"C'è chi crede in dio o nel denaro. Io credo nel cinema, nel suo potere. L'ho scoperto da ragazzino, mi ha aiutato a fuggire da una realtà in cui ero infelice. È una delle forme d'arte più alte che l'uomo ha concepito. Credo nel suo futuro."
(John Carpenter)

mercoledì 12 maggio 2010

Rocky Saga

Rocky Saga

Non ci sono in giro molte saghe come Rocky: una esalogia scritta, interpretata e in parte diretta dallo stesso attore/autore lungo un arco di tempo trentennale, che diventa quindi progetto estetico, etico, filosofico e, perché no, anche commerciale della sua carriera: ne riassume gli stilemi visivi, ma anche il precipitato umano, lo sguardo sul reale e, inevitabilmente, anche i detour imprevisti, quelli che magari fanno anche storcere il naso.

L’attore/autore in questione è naturalmente Sylvester Stallone, per molto tempo ricondotto soltanto a un’idea di cinema muscolare: non che qui si voglia negare che Stallone sia stato quello, anzi, per molto tempo proprio lui ha cavalcato l’estetica della “ricostruzione del corpo” sulla quale l’immaginario action degli Anni Ottanta si è inequivocabilmente assestato (pensiamo a definizioni come “rambismo”, da un altro dei suoi popolari personaggi), e Rocky pure sopporta sulla sua figura autentiche metamorfosi fisiche, che non sono solo quelle del tempo, ma, più propriamente, quelle che portano un personaggio a diventare un’icona di epoche diverse (si veda anche l’insistito ritornare sulla sua statua).

Purtuttavia, rivisto oggi Rocky appare come qualcosa di più. Un progetto che ha avuto la fortuna di non subire i vari scossoni cui veniva di volta in volta sottoposto e che ci ha regalato almeno due autentici capolavori, nella forma del primo film (Rocky, appunto, diretto da John G. Avildsen nel 1976) e dell’ultimo, inaspettato, malinconico, potentissimo, da amare incondizionatamente, Rocky Balboa (diretto da Stallone nel 2006). Quello tracciato dai film è un percorso che descrive anche la parabola di un attore passato da simbolo di cinema indipendente ad autentico divo “istituzionale”, fino al più recente (seppur parziale) declino.

Rivedere Rocky come un filtro che aiuta a comprendere il cammino professionale di Stallone è dunque interessante: sei film, quattro dei quali diretti dallo stesso attore, che possono essere considerati una cartina di tornasole del rapporto fra Stallone e la realtà. Rocky, in questo senso è una autentica corazza, un ruolo che l’attore veste per porsi al di fuori di un mondo che lo sovrasta. Sebbene sia sempre latente nella serie una sorta di bonario paternalismo, tipico di una concezione conservatrice (nel senso assolutamente non deteriore del termine, ma che fa piuttosto riferimento a una certa natura pragmatica dell’essere americani), il personaggio non appare mai patetico e, negli ultimi capitoli, nemmeno senescente. Al contrario, fin dal primo film ci si rende perfettamente conto di come la sua parlata incerta (nelle edizioni originali), il suo agire apparentemente “lento” altro non siano che caratteristiche connaturate a uno status che gli permette di essere scentrato rispetto al reale quel tanto che basta per avere uno sguardo meno focalizzato sul particolare e più invece sull’universale. Rocky è una specie di ibrido fra un certo idealismo americano che sogna una grande felicità (l’amore assoluto per la moglie Adrian, la conquista del titolo di campione dei pesi massimi di pugilato, la visione di una famiglia patriarcale dove nessuno prevarica l’altro e i contrasti si possono ricomporre intorno al quadrato del ring, i rivali che diventano amici) e una certa tendenza tipicamente umana al sopravvivere senza aspettarsi nulla di più del poco che si ha. Merito di un interesse innato di Stallone per realtà sottoproletarie, dove si realizza la sintesi fra una sincerità imprevedibile dell’esistere e una tensione alla sopravvivenza e al sacrificio dal sottotesto marcatamente cristologico che conferisce immediatamente statura tragica ai suoi antieroi. L’effetto di questi accostamenti è dirompente: Rocky ottiene l’occasione della vita per un autentico colpo di fortuna, ma ogni sua impresa è poi caratterizzata da volontà di ferro e da fatiche che diventano autentiche piaghe. Il personaggio stesso si segna e prega prima di ogni incontro stabilendo una precisa ritualità sacrificale.

Il dualismo del personaggio lo porta a riscuotere crediti per il signorotto locale, ma senza alzare un dito sui debitori, a metà strada fra la piccola criminalità e quella vita di strada che permette di muoversi placidamente nel cuore pulsante della città. Philadelphia d’altro canto è l’altra grande protagonista della saga: le coordinate emotive che tracciano il percorso umano di Rocky (l’amore per Adrian, il rapporto filiale con l’allenatore Micky e quello fraterno con il burbero cognato Paulie e l’ex rivale Apollo, fino agli scontri burrascosi con il figlio Robert e il figlioccio sportivo Tommy Gunn) traggono forza dall’ambiente, del quale Rocky è figlio, ma dal quale egli tenta anche di riscattarsi.

Ecco, un tema fondamentale nella saga è proprio questo: tutti i personaggi discendono in modo straordinariamente netto dall’ambiente nel quale sono immersi, ma allo stesso tempo manifestano una forte insofferenza verso lo stesso. Nessuno fa eccezione, nemmeno (e soprattutto gli avversari): Apollo Creed si bea infatti del suo status mediatico che ne fa un’icona americana, ma allo stesso tempo non può evitare che lo stesso mondo commerciale ne determini le ultime battute, spingendolo a chiedere la rivincita a Rocky (nel secondo capitolo) e a sfidare Ivan Drago (nel quarto). Clubber Lang (nel terzo film) è una sorta di contraltare al Rocky del passato, un rigurgito dei bassifondi che ricorda al campione i trascorsi e la fame di vittoria. Drago è il prodotto di un’industria alla quale infine egli si ribella per ottenere una vittoria che vuole come soltanto sua. E’ interessante il fatto che anche quando Rocky viene decontestualizzato rispetto alla realtà di Philadelphia, quando gli elementi iconici (la scalinata del museo, la fanfara di Bill Conti) vengono a mancare e il personaggio viene snaturato in un’icona muscolare, veloce, inarrestabile, opposta al tenace ma bonario atleta degli esordi, quando il tono stesso della saga si immerge nella propaganda reaganiana e l’estetica ammicca al videoclip e a un certo kitsch tipicamente anni Ottanta, questa umanità continui pervicacemente a uscire fuori. D’altronde è grazie ad essa che il pubblico accetta le imprese e le piccole incongruenze di un campione fatto risorgere continuamente, si affeziona alle sue paure e agli eccellenti comprimari, frutto di felicissime scelte di casting.

Perché Rocky, in fondo, è la storia di una concezione della vita che riesce a superare i limiti e lotta contro le avversità, contro il tempo, la tecnologia, i pronostici per dimostrare che la volontà compie a volte i miracoli e riunisce la gente. In altri tempi si sarebbe chiamata epica.

Sito ufficiale di Rocky (in inglese)
Pagina di Wikipedia sulla saga di Rocky
Pagina di Wikipedia su Rocky Balboa (personaggio)
Pagina di Wikipedia su Sylvester Stallone
Sito ufficiale di Sylvester Stallone
Sito italiano su Sylvester Stallone
Trailer di Rocky
Trailer di Rocky II
Trailer di Rocky III
Trailer di Rocky IV
Trailer di Rocky V
Trailer di Rocky Balboa

domenica 2 maggio 2010

Il cinema di Yilmaz Güney

Il cinema di Yilmaz Güney

Dimenticato per anni e infine ritrovato (e letteralmente riscoperto) alla recente edizione del Festival del Cinema Europeo di Lecce, Yilmaz Güney è una figura di spicco del cinema turco degli ultimi decenni, profondamente immerso nella memoria eppure capace di parlare al suo e al nostro presente, riscuotendo sempre il consenso e l’attenzione del pubblico, di ieri come di quello di oggi. Non può essere diversamente, in fondo, considerando l’attenzione che Güney ha sempre dimostrato, nel corso della sua vita, proprio per la qualità squisitamente popolare del cinema, forgiata attraverso una lunga militanza nei film di genere (come attore prima, sceneggiatore e regista poi) e uno sguardo naturalmente portato a comprendere i meccanismi storicamente correlati alle dinamiche interpersonali all’interno di comunità più o meno piccole, nelle quali riflettere la Storia del suo paese. Scorrendo la filmografia dell’artista turco si passa infatti in rassegna un lungo periodo che parte dalla fine degli anni Cinquanta (quando avvenne il debutto come attore) fino alla prima metà degli Ottanta. In mezzo c’è un paese in trasformazione di cui Güney osserva non soltanto le caratteristiche patriarcali, l’economia rurale, il problematico rapporto fra i sessi: tutti temi fermamente presenti in ogni sua opera, i cui titoli possono tutti essere considerati tasselli della stessa visione sebbene articolata ogni volta su prospettive differenti (difficile trovare infatti un’altra filmografia così coerente e allo stresso tempo talmente diversificata).

Ma c’è un altro aspetto che dice della estrema attualità del cinema di Güney ed è la progressiva tensione alla modernità, il rapporto problematico con una realtà in trasformazione dalla quale i personaggi da lui narrati si sentono via via attratti, ma anche esclusi. Il rapporto con la tradizione è dunque vissuto come un fardello con il quale inevitabilmente fare i conti, tanto più pesante laddove l’affacciarsi alla modernità presuppone la conoscenza del proprio status di uomini diversi poiché provenienti da un’altra epoca. Chi si adegua è un infelice che ha rinnegato le sue radici (come il Cemil di Arkadaş, 1974), chi non riesce invece patisce l’inevitabile caduta (il Sivan di Il gregge, 1978).

Quasi sempre a innescare la dinamica che condurrà ineluttabilmente alla tragedia è una figura femminile, come la Keje di Seyyit Han (1968) o, ancora di più la Melike del già citato Arkadaş e la Berivan del Gregge, non a caso interpretate dalla medesima attrice, la bellissima Melike Demirağ. Ma la tragedia ricade completamente sulle spalle dei personaggi maschili, quasi sempre interpretati dallo stesso Güney e costretti a un percorso di progressivo stritolamento da parte delle dinamiche radicate nella cultura e nella Storia, che non lasciano spazio al raggiungimento della soddisfazione personale. La grandezza del risultato sta nel modo in cui Güney riesce ad articolare i suoi discorsi, attraverso racconti che seguono perfettamente la strada del melodramma popolare, anche laddove ibridato con generi più “rigidi” come il western, ma sempre lasciando trapelare una porosità di sguardo che si ritrova nelle inquadrature di volti, animali, improvvisi squarci di vita nell’aridità del paesaggio deserto. Il rapporto con la terra, intesa nel senso materiale del termine, contrappunta la fisicità di storie dove i protagonisti urlano, soffrono, sopportano sulla propria pelle le piaghe di una condizione di estrema indigenza che spesso conduce a velleitarie missioni di ricerca della felicità (la ricerca del tesoro nello splendido Umut, 1970).

La condizione di sfasamento è dunque perenne in questi personaggi che riflettono anche una latente situazione di esilio in terra, nella quale riconosciamo la parabola umana di Güney, divo di grande considerazione popolare eppure figura avversa al potere che lo ha rinchiuso più volte in carcere. Da lì l’artista ha continuato a lavorare, dirigendo “a distanza” (attraverso un ricchissimo lavoro di documentazione e di scrittura) alcuni dei suoi lavori migliori. Il tutto fino alla fuga e all’ultima opera, La rivolta (1983), realizzato in Francia eppure ambientato ancora nell’amata Turchia. Un film cupo, disperato, che traccia le coordinate umane ed emotive della condizione in cui versano i giovani rinchiusi nelle carceri turche, dove il sentimento della tragedia che sempre sottende il suo cinema diventa anche una metafora di una condizione di lavoro propria di chi è ormai costretto a guardare a distanza la propria terra e quindi a non trovare mai la realizzazione della propria identità.

In Italia soltanto tre opere di Güney hanno ottenuto regolare distribuzione, i già citati Il gregge e La rivolta, e Yol (1982), vincitore della Palma d’Oro al Festival di Cannes. E’ un peccato che non sia stato dato spazio anche al resto della sua produzione, che nel suo complesso conta, soltanto da regista, ben 26 lavori, lungo un percorso complesso e affascinante. La vera riscoperta di Güney, in fondo, deve ancora avvenire.

Nelle prossime settimane ripercorreremo alcune delle opere viste a Lecce, in quello che è stato un omaggio sincero e prezioso, che si speria sia l’inizio della riconsiderazione globale della sua opera.

Pagina di Wikipedia inglese su Yilmaz Güney
Ritratto di Güney a cura di Orsola Casagrande
Filmografia di Güney su SinemaTurk