"C'è chi crede in dio o nel denaro. Io credo nel cinema, nel suo potere. L'ho scoperto da ragazzino, mi ha aiutato a fuggire da una realtà in cui ero infelice. È una delle forme d'arte più alte che l'uomo ha concepito. Credo nel suo futuro."
(John Carpenter)

giovedì 31 dicembre 2009

2010: dall’odissea al contatto

2010: dall’odissea al contatto

Il primo pensiero relativo al 2010 riguarda il… 2001: non sono un kubrickiano come la stragrande totalità dei cinefili, ma, in quell’anno così atteso, l’occasione di vedere Odissea nello spazio su grande schermo (in un cinema che oggi non esiste più) non me la lasciai certo sfuggire! Ora che siamo arrivato al 2010 del sequel (L’anno del contatto) quasi non sembra vero che sia passato già questo decennio il cui inizio è stato segnato dalle nefaste profezie del Millennium Bug (poi rivelatosi una enorme bolla di sapone) e dagli ancor più nefasti (e quelli sì, reali) eventi dell’11 settembre americano: c’è poco da fare, il decennio è davvero iniziato nel 2001 anche se tutti lo abbiamo accolto un anno prima.

E quindi ora, quando sarebbe tempo di bilanci, preferisco lasciare agli altri il piacere delle classifiche e delle riflessioni su ciò che il cinema (e non solo) ci ha dato in questo intervallo di tempo: così come è iniziato in ritardo, dopotutto, il decennio avrà bisogno ancora di un po’ di tempo per essere assimilato a dovere e permetterci di trarre le doverose conclusioni. Ma soprattutto è bello pensare di essere immersi non in una serie di blocchi temporali scanditi dalla semplice data del calendario: se il 2010 deve essere l’anno del contatto, che lo sia come naturale prosecuzione del buono che si è visto finora in sala, aprendo la strada a nuove vie, in un fitto reticolo di emozioni che rinnovino il piacere della visione e della scoperta. E’ per questo che era importante assistere alla proiezione di 2001 e per lo stesso motivo oggi siamo pronti a stupirci di fronte al prossimo evento annunciato: ognuno scelga liberamente il suo, personalmente punto la mia attenzione su Avatar, che spero potrà trovare spazio fra le memorabilia del Nido.

Nell’attesa, ovviamente, auguri di Buon Anno a tutti!

giovedì 24 dicembre 2009

Vorrei cantare insieme a voi…

Vorrei cantare insieme a voi…

Come scrivevo un anno fa, il Natale è anche (e per quanto mi riguarda soprattutto) un momento che ha fortemente a che fare con l’iconografia: accanto al sentimento religioso su cui la ricorrenza si fonda (a prescindere che ci si creda o meno) esiste infatti una componente squisitamente visiva, fatta di immagini, volti, riti e suoni, che permette a questo particolare periodo dell’anno di riverberare la propria specificità e di produrre in qualsiasi individuo l’istintiva associazione mentale con l’arrivo delle Feste: è quella che poeticamente si chiama anche “aria di Natale” e che è sapientemente gestita da un complesso meccanismo di propaganda che nell’era mediatica si mescola in modo inestricabile con la tradizione.

Pertanto, per le generazioni più recenti, cresciute dopo il boom del mercato televisivo e l’avvento delle emittenti private, l’Aria di Natale non è data soltanto dalle iconografie più consolidate e “materiche” (Presepe, Albero, regali, cartoline e via citando), ma anche e soprattutto da una serie di visioni veicolate dal piccolo schermo: altre figure, altri suoni e, ovviamente, anche storie. Basti pensare, ad esempio, all’eterna riproposizione di quelli che sono diventati veri e propri classici della programmazione di fine anno come Hollywood Party di Blake Edwards o Una poltrona per due di John Landis.

Premessa necessaria per evidenziare come lo spazio delle Visioni dalla Rete durante queste feste rimarrà occupato dalla pubblicità della Coca-Cola che negli anni Ottanta è diventata simbolo stesso dell’arrivo delle feste (a questo proposito sono illuminanti molti commenti presenti nella pagina YouTube del video). Un gruppo di ragazzi, di notte, in una notte e un luogo non meglio precisati, canta (doppiato) una canzone di facile presa nell’immaginario collettivo, alla luce di candele che illuminano l’oscurità: l’inquadratura, allargandosi, rivela poi la disposizione a triangolo del gruppo, subito sormontata da loghi che trasformano l’immagine in quella di un poetico albero di Natale. Il look degli astanti rimanda a un certo immaginario anni Settanta (seppure non totalmente appiattito sull’iconografia hippy), insieme alla fotografia molto essenziale.

L’impressione che si ricava dalla visione è quasi che la sequenza non nasca esplicitamente per una pubblicità natalizia, ma sia stata invece espunta da un qualche altro contesto e ricondotta surrettiziamente allo scopo (anzi, se qualcuno ha informazioni a proposito, è il benvenuto). L’effetto è per certi versi straniante, ma risulta anche affascinante, soprattutto in virtù della capacità da sempre dimostrata dalla nota bevanda americana di modulare a suo uso e consumo l’immaginario.

Il che naturalmente conduce a una più ampia riflessione sul labile confine esistente fra la tradizione che codifica l’immaginario e lo sfruttamento anche spregiudicato che si fa dello stesso in nome di ragioni puramente economiche: lo spot di una bevanda diventa quindi esso stesso elemento in grado di creare l’atmosfera natalizia e dunque, pur non rinnegando la finalità commerciale, la sopravanza scaltramente per diventare invece “elemento iconografico” tout-court.

Naturalmente questo meccanismo risulta oltremodo inquietante, soprattutto se poi andiamo a considerare la famosa leggenda urbana in base alla quale l’aspetto iconografico di uno dei principali simboli natalizi, ovvero Babbo Natale, sarebbe stato forgiato dalla stessa Coca-Cola. La leggenda nasce in seguito alla grande capacità di penetrazione nell’immaginario che negli anni Trenta ebbero alcune illustrazioni pubblicitarie dell’artista Haddon Sundblom, il quale, sfruttando effettivamente i colori simbolo della bevanda (il rosso con rifiniture bianche) contribuì a fissare l’immagine di Babbo Natale, fino a pochi anni prima ancora discordante tra varie versioni di tinte differenti. Un’analisi più approfondita rivela comunque come Sundblom si sia rifatto a una iconografia comunque già alquanto codificata e che, dunque, non abbia “inventato” nulla, al massimo abbia solo contribuito a consolidare un’immagine certamente preesistente: ma l’ipotesi che il Natale sia principalmente (se non soltanto) il frutto di una spregiudicata operazione di marketing resta ugualmente viva e inquietante.

Nulla di cui stupirsi, però, considerando la particolare essenza del Natale, caratterizzato da una grande liberazione dei sentimenti, ma anche da una estrema ritualità che riverbera naturalmente l’artificio della rappresentazione: verità e bugia insieme, quindi, tali da rendere la festa un momento ambiguo, ma esplicito nella sua finzione. Un doppio binario che questo spot, per quanto scritto, riesce a sintetizzare in modo mirabile.

Buone Feste a tutti!

La pagina YouTube della pubblicità Coca Cola anni Ottanta
Babbo Natale su Wikipedia
Haddon Sundblom su Wikipedia
Coca Cola ha inventato l’immagine di Babbo Natale? (in inglese)
Coca Cola e il Natale (in inglese)

martedì 15 dicembre 2009

Tetro (Segreti di famiglia)

Tetro (Segreti di famiglia)

Prossimo ai 18 anni, Bennie giunge a Buenos Aires e, in attesa che la nave da crociera su cui presta servizio finisca le manutenzioni, si reca a casa del fratello Tetro che non vede da molti anni. Tetro, infatti, ha rotto ogni contatto con la famiglia in seguito a un violento litigio con il padre Carlo, direttore d’orchestra di fama internazionale. Bennie però conserva una lettera nella quale il fratello dichiarava che un giorno sarebbe tornato a prenderlo: una promessa evidentemente dimenticata, dal momento che Tetro accoglie l’arrivo del ragazzo con malcelata insofferenza. Per Bennie il rapporto che si va ricostruendo sarà foriero di rivelazioni circa la sua famiglia e i segreti sepolti nel passato.

Partiamo da una constatazione: Francis Ford Coppola è avanti. Il suo cinema apre prospettive vertiginose - e inafferrabili alle prime visioni - anche quando apparentemente racconta storie semplici. Con un simile presupposto appare immediatamente riduttivo condurre questo Tetro (titolo evocativo e d’impatto, nettamente preferibile a quello italiano) al livello di semplice vicenda in odore di autobiografismo, essendo Coppola figlio di un direttore d’orchestra - peraltro molto meno famoso dell’immaginario Carlo interpretato con fare sornione dall’ottimo Klaus Maria Brandauer. Ma comunque una tale lettura, su cui molte interpretazioni critiche hanno insistito, centra sicuramente il doppio binario sul quale il film, costruito attraverso una serie di dicotomie e sovrapposizioni, costantemente corre, ovvero quello del dramma familiare e dell’arte come cartina di tornasole per raccontare la vita e dare forma a un universo.

L’intera pellicola è quindi finalizzata alla messinscena di una realtà fittizia dove l’arte si fa veicolo di comunicazione e rivelazione delle dinamiche interpersonali e dei sentimenti celati nell’animo dei personaggi. Ciò avviene in modo interno al racconto, quando Tetro punisce se stesso isolandosi e negandosi allo stesso tempo il dono della scrittura (nel quale pure eccelle), oppure quando vediamo il padre usare la musica, suonata sul pianoforte di casa, come veicolo di seduzione per orchestrare quella trama che porterà il figlio a rompere definitivamente con lui. Ma c’è anche un secondo livello, esterno al racconto, attraverso il quale questa dinamica cara a Coppola si realizza, e che diviene pretesto per una riflessione sui linguaggi stessi della narrazione cinematografica, intrecciati e manipolati per creare un sistema di riferimento ad ampio raggio che ci dice della complessità visiva del film. Abbiamo così una prima parte più libera, che sembra rifarsi a certi moduli espressivi delle telenovelas brasiliane e affastella ironia e dramma, che confluisce in una seconda parte più evidentemente drammatica e a un passo dalla tragedia.

In entrambi i casi domina una qualità espressionista dell’immagine, attraverso un bianconero fortemente evocativo che esalta in modo particolare l’idea della rappresentazione scenica, quando i personaggi allestiscono i loro spettacoli che pure danno forma a momenti di snodo importante e, soprattutto nel caso del finale, costituiscono anche un momento di rivelazione e ricapitolazione degli aspetti nodali delle loro vite. Ma anche la realtà esterna al set non manca di creare i suoi elementi su cui far rimbalzare la narrazione: ad esempio il premio letterario sfoggiato dalla critica Alone, riproduce un ghiacciaio che sembra rimandare a quello reale, eppure così evidentemente fittizio, scenico, che Tetro e la sua famiglia costeggiano in auto, mentre si dirigono nella località festivaliera dove si giocherà la partita finale. In questo senso Coppola dimostra di aver metabolizzato la lezione del “fantastico reale” alla base di tanti capolavori del cinema di Powell & Pressbuger, omaggiati esplicitamente nel corso del racconto.

La contrapposizione con i flashback familiari a colori, però, contribuisce a ricondurre gli stilemi dei maestri inglesi nell’alveo dell’autentico cinema coppoliano: il film in questo modo crea infatti una sovrapposizione con Rusty il selvaggio, che il regista americano aveva girato nel 1983. Un’opera fondamentale e pure giocata sul contrasto bianconero/colore per dare vita a una dicotomia fra un presente nel quale i protagonisti risultavano immobilizzati dalle proprie dinamiche e un altrove nel quale fuggire per trovare (forse) la propria liberazione. In Tetro, invece, la contrapposizione investe un raggio d’azione più ampio e mette in relazione un passato a colori dove i sentimenti (negativi) si muovono in maniera evidente fino a portare alla deflagrazione, e un presente basato invece sulla rimozione della verità, incarnata da un coprotagonista (Tetro, appunto) reticente e rassegnato al silenzio.

Il personaggio, interpretato ottimamente da Vincent Gallo, rappresenta così una sorta di Rusty James cresciuto e disilluso (e non a caso la prima scelta di Coppola era proprio quella di Matt Dillon, che aveva interpretato il film del 1983). E’, insomma, un Rusty James inesorabilmente scivolato fino a sovrapporsi al fratello Motorcyble Boy, è fuggito come lui, ma non ha trovato la quadratura della sua vita che invece toccherà al fratello rivelare. D’altronde, nonostante il titolo gli neghi il ruolo da protagonista, è Bennie il vero deus ex machina del film, guida dello spettatore e motore dei principali snodi della storia, fino alla risoluzione finale. E proprio nello scarto che determina lo scivolamento del ruolo di protagonista fra i nuovi Rusty James e Motorcycle Boy (ovvero Bennie e Tetro), il film pulsa di quel lirismo che lo rende estremamente magnetico e magico. Il personale percorso di formazione di Bennie coincide così con la creazione dell’universo che la storia racconta fino allo sbocco finale. E nel raccontare l’ultima parte, come già avvenuto in passato (pensiamo al Padrino parte III), Coppola dà fondo alla sua grandiosità di regista sinfonico, regalando al film la sua scena madre, come si conviene a ogni grande spettacolo.

Segreti di famiglia
(Tetro)
Regia e sceneggiatura: Francis Ford Coppola
Origine: Usa, 2009
Durata: 127’

Sito ufficiale (in inglese)
Tetro sul sito della BiM
Intervista a Francis Ford Coppola
Trailer originale (HD)
Tetro: sequenza d’apertura

venerdì 11 dicembre 2009

L'uomo nero

L’uomo nero

Gabriele torna in Puglia per dare l’ultimo saluto al padre morente: il ritorno in quei luoghi gli fa tornare alla mente la sua infanzia, vissuta all’ombra di un genitore frustrato per le sue velleità artistiche mai appagate e che si era infine convinto a realizzare una mostra dei propri quadri. Il fiore all’occhiello dell’evento doveva essere una curata riproduzione di un quadro di Cezanne esposto alla Pinacoteca di Bari. Nel frattempo Gabriele si divideva fra le scorribande con l’amico Bruno e la paura per un misterioso “uomo nero” che aveva incontrato per caso mentre giocava a nascondino. La visita finirà comunque per rivelare a Gabriele il segreto a lungo nascosto dal padre.

Arrivato al decimo lungometraggio da regista, Sergio Rubini si conferma un anomalo caso di “milite ignoto” del cinema italiano, capace di penetrare l’indifferenza generale unicamente come attore, ma non come autore. E’ un peccato perché la sua filmografia da director, stante alcuni momenti di stanca o qualche deviazione non riuscita (si vedano il farsesco Prestazione straordinaria e il penultimo, velleitario, Colpo d’occhio) rappresenta per il resto una delle nostre realtà più felici, carica com’è di un afflato vitalistico che riesce a catturare colori e sapori del meridione italiano esplorandone a un tempo le contraddizioni umane, fatte di un certo immobilismo dei gesti e delle ritualità, e una componente più misteriosa, selvaggia e quasi magica che rende quei luoghi così scarni capaci di aprirsi a contaminazioni con il fantasy (lo splendido L’anima gemella).

In questo personalissimo percorso, L’uomo nero giunge come un inaspettato punto di arrivo, che rivela l’ormai raggiunta maturità e consapevolezza dell’autore pugliese: scambiato erroneamente per una commedia o magari per un affresco storico-sociale sulla falsariga dei kolossal di Giuseppe Tornatore, il film è invece ancora una volta una sorta di favola che racconta il ritrovarsi di un protagonista attraverso il confronto con le proprie radici e la propria terra. Quello del ritorno a casa, peraltro, è un topos abbastanza comune nelle opere di Rubini (pensiamo all’inizio de La terra), che qui si ritaglia anche il ruolo del capostazione, come a voler tornare agli albori della sua produzione, a quel La stazione che a cavallo fra gli anni Ottanta e Novanta inaugurò la sua carriera di regista.

Si parte dunque dalla memoria, dal conforto del noto, ma si arriva a un risultato complesso, magmatico, stilisticamente sorvegliato e costruito attraverso la contrapposizione fra una realtà generale, che sembra definirsi unicamente nell’evidenza dei suoi toni uniformi, e una serie di umori molto vari che corrono invece sottotraccia, e si palesano soltanto a uno sguardo più attento e obliquo. Esattamente come accade con la grande varietà di colori celati dal paesaggio apparentemente bicromatico che Gabriele e suo padre Ernesto vedono dal finestrino del treno che li conduce a Bari. E’ proprio Ernesto a evidenziare, invece, la grande varietà di tinte che si nascondono e si mescolano in quello scorcio di terra, a formare un sorprendente impasto di tonalità.

Il film in questo senso procede lungo il tentativo di rompere il guscio di ovvietà insito in una realtà che si bea della propria stolidità e dei propri pregiudizi. La spinta, prima ancora che sociologica, è umana e trova la sua ragione d’essere nella frustrazione che domina Ernesto e nel perenne disagio che invece accompagna proprio il piccolo protagonista Gabriele: un dolore, quest’ultimo, incarnato poi dalla figura dell’Uomo Nero (la cui identità verrà svelata solo nell’ultima parte del film). Rubini però evita la facile contrapposizione dicotomica, lavorando anzi sulla negazione del controcampo, in una particolare alchimia che lascia spazio all’ignoto e al fantastico (in ossequio alla prospettiva infantile offerta da Gabriele) e nega invece la visione dell’arte, evidentemente relegata a un fuggevole obiettivo perseguito dai “grandi” e che Gabriele dichiaratamente non riesce a capire.

Così, non vediamo il quadro di Ernesto prendere forma, ma è soltanto il retro della sua cornice a riempire l’inquadratura, mentre centrale sotto l’obiettivo è l’insieme dei sentimenti che investono lo stesso pittore fallito nella creazione della sua opera; non vediamo il film che i parenti e gli amici riuniti seguono in televisione, lo sguardo si posa invece sui gesti passionali che coinvolgono lo zio Pinuccio e una delle convenute: l’arte assume dunque il ruolo di cascame da museo, di chimera da inseguire, ma anche di elemento accentratore, distogliendo lo sguardo dal quale è invece possibile cogliere la complessità e la varietà di quei colori e umori nascosti da una realtà stolida dentro cui si agitano energie divergenti e passionali.

Tutto questo trova poi sublimazione nelle visioni di Gabriele, capaci a un tempo di traslare i sentimenti che legano il bambino alle persone che lo circondano, ma anche di rivelare una volta di più l’incredibile varietà di forze che agiscono fra le pieghe della realtà. Qui Rubini dà sfogo alla sua vena più lirica, assecondando una precisa richiesta di meraviglia che il suo cinema gli porge e che lo avvicina ai grandi poeti del reale del nostro cinema, da Sergio Citti al Luigi Comencini di Pinocchio. Ecco dunque Gabriele scoprire attorno a sé la presenza di spiriti del passato, come quello di un barbuto Cezanne che, sfruttando le fattezze di suo zio Pinuccio (un Riccardo Scamarcio che rinnova la sua ottima mimica lasciata presagire in Verso L’Eden, di Costantin Costa-Gavras), si lancia poi in folli salti dal sapore chiaramente chapliniano.

Possiamo dunque vedere L’uomo nero come il semplice racconto di un bambino alle prese con il primo amore e una famiglia difficile, ma anche come un mosaico più complesso, che trova infine la sua quadratura nella scoperta della grande burla commessa dal padre ai danni dei compaesani: un momento anch’esso magico per come riesce a scompaginare le carte del racconto rivelando un sistema di riferimenti completamente opposto a quello creduto sino a quel momento, dove gli esperti d’arte si riveleranno per gli inetti che sono e il vessato capostazione come un gran furbone che aveva invece capito tutto e ha messo in scena la sua vendetta. Perché in fondo questa realtà mobile nella sua immobilità non accetta di essere scoperta nelle sue contraddizioni, non concepisce gli scatti d’ira che accomunano ad anni di distanza Ernesto che si scaglia contro i suoi ospiti e Gabriele che vorrebbe accusare di viltà chi viene a rendere omaggio alla salma di quel padre che in vita aveva insultato e deriso. In una realtà così, in fondo, si può agire soltanto sottotraccia, per avere il diritto all’ultima risata.

L’uomo nero
Regia: Sergio Rubini
Sceneggiatura: Domenico Starnone, Carla Cavalluzzi e Sergio Rubini
Origine: Italia, 2009
Durata: 115’

Sito ufficiale
Intervista al regista e al cast
Trailer de L’uomo nero

sabato 5 dicembre 2009

Nemico pubblico

Nemico pubblico

Vita, fortune e caduta di John Dillinger, gangster ai tempi della Grande Depressione: diventato il più ricercato criminale d’America, Dillinger di fatto costringe J. Edgar Hoover del Bureau of Investigation a incaricare l’agente Melvin Purvis di mettere in piedi una squadra speciale, primo nucleo di quello che diventerà l’FBI. Nel frattempo il gangster continua la sua corsa, rapinando banche a tempo di record, conquistando il cuore della guardarobiera Billie Frechette e attirando le simpatie del popolo, affascinato dai suoi modi da gentiluomo.

Fa bene il titolo a rimarcare immediatamente la natura “pubblica” del personaggio Dillinger. Perché, sebbene i costumi e la matrice storica possano far pensare diversamente, questo è un film sulla contemporaneità, stilisticamente (per l’uso ancora una volta congruo dell’HD) e filosoficamente: d’altronde il cinema di Michael Mann è così, mette in scena elementi apparentemente netti, per poi lavorare sui piccoli scarti che aprono voragini (e vertigini) di senso. Il biopic diventa quindi altro da sé, esattamente come accaduto in passato, con Alì, e il personaggio di Dillinger diventa icona, ma anche uomo. Non che poi ci sia chissà quale differenza fra le due dimensioni, quella personale e quella pubblica, in un gangster che pensa per sé, cerca il successo, lo “prende” con la stessa ruvidezza con cui costringe l’amata Billie a lasciare il suo lavoro, ma allo stesso tempo è consapevole del favore che riscuote sempre più presso la gente, quella cui riconsegna i soldi durante le rapine, comportandosi scaltramente come tardo archetipo del bandito gentiluomo. Ecco, in questo senso, Dillinger è tanto uomo quanto attore di un copione preordinato e che, in uno straordinario cortocircuito fra verità e finzione vede la sua vicenda reale concludere il film con la morte fuori dal cinema, dopo la visione/rispecchiamento in una pellicola di gangster.

Michael Mann in questo è bravo a mantenere il racconto in equilibrio fra dimensioni diverse e spesso contrapposte, riuscendo a elaborare il concetto di dicotomia come forse pochi registi erano riusciti sino ad oggi a fare: pubblico e privato, guardia e ladro, uomo e personaggio… il film è costruito su uno schema quasi geometrico per tutte le contrapposizioni che mette in campo, ma queste alla fin fine sono unicamente strumentali all’esplorazione della zona intermedia che divide gli opposti e che regala gli slanci più lirici e sorprendenti del film. Ad esempio in quella sequenza stupendamente e puramente cinematografica in cui Dillinger visita il centro nevralgico delle indagini, quell’ufficio dei Federali dove nessuno lo riconosce e che Mann esplora con lui, in una sospensione onirica di rara forza espressiva.

D’altronde è lo stesso momento, nel film, in cui si ha quasi la sensazione che la storia possa deviare dal suo percorso scritto e che Johnny possa realmente risorgere dalle sue ceneri, dopo l’arresto e la consapevolezza di essere ormai inviso a un sistema criminale contiguo a quello legale: un nuovo colpo è in programma, l’unione con Billie è ancora salda, forse non tutto è perduto, l’icona pubblica ha ancora una sua incorporeità che è quella dell’uomo comune, che non riconosci per la strada o nei luoghi pubblici dove pure è l’unico a non voltare la testa, godendosi il suo essere contemporaneamente il fulcro della scena, ma anche l’elemento di sfondo, praticamente invisibile.

La dicotomia classica fra la guardia e il ladro diventa così residuale, sebbene veicolo di potenza espressiva grazie all’attenta calibratura degli elementi, fra una banda di “nemici” che, eccezion fatta per lo stesso Dillinger ovviamente, contempla elementi non troppo carismatici, preoccupati di mascherarsi da rappresentanti di calzature e di passare inosservati; e un gruppo di poliziotti ruvidi e alla bisogna violenti, ma che trovano nell’incedere inquieto e inquietante di un Christian Bale al massimo delle sue capacità espressive il loro fulcro. Anche qui Mann lavora di increspature, mostrando un altro personaggio pubblico, il cui lavoro deve legittimare la nascita dell’FBI e perciò non ammette errori, ma è pure viziato dall’inesperienza.

A fronte di un Dillinger eroe e dannato, perciò, Melvin Purvis è un personaggio meno trasparente, è il Dottor Jekyll che rivela le sue incoerenze davanti a Mister Hyde: non è un caso se, diversamente da Johnny, avrà bisogno di ricorrere all’inganno e al tradimento per fermare il nemico. Purvis dimostra così una contiguità con quel perverso ingranaggio di potere e illeciti che domina tanto l’apparato statale quanto quello criminale.

Si realizza in questo modo un particolare rovesciamento dei presupposti canonici del genere, che si pone al contempo in continuità e in disaccordo con il ritratto sociale veicolato dal precedente Miami Vice: i criminali glamour che si recano a Cuba per un drink e conducono una vita di lussi sono più vicini al desueto gangster romantico o al cinico poliziotto, pronto a tutto pur di vincere la sua battaglia e regalare in tal modo prestigio al Bureau? Mann apre la voragine, ma poi si ritrae per stare accanto ai personaggi, secondo un’ottica del suggerimento che è straordinariamente classica, sebbene iscritta in un film modernissimo. Resta dunque soltanto il piacere del lasciarsi andare al piacere della visione, lungo un racconto denso ed elegante, che trova il suo picco visivo nell’incredibile sequenza di caccia all’uomo condotta nei boschi, dove Mann mette in scena la più alta delle sue (non) dicotomie: una serrata sequenza di spari, dove l’enfasi è affidata unicamente all’impasto di luci che, come flash improvvisi, rompono il buio della notte. Non c’è musica, i dialoghi sono all’osso, i movimenti di macchina sono convulsi, sembra quasi di essere di fronte a un horror, magari a un Real-Movie stile Cloverfield o Blair Witch Project. Ma siamo “soltanto” di fronte a un moderno capolavoro del cinema.

Nemico pubblico
(Public Enemies)
Regia: Michael Mann
Sceneggiatura: Ronan Bennett, Michael Mann e Ann Biderman (dal libro di Bryan Burrough)
Origine: Usa, 2009
Durata: 140’

Intervista a Michael Mann
Sito ufficiale italiano
Sito ufficiale americano
Sito ufficiale di John Dillinger (in inglese)
John Dillinger su Wikipedia
I trailer del film