"C'è chi crede in dio o nel denaro. Io credo nel cinema, nel suo potere. L'ho scoperto da ragazzino, mi ha aiutato a fuggire da una realtà in cui ero infelice. È una delle forme d'arte più alte che l'uomo ha concepito. Credo nel suo futuro."
(John Carpenter)

mercoledì 25 agosto 2010

Yamato Takeru/Orochi

Yamato Takeru/Orochi

Il principe Ousu nasce come secondo di una coppia di gemelli e per questo la sua figura è presaga di sventure per la famiglia reale di Yamato. Viene per questo dapprima allontanato e poi riammesso a corte dove si rende però responsabile della morte del fratello a causa di un misterioso potere distruttivo che alberga nel suo cuore e che si libera nei momenti di crisi. Ousu è infatti visto come una minaccia dallo stregone di corte, che esercita grande influenza sul sovrano. Inviato a contrastare un feudatario ribelle, Ousu riceve da questi il nome di Yamato Takeru (“eroe di Yamato”). Nel suo destino è inoltre scritto che gli dei lo hanno scelto per affrontare il ritorno del dio Tsukiyomi, esiliato dalla Terra e pronto a scatenarsi nella forma del drago a otto teste Orochi.

La forma probabilmente più nota in Italia del drago a otto teste Yamato no Orochi è quella della spaventosa astronave della Regina Himika nella serie animata Jeeg Robot – Uomo d’acciaio: si tratta però soltanto di uno dei tanti segni che hanno reso la leggenda del drago e quella dell’eroe Yamato Takeru (in verità alquanto distinte) popolari attraverso i secoli e capaci di riverberarsi e mutare alla luce di istanze sempre differenti, tanto da costituire fertile materia per trasposizioni di vario tipo.

Il film realizzato dalla Toho nel 1994, attraverso lo stesso staff che si occupava all’epoca dei kaiju eiga è stato lanciato in Occidente (in Italia è però inedito) ponendo furba enfasi sul mostro, relegando dunque l’eponimo eroe a un ruolo di sfondo, ma in realtà la pellicola è da ascrivere più al fantasy che alla sci-fi, dal momento che il suo approccio oscilla fra l’epica meravigliosa e lo spettacolo grandioso, dai risvolti un po’ kitsch, secondo una direttrice ascrivibile a certe opere del decennio precedente. In questo, Yamato Takeru conferma in effetti di essere un film a cavallo fra istanze difformi, similmente a come sempre accade al Mito che passa necessariamente attraverso continue rimodulazioni ed esiste in quanto racconto interstiziale, capace di abbracciare epoche, fonti e rinnovamenti continui.

Ecco dunque che, più della facile catalogazione in questo o quel settore, ciò che più interessa in questa sede è rimarcare alcuni aspetti precipui di un progetto senz’altro affascinante, commercialmente anche sfortunato (era stato pensato come capostipite di una serie poi abortita) e in grado di reggere sicuramente la visione anche da parte di un pubblico che non conosce a menadito le fonti, poiché la narrazione è lineare e si premura di spiegare e tracciare i confini all’interno del quale l’avventura si andrà snodando.

Si scriveva poc’anzi della differenza semantica fra il titolo originale e quello occidentale, che sposta l’attenzione sull’eroe o sul mostro: in effetti qualcosa di simile avviene anche all’interno del racconto, dove il principe Ousu appare un protagonista afflitto da una perenne indeterminatezza. La sua storia non è soltanto il semplice percorso di formazione di un eroe che deve trovare se stesso superando varie prove, ma quello di un uomo “a metà” (non casualmente è il secondo di due fratelli) che riesce a raggiungere la propria completezza solo attraverso l’interazione con una controparte, riverberando in questo senso il dualismo alla base di concetti come yin e yang. La sua “metà” arriva così a incarnarsi nella compagna Oto Tachibana, che conferisce alla storia un punto di vista femminile attraverso la figura di un’eroina non passiva, ma invece attiva rispetto alle minacce che l’eroe deve affrontare.

La componente affettiva, sebbene mai destinata a sfociare nel mero sentimento, riesce a ispessire una vicenda che in effetti si snoda all’interno di uno schema totalmente immerso nei legami familiari, dove anche gli elementi apparentemente esterni (come può essere la figura dello stregone) vengono in realtà ricondotti a “parte di sé” (l’uomo nasce infatti da una zanna di Orochi) e quindi testimoniano ancora una volta la natura intestina del conflitto. D’altronde Yamato Takeru è storicamente una figura che si pone come simbolica di un processo di unificazione del Giappone dalla creazione del primo protostato di Yamato in poi.

Il resto è pura avventura, infarcita da effetti speciali molto spettacolari che solo in alcuni casi indulgono nelle dinamiche del kaiju-eiga (pensiamo alla mutazione finale di Takeru e Oto, che ricorda certe creature roboticheggianti del tokusatsu, la fantascienza seriale televisiva). Su tutto resta comunque l’ombra di un lavoro che, nella propria aderenza totale al Mito, manca di alcuni guizzi capaci di testimoniare un’impronta che vada al di là dell’approccio meramente industriale. Un interessante paragone, in questo senso, si può muovere con il coreano Pulgasari, che nasce come prodotto dichiaratamente propagandistico, ma si dimostra invece capace di assorbire spunti personali che rendono l’insieme composito e foriero di spiazzanti derive. In questo senso Yamato Takeru condivide con il suo protagonista un percorso preordinato dall’alto, dove il punto d’arrivo è la ricomposizione di un’armonia universale dove lo spazio personale è ricondotto alla sola accettazione del proprio ruolo.

Yamato Takeru/Orochi the 8 Headed Dragon
Regia: Takao Okawara
Sceneggiatura: Wataru Minura
Origine: Giappone, 1994
Durata: 105’

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