"C'è chi crede in dio o nel denaro. Io credo nel cinema, nel suo potere. L'ho scoperto da ragazzino, mi ha aiutato a fuggire da una realtà in cui ero infelice. È una delle forme d'arte più alte che l'uomo ha concepito. Credo nel suo futuro."
(John Carpenter)

giovedì 19 settembre 2013

Venezia 70: i film (3/4)

Venezia 70: i film (3/4)

The Zero Theorem, di Terry Gilliam (Concorso)

Terry Gilliam ricorda un po' Brian De Palma: entrambi rivendicano con forza l'attitudine a parlare della realtà, anche se poi le forme del loro cinema trasfigurano la stessa fino a renderla irriconoscibile o, comunque, riverberano sempre la finzione del set. In Gilliam il gioco si fa ancora più estremo, perché la sua visione “politica” è filtrata da uno sguardo che tende naturalmente al fiabesco e al surreale, e in questo caso deve anche barcamenarsi con un budget ridotto. La sfida è comunque vincente: nel tornare alla fantascienza distopica in stile Brazil, l'autore convince quando lascia correre a briglia sciolta il suo immaginario e si concentra sulle ossessioni e le speranze infrante dei suoi protagonisti. La storia vuole essere una metafora della tendenza a “chiudersi” in universi virtuali, attraverso la figura di Qohen Leth (il sempre grande Christoph Waltz, con inedito look calvo), internauta che cerca nella rete la ragione dell'esistenza. La trova forse quando una ragazza, Bainsley, sembra interessarsi a lui: ma è solo una squillo inviata da chi gestisce le redini del sistema. O forse c'è la possibilità che l'amore nasca davvero? La riflessione sulla solitudine del virtuale lascia un po' il tempo che trova, ma, fra pigli visionari e paesaggi virtuali, si snoda una bella favola con sottofondo malinconico e un finale lasciato all'interpretazione dello spettatore (e, a sentire lo stesso Gilliam in conferenza stampa, le cose possono essere molto più distanti da quanto le immagini non facciano credere). Notevole il ruolo di Mélanie Thierry, che mancava da parecchio in una produzione internazionale (era ne La leggenda del pianista sull'oceano di Tornatore).



Child of God, di James Franco (Concorso)

James Franco, invece, è una di quelle figure che gioca a non farsi ingabbiare: un po' divo blockbuster (Spider-Man, Il grande e potente Oz), un po' icona indipendente che flirta con l'idea della pansessualità (presa simpaticamente in giro in Facciamola finita), in questo caso prende di petto la sfida della trasposizione di un testo di Cormac MacCarthy, raccontando l'epopea di Lester Ballard: autentico outsider di una comunità dell'entroterra americano, Ballard scorrazza per i boschi dando sfogo alla sua follia e giocando con le percezioni dello spettatore, che a tratti prova tenerezza per la sua ingenua e sincera pulsione primitiva, in altri momenti si ritrova invece messo di fronte all'orrore della sua totale incapacità di distinguere il bene dal male, che lo porta ad abiezioni che arrivano alla necrofilia. Tutto questo finché un gruppo di cittadini (fra i quali riconosciamo lo stesso Franco) non tenta di punirlo. L'idea che Franco si ponga fra i carnefici sembra donare alla vicenda un punto di vista ben definito, che però lo sguardo documentaristico eppure empatico contraddice, creando un interessante gioco di paradossi. A farla da padrone è comunque la performance straordinaria di Scott Haze, che dona tutto se stesso nella raffigurazione di questa particolare icona americana, che ricorda un po' il Mad Dog Morgan del compianto Dennis Hopper. Una figura che è anche l'ennesimo individuo “bigger than life” eppure straordinariamente fragile del variegato mosaico che sempre più definisce l'universo registico di James Franco (in passato c'era stato Sal Mineo in Sal e fra i progetti annunciati c'è anche Bukowski). Giusto per ribadire come al divo/regista interessino le zone di confine e la sovrapposizione degli opposti.



White Shadow, di Noaz Deshe (Settimana della Critica)

Il vincitore del Leone del Futuro (ovvero il premio che si fa carico di investire su un nome che lascia intravedere ottime capacità) è andato meritatamente a questo bellissimo film di Noaz Deshe, ambientato in Tanzania, dove si racconta l'odissea di Alias, un ragazzo albino affidato allo zio dopo che il padre è stato ucciso da alcuni adepti di un culto satanico (la carne di albino, infatti, viene usata dai sacerdoti per officiare i loro mostruosi riti). Costretto a trovare la sua strada, Alias deve fare i conti con una realtà abituata a considerarlo un diverso e che per questo lo respinge, nonostante i suoi sforzi di sopravvivere: accanto alla cifra eminentemente sociologica di un'opera che getta luce sul difficile destino della minoranza albina nel paese africano, ciò che colpisce è lo stile usato da Deshe per raccontare questa storia. Il suo sguardo dipinge letteralmente una realtà espressionista attraverso una macchina da presa mobile e liberissima, uso espressivo dei colori e dei fuori fuoco, creando un arazzo visivo di grande potenza espressiva, che arriva a toni quasi horror nelle scene notturne che vedono il povero protagonista braccato dai nemici e dagli adepti del mostruoso culto. Il quadro visivo estrinseca così tutto il senso di alienazione e di precarietà su cui viaggia l'esistenza del ragazzo, affine eppure distante dalla realtà che attraversa e con cui egli si relaziona attraverso il doppio rapporto della vicinanza e della lontananza da ogni luogo. Così come bianco e allo stesso tempo nero è il personaggio, altrettanto si può dire di una messinscena che sovrappone strati fra loro diversi, donandoci un'opera poetica eppure allo stesso tempo in grado di annichilire per la sua crudeltà. Uno dei migliori titoli del festival e la dimostrazione che si può fare un cinema rigoroso nelle tematiche e liberissimo nello stile.

lunedì 16 settembre 2013

Wolf Creek 2

Wolf Creek 2

Una coppia di turisti tedeschi, Rutger e Katarina, visitano l'Outback, dove si imbattono nel malvagio Mick Taylor: dopo aver visto il compagno fatto a pezzi, Katarina fugge e viene soccorsa dall'inglese Paul, in viaggio solitario lungo le strade australiane. Dopo la morte della ragazza, Paul finisce così nel mirino di Taylor, che lo bracca fino allo stremo, dando vita a un lungo inseguimento. Alla fine Paul cade nelle mani del nemico, che però, solleticato dalla sua parlantina, gli propone un bizzarro patto: lo lascerà andare se lui sarà in grado di rispondere ad alcune domande sulla Storia e la cultura australiana. Forte delle sue conoscenze, il ragazzo accetta la sfida, che si rivelerà dolorosa e farà emergere tutta la follia del suo carceriere...


Consapevole dell'importanza che il primo Wolf Creek ha assurto nell'ambito del nuovo cinema di genere australiano, per il tanto atteso sequel Gregg McLean muove in una direzione che sembra dimostrare una maggiore consapevolezza circa le implicazioni che la figura dell'assassino Mick Taylor porta naturalmente con sé. Se già nel capostipite Taylor risultava infatti una figura a metà strada fra la concretezza della sua dimensione di “ocker” (ovvero lo stereotipo dell'australiano rozzo e provinciale) e la trasfigurazione che di quell'icona era stata fatta dalla rappresentazione cinematografica (i ragazzi si rapportavano a lui citando Mr. Crocodile Dundee), stavolta McLean alza direttamente la posta in gioco: il killer diventa così una sorta di definitivo rappresentante di una purezza dell'essere australiani, che si può contrapporre direttamente alla madrepatria Inghilterra, in un confronto alla pari che pure non fa venire meno le sue caratteristiche di autentica icona horror-pop.

L'incipit in cui Taylor punisce due poliziotti che si erano presi gioco di lui, e i due successivi movimenti che lo vedono rispettivamente alle prese con due turisti tedeschi e un giovane inglese, descrivono infatti un perimetro in cui l'uomo diventa il baluardo di un'intangibilità dell'Outback australiano, contrapposto alla “civiltà” perpetuata dalla colonizzazione che ha fondato l'Australia stessa: la tendenza alla rarefazione visiva che avevamo visto nel primo capitolo, trova dunque un suo fondamento concreto in una dimensione panica di cui Taylor è l'autentico alfiere, in quanto rappresentante di una sorta di male oscuro che la terra d'Oceania ha naturalmente fatto proprio - e sappiamo bene come l'Outback sia diventato nel tempo la raffigurazione inconscia del senso di alterità dell'australiano medio rispetto alla propria terra, una sorta di autentica “zona oscura” dell'immaginario.

Così, assurto ormai a paradigma dell'oscurità rappresentata metaforicamente (e praticamente) dall'Outback, Taylor può permettersi di “punire” chi ha della sua terra una conoscenza limitatamente esotica (i turisti) e – nell'ultima e più importante parte del film – instaurare un confronto diretto con un giovane inglese, laureato in Storia e che dunque conosce perfettamente i passaggi che hanno fondato l'Australia: qui McLean è talmente esplicito da sfiorare il didascalismo e le domande che Taylor rivolge a Paul fanno venire fuori ciò che lo spettatore medio (quello che, come da primo capitolo, si rapporta alla realtà attraverso un immaginario puramente cinematografico) non conosce, ovvero che l'Australia, dopo la sua scoperta da parte dell'Occidente, è stata la terra di deportazione dei reietti dell'Impero Britannico. In quanto estensione diretta della stessa terra colonizzata, Taylor “restituisce” il favore facendo compiere al giovane inglese il percorso esattamente contrario.

In questo modo, Paul rivive sulla sua pelle l'esperienza dei primi coloni: incarcerato e torturato, trattato dunque come un criminale e sottoposto all'unica legge della violenza e del taglio delle dita per puro malumore del suo carceriere, viene messo di fronte al crollo delle ragioni intellettuali e al trionfo della bestialità. La sua intelligenza non gli permette di trarsi d'impaccio, la sua conoscenza del passato australiano non gli garantisce un lasciapassare, ma soltanto un'ideale collocazione in un disegno che lo condurrà inevitabilmente alla follia perché già scritto in una storia generata attraverso il sangue e che perciò ha prodotto figure come quella di Taylor.

McLean compie questo percorso attraverso una dinamica che, pur affidandosi all'esplicitazione dei concetti storici attraverso i dialoghi, è per il resto ancora una volta settata su un confronto di immaginari: così come il primo Wolf Creek appariva infatti una trasfigurazione autoctona dei codici espressivi di Non aprite quella porta, allo stesso modo stavolta si chiamano in causa modelli come Non aprite quella porta 2 per l'infernale e visionario viaggio nei meandri del rifugio di Mick Taylor. Il set snocciola così luoghi raccapriccianti, esseri umani in condizioni miserevoli e trappole preistoriche senza soluzione di continuità, reinventando continuamente lo spazio scenico. Come il suo personaggio, insomma, anche McLean accetta la sfida del confronto diretto con gli standard settati dalla cultura anglosassone, per “restituire” alla rappresentazione cinematografica dominante la propria versione dei fatti. E quando l'inseguimento con il camion crea la perfetta sovrapposizione fra gli orrori dello spielberghiano Duel e le dinamiche thriller di Roadgames, capiamo che la sfida ha una sua precisa ragione d'essere, nell'ambito di un cinema (quello australiano di genere) da sempre tarato sul confronto diretto (che possiamo anche definire subalternità) con modelli altri.

Ne viene fuori un film che, accanto alle implicazioni potenti che chiama in causa, circa la storia e la cultura d'Australia, è anche enormemente più violento del precedessore, come liberato da quella sua aria un po' “assorta”, e, cambiando anche il direttore della fotografia (Toby Oliver, al posto del fido Will Gibson), affonda direttamente le mani nelle carni. Lo fa in un modo che si situa però fra l'effetto shock e la rappresentazione grottesca dei trucchi prostetici e della teatralità del set: un mix di realismo documentario e eccessi pop molto intrigante. L'Outback di Mick Taylor diventa così una trasfigurazione che ne eleva a potenza il potenziale perturbante, ma anche un set naturale che evoca naturalmente l'affabulazione e la capacità di creare storie con cui la realtà può continuare a instaurare una feconda dialettica.


Wolf Creek 2
(id.)
Regia e sceneggiatura: Gregg McLean
Origine: Australia, 2013
Durata: 107'


Collegati:
Wolf Creek

giovedì 12 settembre 2013

Venezia 70: I film (2/4)

Venezia 70: I film (2/4)

Night Moves, di Kelly Reichardt (Concorso)

Uno dei film che più hanno diviso il pubblico festivaliero: due giovani ecoterroristi, Dena e Josh, decidono di far saltare in aria una diga a scopo dimostrativo. Nell'attentato, però, muore un giovane che si trovava nei dintorni, ignaro di quanto stava per accadere. Dena e Josh devono quindi fare i conti con le proprie coscienze, in una dinamica molto tesa fra la fermezza imposta dalla mente e i valori dettati dal cuore, mentre nuovi sentimenti e inedite paure vengono a galla. Una sorta di confronto diretto fra la dimensione ideale e la concretezza del vero, che Kelly Reichardt scandisce attraverso un tono quasi sempre ipnotico e un'estetica dapprima più definita nei luoghi attraversati dai ragazzi (la strada, i boschi, il lago), e poi trasfigurata in un'ottica sempre più oscura, a metà strada fra un noir e un vero e proprio horror gotico. Alla fine è proprio il quadro sempre meno definito a tarare i ritmi e i toni, mentre i personaggi restano sfumati e volutamente ambigui, con un utilizzo molto interessante dei corpi attoriali. Dena è l'ex bambina prodigio Dakota Fanning, mentre Josh è un sorprendente Jesse Eisenberg, introverso, inquietante e abbastanza lontano dal consueto stereotipo del “nerd” logorroico: entrambi fragili e in equilibrio su sentimenti contrapposti, finiscono con la loro fisicità per aggiungere sostanza a un film narrativamente tutto in levare. Il titolo si riferisce alla barca che i ragazzi imbottiscono d'esplosivo per compiere l'attentato, ma può anche rimandare a un classico brano musicale di Bob Seger che racconta proprio l'incontro di due adolescenti che “si usano” a vicenda. Ne emerge un ritratto che, pur non giudicando direttamente le azioni dei protagonisti, suscita naturalmente una forte amarezza e un senso di perdita dei punti di riferimento.



Joe, di David Gordon Green (Concorso)

Sia Kelly Reichardt che David Gordon Green sono due fra i nomi più interessanti del panorama indipendente americano contemporaneo ed è interessante notare come, pur raccontando storie diverse, affrontino in senso lato l'esperienza del crescere in giovani protagonisti alle prese con le difficoltà del mondo. Nel caso di Joe, il giovane Gary vive con un padre ubriacone e cerca di farsi carico della famiglia, lavorando per Joe, un individuo burbero e solitario. Ben presto fra i due nasce una solidarietà che si rivela reciprocamente costruttiva: Gary trova infatti nell'uomo un riferimento che lo aiuti a far fronte alle amarezze e alle difficoltà della vita, mentre Joe avverte nel rapporto con il ragazzo quel qualcosa che sembrava mancargli e che potrebbe veicolare in un senso nuovo la rabbia che serpeggia lungo tutte le sue giornate. Un esempio di cinema americano molto classico nell'impostazione, con un rapporto transgenerazionale che fa giustamente venire in mente Gran Torino: laddove Eastwood cerca comunque di raccontare la costruzione di un possibile spazio comune in cui i personaggi possano coesistere, al contrario Joe sembra invece testimoniare la difficoltà delle figure di agire nello stesso perimetro. Il tono è infatti ondivago, e resta sempre a metà fra la rabbia rabbia repressa dall'adulto e la voglia di affrancarsi dalla negatività del ragazzo, e più dei gesti concreti (che spesso si risolvono in colpi, ferite e rotture – persino la costruttiva azione di lavoro consiste nell'avvelenare degli alberi) spicca una solidarietà silenziosa. Alla fine, pur nella progressione molto lineare, si aprono margini di interpretazione e i ruoli così definiti appaiono un po' più sfumati. Non memorabile, ma interessante, con un Nicolas Cage abbastanza inedito e che testimonia la sua voglia di affrontare registri sempre diversi (forse un po' troppo giovane per il ruolo, però).



Las ninas Quispe, di Sebastian Sepulveda (Settimana della Critica)

Il Cile continua a fare i conti con il suo tragico passato, complice anche l'influenza del produttore Pablo Larrain. Il film di Sebastian Sepulveda, però, opta per una prospettiva inedita, raccontando un fatto ispirato a eventi reali: è il 1974 e nelle montagne del Cile vivono le sorelle Quispe, che conducono una vita semplice, coltivando la terra e allevando pecore. Lentamente, però, vengono raggiunte dalle voci del cambiamento che si è instaurato nel paese e di un regime che presto arriverà anche da loro a esigere il suo tributo di controllo totale. Questo avviene attraverso vari “si dice”, ma soprattutto con la consapevolezza che le (poche) persone di quei monti stanno lentamente sparendo, allontanandosi come per fuggire da un male incombente o forse perché stanno repentinamente soccombendo allo stesso. Il dramma del golpe raccontato attraverso un perenne fuoricampo che però influisce sugli angoli più dimenticati del paese è al centro di un racconto con ritmi quasi trasognati, dove la catastrofe si insinua in maniera lenta ma inesorabile sottopelle e spinge dei personaggi che hanno fatto del rapporto con la loro terra l'elemento qualificante delle proprie vite, a compiere scelte difficili e dolorose, fino a un finale decisamente non consolatorio. Un film che, insomma, trasfigura il modo con cui il Cile ha introiettato il dolore, il senso dello smarrimento e della sparizione attraverso il paradosso di un racconto che fa luce su una vicenda dimenticata, ma è tutto basato su elementi quasi impalpabili. L'orrore non si manifesta in maniera improvvisa, ma è quello della normalità e della decadenza insita nella lentezza del quotidiano. Un piccolo e prezioso gioiello.

mercoledì 11 settembre 2013

Moebius

Moebius

Padre, madre e figlio. Il primo tradisce la seconda con un'amante: lei prova a evirarlo, ma, non riuscendoci, sfoga la sua rabbia sul figlio, per poi fuggire. Il padre, disperato, si fa asportare chirurgicamente il pene per donarlo al figlio, ma i trapianti dei genitali sono ancora in una fase rischiosa e embrionale. Una soluzione arriva attraverso la scoperta che è possibile raggiungere l'orgasmo attraverso il dolore inflitto alla carne. Nel frattempo, rimasto privo della sua virilità, il ragazzo è fatto oggetto di scherno da una banda di bulli, suscita l'attrazione dell'amante del padre e finisce in galera perché coinvolto nello stupro della donna da parte di alcuni teppisti. Infine viene liberato e condivide con il padre la scoperta del piacere procurato dal dolore. Tutto sembra tornare alla normalità quando il padre trova il medico giusto per l'agognato trapianto, ma una volta dotato del nuovo organo, il ragazzo non riesce ad avere un'erezione. A sorpresa la madre torna a casa e un suo tocco sembra ridestare la virilità perduta del giovane...


Cos'è la famiglia?
Cos'è il desiderio?
Cosa sono i genitali?
Famiglia, desiderio e genitali sono un tutt'uno fin dal principio.
Io sono il padre, la madre è me, e la madre è il padre.
All'origine nasciamo nel desiderio e ci riproduciamo nel desiderio.
Così siamo collegati in un'unica entità, come il nastro di Moebius,
e pertanato io invidio, odio e amo me stesso.
(Kim Ki-Duk, dal pressbook del film)

Contestato in patria da una censura che ha costretto al taglio di qualche scena, il nuovo film di Kim Ki-Duk sembra proprio esorcizzare a priori il senso della perdita umana, fisica e artistica che ha successivamente pervaso il suo autore, in rapporto a questa nuova pellicola: il vincolo di causa e effetto, di desiderio e proibizione che il film manifesta trova così un suo riscontro nel mondo “di fuori”, ampliando il sistema dei collegamenti posto in essere dalla storia. Gli opposti sono collegati: i genitori che danno la vita sono anche quelli che provocano la disfatta del loro figlio, proiettando su di lui le proprie frustrazioni (e, di conseguenza, la loro potestà diventa anche una subalternità); l'atto violento dell'evirazione è provocato dalla stessa madre che poi ridarà al ragazzo la virilità perduta; la violazione della carne provoca un dolore che, somministrato in dose continuativa, permette il raggiungimento dell'orgasmo e quindi l'acme del piacere; e l'amante che provoca il disfacimento del nucleo familiare è una figura contigua a un sistema di relazioni che legano i personaggi tra loro e con il mondo esterno – l'attrice Lee Eun-woo, peraltro, interpreta entrambi i ruoli, la moglie e l'amante, giusto per rimarcare ancora di più il sistema delle sovrapposizioni e delle identità.

Agisce dunque sui sistemi fondativi della società contemporanea (la famiglia in particolare) questo Moebius, e si affranca pure dalla facile trattazione freudiana della sessualità attraverso un approccio stratificato al tema, che investe tanto lo stile, quanto i significati: così, i tormenti del giovane protagonista sulla propria virilità, da un lato possono riflettere quel sapore per la violazione della carne che già altre volte avevamo trovato in Kim Ki-Duk: il riferimento primario è a L'isola, con gli amanti che si prendono all'amo, provocandosi lacerazioni interne e facendo così coincidere la sfera dell'amore e del piacere con quella della sofferenza e del dolore. Sono dinamiche che tarano certamente il racconto su una direttrice che è drammatica, e suscita, per empatia, il dolore nello spettatore (soprattutto quello maschile).

Ma, preso alla giusta distanza, il film si palesa anche per essere estremamente ironico e sopra le righe (pensiamo alla scena del pene maciullato dalle ruote di un camion), tanto da esibirsi attraverso toni da fumetto. Lo stile è da guerrilla filmmaking, con perenne camera a mano, ritmo sostenutissimo e protagonisti che si agitano, urlano, si picchiano, si martoriano le carni, cercando di affrancarsi da una miseria cui si sono giocoforza condannati. Kim è bravissimo nel rendere l'idea di un film estremamente caotico pur nell'assoluta assenza di dialoghi: si crea in questo modo una sorta di intervallo fra ciò che realmente accade e ciò che lo spettatore percepisce, tanto che la fisicità estrema della vicenda (esaltata da una fotografia dai toni naturalistici negli esterni) non riesce a cancellare l'impressione di una storia i cui segni tendono all'astrattismo (e negli interni spesso la fotografia “spara” i rossi, gli arancio o i blu, creando una qualità onirica e espressionista).

Lo sguardo è insomma satirico, mira esplicitamente a sabotare un ordine costituito e si lega a doppio filo a quella tensione metafisica che attraversa pure tanta produzione del cinema di Kim Ki-Duk (e che ha al momento i suoi più evidenti riferimenti in Primavera, estate, autunno inverno... e ancora primavera e Ferro 3). Non a caso l'evirazione avviene con un pugnale nascosto sotto un Buddha e il figlio prega nottetempo un'immagine sacra, tanto da far sorgere l'idea che la sessualità tanto ironicamente sbeffeggiata dall'autore altro non sia che l'espressione di una distanza che esiste fra la tensione umana a cedere alle lusinghe del materialismo e l'approdo finale a una dimensione più spirituale. Si presti infatti attenzione a come, nonostante tutte le angherie subite, il personaggio del figlio mantenga sempre un'espressione imperturbabile, quasi neutra, destinata a sciogliersi soltanto nel sorriso finale che segna il suo passaggio da una dimensione di subalternità (alla madre, al padre, ai bulli, alla sessualità) a quella di un'acquisita serenità e maturità, quella della sfera spirituale.

Non è da tutti insomma giocare con tanta iconoclastia, provocare in maniera tanto esplicita, chiamare in causa temi tabù come l'incesto, per poi veicolare sottotraccia riflessioni così alte, all'interno di una ricerca stilistica che ci consegna un autore sempre pronto a rimettersi in gioco: Kim Ki-Duk si conferma ancora una volta uno dei maggiori registi sulla scena, uno che sa amare e plasmare il cinema con grande piacere, ma sempre per esprimere pulsioni profondamente personali, tanto che ogni opera è ancora una sorpresa e una gioia, per gli occhi e per la mente.

La distribuzione italiana è curata da Movies Inspired. La stesura di questa recensione si basa sulla versione integrale vista in esclusiva alla Mostra di Venezia: stando a quanto comunica il distributore, questa versione è stata ritirata dopo le proiezioni veneziane e per l'uscita nelle sale (e in home video) si fa e si farà riferimento soltanto al montaggio internazionale derubricato, più corto di 2 minuti.


Moebius
(id.)
Regia e sceneggiatura: Kim Ki-Duk
Origine: Corea del Sud, 2013
Durata: 91'

martedì 10 settembre 2013

Venezia 70: i film (1/4)

Venezia 70: i film (1/4)

Poiché il materiale da recensire è molto, una doverosa premessa: ci saranno quattro aggiornamenti, ciascuno dei quali conterrà tre recensioni brevi. Questi appuntamenti saranno poi accompagnati anche da recensioni lunghe di alcuni titoli su cui è necessario fare degli approfondimenti (coerentemente anche con i percorsi in atto nel blog). Titoli come Kaze tachinu di Hayao Miyazaki, Capitan Harlock di Shinji Aramaki e Gravity di Alfonso Cuaron verranno invece ripresi al momento della loro uscita nelle sale italiane. Buona lettura!


Gerontophilia, di Bruce LaBruce (Giornate degli Autori)

Artista underground per antonomasia, Bruce LaBruce ha ottenuto un certo riscontro in Italia con l'uscita del bizzarro L.A. Zombie, dove uno zannuto e muscoloso “living dead” (l'ottimo Francois Sagat) rianimava i cadaveri con il suo sperma, all'interno di una messinscena volutamente psichedelica e sgangherata. Il nuovo Gerontophilia segna un cambio di passo formale: la struttura è infatti più lineare e il progetto si iscrive in un tentativo del regista di incanalare le proprie pulsioni all'interno di un circuito più mainstream. Nessun tradimento dei propri trascorsi, però, perché la storia di Lake - un ragazzo gerontofilo, che trova finalmente il suo Eden quando viene assunto in una clinica per anziani - rappresenta una perfetta evoluzione del citato L.A. Zombie: la caducità del corpo e la pulsione sessuale rivitalizzante è infatti ancora il fulcro della narrazione, e si sublima nell'aspetto minuto di Lake (contrapposto alla fisicità debordante e muscolosa del sopracitato Francois Sagat), che tara il tono del racconto. Diventa quindi coerente il passaggio dal trash sfrenato dell'altra pellicola a un mix di ironia e delicatezza, con un sapore malinconico e struggente nel raccontare questo amore impossibile. La prima volta di Lake, carica di aspettative e pulsioni che finalmente si esprimono, si sovrappone quindi all'ultima occasione di felicità per l'anziano mr. Peabody, che torna letteralmente alla vita, fuggendo all'immobilismo in cui era confinato nella clinica. Gli dà voce e corpo uno strepitoso Walter Borden, autentico gioiello della pellicola. Definito dal regista una sorta di Harold e Maude in versione gay, Gerontophilia è un film di grande umanità, con cui LaBruce dimostra la sua versatilità e una grande qualità d'autore. Premiato con il Queer Award.



Jigoku de naze Warui/Why Don't You Play in Hell?, di Sion Sono (Orizzonti)

Avevamo lasciato Sion Sono con Land of Hope (visto al Torino Film Festival), una sorta di grido di dolore espresso dall'autore per il dramma di Fukushima, fatto di ritmi dilatati e messinscena naturalistica: un film che aveva fatto sorgere qualche dubbio circa un possibile cambio di passo del regista rispetto agli eccessi degli esordi. Come a voler esorcizzare queste paure e rassicurare i fans, però, la nuova pellicola ci riconsegna un autore sfrenato e esaltante, che ama il cinema in quanto gioco e puro piacere della messinscena. Un gruppo di giovani cineasti, armati di pochi mezzi e tantissimo entusiasmo, aspetta l'occasione giusta per sfondare: questa arriva dopo alcuni anni, ma in una forma decisamente bizzarra. Un loro coetaneo è stato infatti accusato di aver rapito la figlia di un boss della yakuza e, per scagionarsi, ha raccontato di essere un regista cinematografico, disposto a filmare lo scontro che il boss (il mitico Jun Kunimura) sta per avere con un suo storico rivale. Toccherà ai nostri eroi sbrogliare la matassa girando finalmente il film della vita! Sono trasfigura l'immaginario degli yakuza eiga della Toei attraverso la prospettiva citazionista offerta dal Tarantino di Kill Bill: tutta la parte finale è infatti una parafrasi della lotta alla Casa delle Foglie blu vista nel capolavoro del collega americano, in un tripudio di arti mozzati, colpi di katana, kung fu e pistolettate. Ma, accanto all'omaggio cinefilo e al divertimento puro, l'autore racconta ancora una volta i sogni di personaggi incapaci di uscire dal proprio immobilismo, che forse solo nella finzione scenica potranno trovare la chiave per la felicità. Un film liberatorio, per folli e per sognatori.



Die Frau des Polizisten/The Police Officer's Wife, di Philip Groening (Concorso)

59 capitoli, spesso brevissimi e quasi fuggevoli, spalmati lungo tre ore di durata, per raccontare la quotidianità di una famiglia apparentemente felice: lui (Uwe), lei (Christine), la loro figlioletta (Clara). Ma, lentamente, attraverso le pieghe di un racconto non lineare e apparentemente ostico e freddo, emergono gli abusi di Uwe sulla moglie. Scatti d'ira feroci, spesso immotivati e forse dovuti all'alienazione provocata dal lavoro in polizia, poche scene che testimoniano realmente la violenza, cui si preferisce l'alternanza di momenti felici e apparentemente avulsi dal tema, con scene più dirette in cui Christine esibisce la sua pelle martoriata dai lividi. La rigida scansione in parti (con tanto di cartello iniziale e finale a marcare i confini di ogni capitolo) è allo stesso tempo ciò che permette alla storia di apparire in tutta la sua evidente problematicità, ma anche lo strumento che serve a Philip Groening (già autore de Il grande silenzio) per trasfigurare il tutto in una dimensione più esistenziale, creando una sorta di distanza, mai priva comunque di una sua delicatezza e di un certo lirismo (la volpe che attraversa le strade semivuote, i fiori coltivati sotto le mattonelle del cortile). Finale aperto a interpretazioni, con quelle che sembrano tre possibili chiuse, affinché lo spettatore scelga la propria. Un cinema radicale, ma molto intrigante per come riesce a suscitare la riflessione, pur all'interno di una messinscena di grande rigore formale, di chiara matrice mitteleuropea. Premio speciale della Giuria.

UPDATE: uscito nei cinema italiani il 25 Novembre 2013 con il titolo La moglie del poliziotto.



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lunedì 9 settembre 2013

Venezia 70: eccesso di zelo

Venezia 70: eccesso di zelo

Un'altra Mostra è finita e si torna a casa, cercando di riordinare le idee, mentre le maggiori testate italiane celebrano il trionfo italiano. Tagliamo subito la proverbiale testa al toro (o meglio, al leone!): non ho visto Sacro GRA, non per snobismo, ma per semplice calcolo. Di solito evito i film italiani per recuperarli poi con calma in sala, e mi dedico alle pellicole che avrei difficoltà a reperire altrimenti (o che vedrei in sala doppiate, preferisco sempre le versioni originali). Nei prossimi giorni vorrei fare dei brevi report dedicati alle pellicole più interessanti del festival, in questa sede mi limito a fornire le mie impressioni, considerati anche i tre anni d'assenza che avevo sottolineato nel pezzo della vigilia.

L'impatto è sicuramente forte, si sente molto la differenza rispetto all'era Muller, il nuovo gruppo ha lavorato in modo da dare alla Mostra un'identità molto specifica, fatta di pellicole solide (pochissimi gli sbagli), inserite in programmazioni organiche dove spesso i temi rimbalzavano da uno schermo all'altro. Anche laddove lo spirito era orientato al più puro entertainment (il vertiginoso Gravity di Cuaron, l'horror Wolf Creek 2 di Greg McLean), in filigrana emergevano sempre una concretezza e una capacità di stare nella realtà, nella Storia o nei drammi personali dei protagonisti davvero notevoli. Di concerto, sezioni a volte avvertite come autentici corpi estranei (la Settimana della Critica, le Giornate degli Autori, Orizzonti e la retrospettiva, stavolta dedicata ai Classici Restaurati) sono apparsi decisamente più affini di quanto non fossero in passato al programma principale, dando l'idea di una formula rigidamente strutturata, ma allo stesso tempo “liquida”, dove le suggestioni scivolavano fra una sala e l'altra.

Certo, tanta coerenza ha avuto il suo inevitabile rovescio della medaglia, dato dal fatto che in questo modo il programma è apparso eccessivamente monocorde, refrattario a slanci davvero liberatori nell'assurdo o nell'estremo (a parte, forse, con il folle Sion Sono di Jigoku de naze warui/Why Don't You Play in Hell?), quasi come a voler rimarcare con eccessiva puntigliosità la differenza con le follie della precedente direzione di Muller. Non è un caso se l'impressione generale è quella di un programma molto buono nella sostanza (tanti i titoli di valore), ma generalmente privo di punte davvero entusiasmanti.

Sono state insomma rispettate le previsioni che avevo fatto prima di partire per il Lido, con una Mostra rigorosa e decisamente più controllata anche nel numero dei titoli, tanto che – a parte il solo Kim Ki-Duk confinato principalmente in sale di piccole dimensioni – non c'è stata nemmeno la consueta fatica nell'accedere alle visioni e tutto è parso molto ben razionalizzato. Ecco, quello della gestione degli spazi rimane un altro capitolo da esplorare e che stavolta ha mostrato segnali incoraggianti: la Mostra di Venezia, lo si dice poco, non è un evento “facile” o “rilassante”. Per capire lo stato d'animo con cui la si affronta bisogna pensare a una maratona sportiva. Ci si diverte, certo, ma la logistica è spesso logorante, il personale di sala è maniacale nel proibire o controllare, e il Lido è una zona di relax, ma non di villeggiatura, quindi risulta carente di servizi adeguati. Da questo punto di vista va accolto con favore il tentativo di andare incontro alle esigenze dei frequentatori, creando un luogo che fosse sì di visione e di lavoro, ma dove fosse possibile anche ritagliarsi un momento di pace, all'interno di una scenografia più “aperta” e meno oppressiva che in passato. Il tutto in attesa di dare forma alla più volte annunciata cittadella del cinema (di cui si vedranno i primi, palpabili, segnali l'anno prossimo con l'annunciato rinnovo della sala Darsena, una delle più grandi del complesso).

Insomma, si torna a casa con la soddisfazione di un evento che, pur con tutti i suoi limiti, si muove e cerca un posto nella contemporaneità, all'interno di fermenti che si spera continueranno a essere incanalati nel modo giusto, magari con un piglio più eclettico e uno zelo meno eccessivo. Qualcosa, insomma, si muove.