruzione. Una discesa nel degrado fisico e mentale porterà il sempre più sconvolto John a un passo dalla follia.


Peter Weir, Fred Schepisi e Bruce Beresford lo considerano un film seminale per come ha raffigurato, seppur a tinte forti, un certo sentire australiano sul grande schermo, favorendo di fatto l'idea di una cinematografia locale, quasi del tutto inesistente al giro di boa fra gli anni Sessanta e Settanta. Il bello di Wake in Fright, però, è che a una tale certezza identitaria corrisponde una natura assolutamente transnazionale, con una coproduzione fra l'australiana NLT e l'americana Westinghouse Broadcasting Company (entrambe attive più che altro sul mercato televisivo), e una realizzazione affidata a maestranze aussie e protagonisti inglesi (Gary Bond e Donald Pleasence). La regia è poi di Ted Kotcheff, filmmaker di origini bulgare, cresciuto artisticamente nella televisione canadese. Noto ai più per il successivo exploit di Rambo, Kotcheff riflette nel suo cinema la propria condizione di figlio di immigrati, raccontando il disagio di personaggi in perenne fuori sincrono rispetto al mondo cui vanno incontro. Il John Grant qui raffigurato non fa eccezione e la sua odissea è resa più potente dalla dinamica di attrazione/repulsione che scontorna i confini del reale e apre la struttura del racconto a pulsioni visionarie e ossessive.

Una carrellata circolare apre il film e ne racchiude il senso, sintetizzando metaforicamente il “girare in tondo” di un protagonista prigioniero di una perenne coazione a ripetere gesti che annullano progressivamente la sua volontà e lo status di intellettuale, spingendolo ad abbracciare la forza selvaggia dell'Australia più nascosta e vicina alle asprezze visive dell'Outback (proprio Outback è il titolo usato in America e Inghilterra). Kotcheff lascia abilmente che la discesa agli inferi di Grant sia a un tempo eterodiretta dagli eventi e dai personaggi con cui lo stesso viene a contatto, ma anche provocata da una sua risoluta voglia di non allinearsi razionalmente ai comportamenti di una realtà da lui percepita come rozza e altra, in un palleggio fra perenne ingenuità e snobismo. Il confronto con l'altrettanto colto Tydon - che diversamente da lui accetta la propria condizione di alcolista e dissoluto, perseguendola scientemente - permette al suo dramma di emergere con maggior forza.

La struttura visiva segue questa continua dinamica di allontanamento e vicinanza, e rende i personaggi quasi una propaggine visiva dell'ambiente circostante, attraverso un'omogeneità cromatica che predilige tinte calde, dove prevalgono i motivi del giallo, dell'arancio e del verde più scuro. La regia, dal canto suo, elabora continuamente soluzioni visive che riverberano il clima decadente eppure grandioso di certo tardo western italiano e americano (da Leone a Monte Hellmann) e, allo stesso tempo, le pulsioni della New Hollywood ancora in fieri negli stessi anni, con un'immersione piena fra i corpi e i volti della gente, in grado di spezzare (e pure esaltare) la ieraticità brulla del paesaggio. La narrazione si riduce perciò al minimo, non tenta di dare oltremodo spessore ai personaggi e ai loro trascorsi e preferisce offrire spazio alle azioni e agli stati d'animo più estremi che l'avventura lascia affiorare in superficie.

Quello cui perciò si assiste è un linguaggio fatto di corpi che si cercano e si confrontano, attraverso la condivisione di precisi rituali (le scommesse, le infinite bevute di birra), un ostentato cameratismo (e altruismo), fino al contatto fisico più ruvido, evidente nelle scazzottate che, come un'autentica deflagrazione di follia, portano a sfasciare l'ambiente circostante in un tripudio di risa isteriche. La natura sostanzialmente altra di Grant è sottolineata dal confronto fra la sua fisicità efebica e la ruvida carnalità della gente locale, sempre pronta a elargire strette di mano energiche e contatti dal sapore via via sempre più marcatamente sessuale (con riferimento tanto alla giovane ninfomane Janette, quanto all'implicito momento omoerotico fra Grant e Tydon dopo l'ennesima notte di bagordi).

Il tutto trova la sua sublimazione nella terribile sequenza della battuta di caccia ai canguri (effettuata in realtà da professionisti), che davvero segna il momento di immersione più oscura nella follia umana, ma anche nel particolare abbraccio fra questi personaggi e la terra che li circonda, ancora una volta tra condivisione e distruzione. L'assurdo confronto uno-a-uno fra l'uomo e il canguro diventa così l'autentico simbolo visivo del film.

Sebbene la produzione spingesse per un taglio più exploitation, Kotcheff coglie il potenziale autoriale della storia e tara la narrazione sulla tonalità isterica e grottesca garantita dalla continua ilarità dei protagonisti: ottiene in tal modo un racconto ribollente di energia, e allo stesso tempo terribile e incredibilmente grottesco. Una scelta che garantisce i necessari sprazzi di visionarietà, garantiti da un montaggio quasi subliminale negli inserti di follia che attraversano Grant durante e dopo i momenti di black-out, con il repentino miraggio di felicità garantito dalle visioni della fidanzata lontana.

Considerato oggi un classico per la sua potenza espressiva, Wake in Fright è stato per anni un autentico film fantasma: la presentazione al Festival di Cannes non lo ha infatti salvato dall'iniziale ostracismo di un pubblico locale che non si riconosceva nel ritratto iperrealista portato avanti dal racconto – e che, suo malgrado, ha effettivamente finito per determinare una certa estetica un po' stereotipata dell'australiano rozzo e scolabirra. Complice il lavoro del montatore Anthony Buckley, che ha rintracciato i materiali originali dopo vari decenni, il film è stato però recuperato e restaurato dopo un lungo oblio, riguadagnando il posto che gli spetta. In Italia resta purtroppo inedito.

Questo resoconto è condotto a partire dall'ottima edizione Blu-Ray inglese della Eureka Entertainment.


Wake in Fright
Regia: Ted Kotcheff
Sceneggiatura: Evan Jones, dal romanzo di Kenneth Cook
Origine: Australia, 1971
Durata: 119'