Predators
Alcuni uomini si ritrovano misteriosamente su un altro pianeta: sono mercenari, assassini, trafficanti, soldati. L’unica eccezione alla composizione del gruppo è un giovane medico. Non sanno chi li ha portati lì, ma capiscono ben presto di essere preda di una razza di cacciatori extraterrestri, per i quali il pianeta è una riserva dove praticare il loro sport preferito. Nel gruppo si distingue Royce, che ha le capacità del leader, ma non è minimamente intenzionato a legare con i suoi improvvisati compagni. A lui si oppone la coraggiosa Isabelle, che invece predica l’importanza del rimanere uniti di fronte al pericolo.
Solo una lettera separa questo nuovo sequel dall’originale Predator, diretto nel 1987 da John McTiernan. E riesce a fare la differenza nella misura in cui marca la vicinanza e, nello stesso tempo, il ribaltamento prospettico rispetto al capostipite, attraverso un’operazione che vanta la supervisione del “nume tutelare” Robert Rodriguez e la regia del bravo artigiano Nimrod Antal.
Se, infatti, il titolo del primo Predator non lasciava dubbio alcuno su chi fosse l’intestatario dello stesso (il cacciatore alieno), qui il plurale chiamato in causa dalla “s” riconduce il ruolo del predatore non soltanto agli extraterrestri, che in ossequio ai tempi fanno sfoggio di look differenti e introducono anche alcune fiere del loro pianeta natale: predatori sono infatti anche gli uomini scelti per il gioco al massacro, secondo uno schema che comunque è coerente con quello del capostipite, dove a cadere nella trappola del mostro erano dei mercenari.
L’aspetto più innovativo del classico di McTiernan stava naturalmente nella sua capacità di mettere i protagonisti e in particolare il Dutch di Arnold Schwarzenegger di fronte alla consapevolezza del loro essere fondamentalmente degli archetipi di bestialità. Il film, infatti, procedeva attraverso una progressiva de-civilizzazione del guerriero super accessoriato per ricondurlo alla matrice di quel comportamento animalesco che lo poneva sulla stessa lunghezza d’onda del cacciatore alieno. La parte finale, dunque, affondava in un magistrale primitivismo che sembrava guardare più a John Milius che al Rambo di Stallone (sull’argomento potrà essere interessante tornare in futuro).
Questi presupposti vengono rovesciati con intelligenza nel nuovo film, che si pone dunque in prospettiva critica rispetto a un capostipite invocato come unico referente. Sebbene nulla ci impedisca infatti di considerare anche il Predator 2 di Stephen Hopkins e i due Alien vs Predator come parte della saga, è comunque evidente come la storia chiami in causa soltanto l’originale, secondo una formula che abbiamo già imparato a conoscere (pensiamo ad Halloween: 20 anni dopo, che si ricollega ai primi due film della serie saltando i capitoli intermedi).
Anche in questo caso, dunque, abbiamo un gruppo di combattenti nella giungla e un protagonista che, in particolare, fa suo il senso del racconto attraverso una progressione narrativa che diventa percorso di riconsiderazione e consapevolezza del proprio ruolo di eroe. Si rovescia in questo caso l’assunto originale: laddove il Dutch di Schwarzenegger ci teneva a rimarcare di non essere un assassino, ma un professionista della guerra che quindi eseguiva un lavoro con la sua squadra, qui Royce è consapevole di come il “mestiere” del mercenario lo abbia portato nel tempo a praticare l’omicidio con sottile piacere, tanto da renderlo refrattario a ogni rapporto umano. La sua tendenza isolazionista è rimarcata dal serrato confronto con Isabelle, che invece sembra incarnare quella propensione alla necessità di fare il proprio sporco lavoro che era di Dutch (e non a caso è lei a rievocare i fatti di quella storia).
Pertanto, se Dutch doveva infine soccombere alla consapevolezza di essere un corpo dispensatore di morte, qui Royce compie un percorso inverso, arrivando infine a sviluppare empatia per i compagni, che aiuterà infine a salvarsi dalle trappole degli alieni. Royce, dunque, attraverso il confronto con una minaccia più grande di lui recupera la sua umanità.
A cambiare è anche il tono del racconto, che, nonostante alcune concessioni allo splatter, è comunque estremamente sobrio e non si preoccupa di eludere alcuni dettagli (chi ha trasportato gli umani su quel pianeta?) in nome del puro spettacolo. Ci troviamo insomma di fronte a un recupero della cifra estetica tipica dei B-movie, dove la mancanza di un sottotesto pure non implica un approccio comunque estremamente diretto e stringato alle regole della narrazione di genere. In virtù di tutto questo il gioco di ribaltamenti e citazioni che il film innesca non solo con il precursore, ma anche con altre saghe fantascientifiche diventa pienamente contestualizzato e coerente con le tendenze attuali. In particolare è il cast a funzionare secondo questa direttrice: Danny Trejo è infatti corpo iconico del cinema di Robert Rodriguez, così come Laurence Fishburne rimanda alla trilogia di Matrix e la sua astronave abbandonata sembra uno scampolo della saga “gemella” di Alien.
Su tutti svetta la scelta sicuramente anticonvenzionale (e ai limiti dei miscasting) del protagonista, un Adrien Brody che rovescia coraggiosamente la muscolarità ipertrofica dello Schwarzenegger originale apparendo come un derivato del Jack di King Kong. Aiutato (nella versione italiana) dallo strepitoso doppiaggio di Alberto Angrisano, Brody è davvero la variabile incontrollata che permette al film di stazionare su quella linea di confine (molto cara a Rodriguez) fra il kolossal di fine stagione e il b-movie estivo, rendendo possibile considerare questo Predators, al di là dei suoi meriti o demeriti, come un interessante esperimento di genere. In attesa di vedere cosa ci riserverà il prossimo sequel, che promette di essere più ampio e spettacolare.
Predators
(id.)
Regia: Nimrod Antal
Sceneggiatura: Alex Litvak & Michael Finch (basata su personaggi creati da Jim e John Thomas)
Origine: Usa, 2010
Durata: 107’
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