Solomon Kane
XVII secolo. Pirata e spadaccino spietato, Solomon Kane scopre che la sua anima è bramata dal Mietitore in base a un patto stipulato a sua insaputa. Decide pertanto di redimersi e ritirarsi in un convento, dal quale viene però scacciato dopo un anno. Di nuovo in viaggio, Solomon si imbatte nei Crowthorn, una famiglia di pellegrini diretti verso il Nuovo Mondo: ma il gruppo cade vittima dell’imboscata tesa dagli sgherri di Malachia, tiranno delle terre inglesi che sta schiavizzando le popolazioni. Solomon decide quindi di liberare Meredith, la figlia dei Crowthorn scampata al massacro della famiglia e portata al castello di Malachia. Per far questo deve riabbracciare la violenza che aveva giurato di non praticare più e impugnare nuovamente la spada. La missione gli chiarirà i segreti della sua famiglia e del patto con il Mietitore.
Il cinema popolare inglese attraversa da alcuni anni una fase tanto interessante quanto poco considerata, soprattutto in un confronto a distanza con le più blasonate realtà francesi o spagnole. Prodotti curati nella forma e accattivanti nella resa visiva, realizzati da nomi degni di essere seguiti, fanno oggi della terra d’oltremanica un mercato che opera nella continuità con quella tradizione un po’ smarrita nel corso degli anni Ottanta e Novanta e che oggi torna a noi in una forma moderna, capace di guardare al cinema hollywoodiano con meritato senso di superiorità. D’altronde, osservando un film come Solomon Kane, non stupisce trovare fra i crediti un nome come quello di Samuel Hadida, già produttore per Christophe Gans, Tony Scott e Roger Avary: una figura insomma attenta ai mutamenti del cinema spettacolare odierno, in quella zona intermedia che sta fra autorialità, indipendenza creativa e grandeur visiva. A lui il compito di tirare le fila di un progetto dalla gestazione molto lunga (i primi annunci risalgono al 2001), su un personaggio culto di Robert E. Howard (il creatore di Conan il barbaro), affidato all’interessante mano di Michael J. Bassett, fattosi notare nell’ultimo decennio con l’interessante horror Deathwatch (apologo antibellicista che trasfigurava l’orrore della guerra nella rivolta dell’ambiente circostante una trincea), cui era poi seguito Wilderness.
Basset si approccia alla materia fornita dai racconti originali lavorando sulla stessa, senza appiattirsi sulla fonte, confezionando quello che si può definire un prequel delle storie howardiane, in modo da creare un background che permetta di istillare nell’anima puritana dell’eroe spadaccino una conflittualità riconducibile a matrici shakespeariane, con tanto di tormenti personali che trovano la loro quadratura in un rapporto familiare complesso. La splendida caratterizzazione di James Purefoy colora inoltre la figura di Solomon Kane, originariamente dipinto come uomo diafano e dunque altero rispetto al mondo che lo circonda, di una fisicità che però è cosa ben diversa dal piglio muscolare dell’heroic fantasy alla John Milius (e qui vengono a cadere molti sterili paragoni mossi proprio con il capolavoro Conan il barbaro).
Solomon infatti iscrive sul suo corpo tormentato il dramma di una storia che è percorso di costruzione della propria identità, una traccia che Basset elabora partendo da una matericità del set dal gusto tipicamente vintage. La fotografia di Dan Laustsen riverbera infatti una tonalità quasi monocromatica, che è la stessa della terra, spogliata e martoriata tanto dagli elementi quanto dalle scorribande dei nemici di turno. La scelta riflette un ritratto sociale in disfacimento che sembra discendere direttamente da quella cifra oscura che aveva fatto grande gli horror della Hammer Film. Lo scenario è infatti piuttosto dark, con distese fangose, boschi avvolti dalla nebbia e minacciose figure mascherate che praticano impiccagioni e crocifissioni, in una sorta di rovesciamento medievale di quella prospettiva di salvezza e redenzione incarnata dalla figura dei pellegrini. In effetti non sembra esserci possibilità di rinascita in una terra dove si viene scacciati dai conventi e dove i preti offrono la carne dei viandanti in sacrificio alle creature mostruose che nascondono nei sotterranei delle proprie chiese.
In questo coacervo di contraddizioni, Solomon è l’elemento di sintesi, la figura che differisce ma al contempo è in continuità con lo spazio circostante: la sua storia di distruzione, infatti, lo rende affine a quei nemici che dimostra di saper affrontare con il vigore dei suoi fendenti di spada, ma il suo eroismo, seppur animato da una certa qual cifra opportunistica di chi intende esclusivamente salvare la propria anima, lo pone ugualmente fra i pochi personaggi altruisti in una realtà basata principalmente sull’egoismo e sulla sopraffazione. Solomon, quindi, incarna la contraddizione della sua Inghilterra, suggerendo che non può esistere eroismo senza che esso discenda a sua volta da quel Male profondamente connaturato all’animo umano, secondo una visione coerente con le precedenti opere di Bassett, e solo una dolorosa ricerca del proprio equilibrio può fornire un punto di fuga.
Non a caso la sua investitura a personaggio, propedeutica alla rinascita che avverrà mediante crocifissione, avviene proprio per effetto di quella già citata figura “di mezzo” rappresentata dai pellegrini, viandanti diretti verso una nuova terra dove ricominciare a vivere. Sono loro a fornirgli anche la nuova iconica veste, che rievoca tante figure dell’avventura più o meno passata, da Zorro a Robin Hood passando per il “V” di Alan Moore e David Lloyd, con il momento della vestizione sottolineato da un ralenty evocativo. Tutte caratteristiche che ribadiscono la sua natura liminare, sospesa fra scenari differenti. Perché, in fondo, Bassett fa di Solomon un continuo territorio di sperimentazione, dove le uniche certezze allo spettatore sono date dall’aderenza affettuosa a una concezione dell’avventura molto classica, priva cioè degli inutili esibizionismi digitali di un cinema hollywoodiano stretto fra aride logiche industriali e pessime rivisitazioni dei classici.
In questo modo l’avventura procede in modo lineare, soltanto affrettata da un montaggio che con tutta probabilità sacrifica alcuni momenti di raccordo per esigenze di durata (si spera in una Director’s Cut), ma mantiene gli elementi necessari per una buona storia: personaggi ben definiti, una progressione convincente, un senso del magico capace di fare della cifra “stregonesca” una metafora delle bestialità e delle velleità proprie dell’animo umano quando tende all’errore.
Solomon Kane
(id.)
Regia e sceneggiatura: Michael J. Bassett (personaggio creato da Robert E. Howard)
Origine: Uk/Francia/Repubblica Ceca, 2009
Durata: 104’
2 commenti:
Se faccio in tempo lo vado a vedre in settimana, poi ti faccio sapere.
ti ho segnalato per il Premio Dardos! Passa da me!
la sola cosa che ho trovato fuori luogo in questo SK, è stata la scena della crocifissione: gratuita, squallida e in generale con un insopportabile effetto patinato, unico neo in un film comunque solido e avvincente.
Mi fa piacere per Purefoy (che qui sembra fratello di Hugh Jackman!), troppo a lungo sottovalutato.
Rivisto l'altra sera in lingua originale.
Vogliamo il seguito.
Posta un commento