"C'è chi crede in dio o nel denaro. Io credo nel cinema, nel suo potere. L'ho scoperto da ragazzino, mi ha aiutato a fuggire da una realtà in cui ero infelice. È una delle forme d'arte più alte che l'uomo ha concepito. Credo nel suo futuro."
(John Carpenter)

martedì 30 settembre 2014

The House of the Devil

The House of the Devil

1980. La studentessa Samantha Hughes deve traslocare dal dormitorio universitario a un nuovo appartamento, ma le manca il denaro per pagare il primo mese. Così risponde a un annuncio da parte degli Ulman, un'anziana coppia che ha bisogno di una babysitter. In realtà, appena giunta alla casa, Samantha si rende conto che dovrà badare alla madre del signor Ulman, che riposa al piano di sopra: le condizioni economiche però sono troppo vantaggiose per rifiutare e in fondo l'anziana donna è comunque autosufficiente. La sua presenza in casa serve solo per fare fronte a eventuali (ancorché improbabili) imprevisti. Samantha trascorre così la sua serata nell'enorme casa degli Ulman, ne esplora le stanze, lentamente inizia a innervosirsi per la strana atmosfera del luogo e i rumori che sente nel buio. Che i segreti della magione vadano ben oltre quello che le è stato detto?


È il più celebre film di Ti West, regista che con questo lavoro è assurto alla ribalta dei nomi più importanti del cinema horror contemporaneo. Strana ironia per un'opera che però si rifà in tutto e per tutto all'iconografia e allo stile del cinema dei Settanta, attraverso una maniacale opera di ricostruzione dell'impianto visivo dominante in opere come Quando chiama uno sconosciuto o Changeling, solo per citarne un paio. Tutto è costruito in funzione di una perfetta riproducibilità di quegli stilemi, dal colore della fotografia, ai movimenti di macchina, al look dei personaggi, in modo talmente preciso da restituire davvero l'impressione di una pellicola d'epoca. Non che la cosa in sé possa stupire chi magari aveva visto il primo film dell'autore, il gradevole The Roost, che riprendeva le atmosfere dei B-movies anni Cinquanta, con tanto di narratore alla Zio Tibia (l'ottimo Tom Noonan, che ritroviamo anche qui nelle vesti del signor Ulman, l'uomo che assolda la giovane Samantha).

Se però ci fermassimo a questo, rientreremmo nell'ovvio ambito del mero calligrafismo: un esercizio di stile ben fatto e in grado di esaurire la propria spinta nella sola riproposizione del già fatto – ipotesi che si affaccia alla mente soprattutto nella prima parte, con qualche lungaggine di troppo prima di arrivare al cuore della vicenda. Ma quando poi i presupposti lasciano spazio alla vicenda più concreta, emerge il senso dell'operazione di West: sfruttare il particolare equilibro di un'epoca capace di stare allo stesso tempo nel reale e nell'assurdo. The House of the Devil racconta infatti quella particolare temperie di un periodo storico e di un cinema dove l'elemento soprannaturale si innestava direttamente nel tessuto della società più vera. La massiccia casa di legno degli Ulman diventa il simbolo di questa particolare dinamica duale e, sotto l'occhio vigile della macchina da presa, si trasforma in un set tentacolare e insidioso, tanto un “covo” per pratiche sataniche, quanto una propaggine di un male perpetrato nella più assoluta normalità da una coppia di anziani folli, senza nemmeno trascurare l'ipotesi che tutto possa essere frutto semplicemente di stress e allucinazioni (almeno fino a un certo punto).

Se si ripensa a titoli come L'esorcista o Rosemary's Baby, si può comprendere la particolare oscillazione che interessa a West, quella pulsione demoniaca che però ha il suo setting in un contesto reale, fatto di necessità economiche (il reperire i soldi per pagare l'affitto del nuovo appartamento) e battaglie con i piccoli problemi quotidiani: Samantha è una studentessa, e sembra patire non poco la vita nel dormitorio, tanto da sognare l'approdo alla nuova abitazione come un affrancamento, una liberazione che rende quindi la sua esplorazione di casa Ulman un rito di passaggio. In fondo, sin dalle prime battute che scambia con la rappresentante immobiliare che le dovrà affidare l'appartamento, Samantha è collocata in una sfera di subalternità al mondo adulto (la donna infatti vede in lei sua figlia). Lei è per antonomasia ragazza, studentessa, figlia e badante al servizio di un mondo dove solo la capacità di approfittarsi del prossimo domina – dinamica che vale a doppio senso: Samantha accetta di adempiere al suo compito di badante dopo essere riuscita a estorcere una notevole somma di denaro al signor Ulman, approfittando dunque della sua necessità di avere qualcuno che badi alla madre anziana; ma, all'opposto, il prosieguo della serata si rivelerà una trappola ai suoi danni, con cui gli Ulman vorranno avere ragione di lei.

Questo particolare equilibrio di realismi e scivolate progressive nell'ignoto e nel maligno, è reso con un lavoro straordinario sui tempi e sulla concretezza materiale degli spazi, via via resi sempre più impalpabili e ritagliati in zone d'ombra di matrice espressionista – straordinaria, a tal proposito, la fotografia di Eliot Rockett. Anche in questo caso, West rinnova il gioco dei contrasti: da un lato, infatti, la fisicità degli ambienti e delle figure si stempera in un balletto di ombre che tiene alta la tensione; dall'altro, il corpo trova una sua centralità in un finale sanguinoso che apre il film a una cifra più delirante ed eccessiva, con azioni frenetiche, carni squarciate e piacere per un'estetica fatta di maschere spaventose e ambienti da incubo - fatti i debiti distinguo può venire in mente anche il Polanski di Repulsion. Diventa così notevolissimo anche il continuo lavoro di ridefinizione compiuto sulla protagonista Jocelyn Donahue, inizialmente tenera e capace di essere sempre centrale nell'inquadratura, salvo poi diventare quasi sfuggente man mano che la sua discesa agli inferi si palesa, fino a riacquistare in modo violento la sua concretezza nel finale, con il corpo ricoperto dal sangue. West insomma modula abilmente la visualità vintage a una dinamica più contemporanea, basata cioè sulla commistione di stili e toni. In questo modo riesce a evitare la trappola del passatismo per regalarci al contrario un racconto d'epoca per ambientazioni e stile, ma moderno e vitale per sviluppo.

I temi del satanismo e della realtà che si trasfigura in una cifra sempre più allucinata dove emerge la
sopraffazione, saranno poi alla base anche del più recente (e meno riuscito) The Sacrament, film dallo stile “Point-Of-View” che continua a testimoniare la continuità di uno sguardo capace di giocare con i linguaggi, ma sempre coerente nei temi.

Sfortunatamente, allo stato attuale, The House of the Devil è ancora inedito in Italia.


The House of the Devil
Regia e sceneggiatura: Ti West
Origine: Usa, 2009
Durata: 95'


lunedì 15 settembre 2014

Tucker & Dale vs Evil

Tucker & Dale vs Evil

Alcuni ragazzi si recano in vacanza nei boschi della West Virginia, nella zona dove anni addietro si consumò un brutale massacro ai danni di alcuni loro coetanei. Qui si imbattono in Tucker e Dale, due montanari che hanno preso possesso di uno chalet per dedicarsi alla pesca in pieno relax. Il pregiudizio porta i ragazzi a considerare i due adulti dei potenziali serial killer e così, quando la loro amica Allison viene “rapita” dai montanari (in realtà i due l'hanno salvata quando la ragazza è caduta nel lago), si innesca un micidiale meccanismo di equivoci che porta le due fazioni a scontrarsi violentemente! Nel tentativo di eliminare quelli che credono loro nemici, i ragazzi iniziano a uccidersi a vicenda e ogni tentativo di spiegare gli equivoci sembra vano: anche perché ad emergere come leader nel gruppo dei ragazzi è Chad, la cui psiche è stata seriamente compromessa da eventi che affondano nel massacro di tanti anni prima...


I cliché possono rappresentare una trappola per ogni pellicola che si rispetti, ma a un livello primario rappresentano anche un segno distintivo di un genere, che con essi si rapporta al pubblico di riferimento, in un gioco di scambi reciproci fondato sulla consapevolezza e, perché no, sulla complicità. Discorso tanto più vero quando ha a che fare con il cinema horror, di per sé uno dei più tipizzati e attenti all'interscambio di emozioni e cognizioni di forme e meccanismi narrativi con il proprio fandom. E', insomma, un discorso di identità, che una pellicola come Tucker & Dale vs Evil eleva a sistema, con esiti felicissimi.

La pellicola, diretta dall'ex attore Eli Craig, rappresenta infatti una splatter comedy basata sui meccanismi tipici dello slasher alla Venerdì 13: c'è un gruppo di ragazzi e ci sono gli hillbillies, i "campagnoli" che in queste storie ricoprono il classico ruolo di rappresentanti di una cultura primordiale e reazionaria, basata sull'eliminazione di chi invade il proprio spazio, con l'inevitabile collisione delle parti. Ma lo schema viene rovesciato con intelligenza, le vittime diventano i carnefici e gli equivoci generano quei cliché che il pubblico riconosce fino a rispondere con entusiasmo. Il lavoro compiuto da Craig, quindi, è duplice: da un lato c'è una precisa ricognizione sui topoi tipici dell'horror, che vengono derisi e smontati fino ad arrivare a una decostruzione del genere. D'altro canto, però, abbiamo poi una ricollocazione degli stessi elementi nel loro contesto, sebbene sotto una forma nuova: i ragazzi finiscono ugualmente uccisi nei modi più atroci, ma non per i meccanismi consueti. Il risultato spiazza e diverte, quindi, per la sua inventiva, senza però deludere le aspettative di un pubblico che da film del genere si aspetta precise risposte emotive, favorite dalla tensione, dal sangue, dal ritmo e dal divertimento, mai così alti negli ultimi anni.

Craig infatti non dichiara palesemente il suo intento metanarrativo - come avviene, ad esempio, in pellicole come Scream o Quella casa nel bosco - ma intrattiene un discorso extra-narrativo, che quindi il pubblico può anche non cogliere, godendo della commedia come prodotto a sé. Il punto è infatti la questione dell'identità, con cui il film gioca in maniera molto raffinata. D'altra parte, tutti i protagonisti del film sono palesemente scentrati rispetto al ruolo che pure vorrebbero (o dovrebbero) avere nella vicenda: non solo perché le vittime non sono tali e i carnefici neppure, ma perché ognuno di loro cova una serie di aspirazioni che lo svolgersi della storia rivela essere velleitarie o sbagliate. Dale crede di essere lo stupido della situazione (e dimostrerà invece il contrario), Allison ambisce a un ruolo di psicologa che però non riuscirà a onorare, non riuscendo a ricomporre le fratture interne ai due gruppi. L'escalation raggiunge il suo culmine con il personaggio di Chad che di fatto è l'autentico fulcro del meccanismo slasher, pur apparendo come figura decentrata: è lui infatti a raccontare ai compagni del massacro avvenuto in quei boschi (determinando dunque il setting della storia) e a insistere perché ai due montanari sia attribuito senza appello il ruolo dei cattivi.

Non a caso proprio in Chad troviamo uno degli elementi cardine del genere di riferimento, ovvero il trauma celato nel passato, che di solito determina il movente del killer di turno: proprio la scoperta di un simile segreto servirà qui a redistribuire ulteriormente i ruoli (una volta che tutto sembrava già inevitabilmente stravolto) per lo shodown finale. Craig insiste sia su meccanismi che sono squisitamente attribuili a un attento lavoro di scrittura, quanto su dinamiche che arrivano direttamente a coinvolgere il corpo, con personaggi che determinano il proprio ruolo fittizio in base alla propria fisicità (l'illibilly ha un aspetto poco rassicurante e stupido, le ragazze sono carine e attraenti), e che via via si “sporcano” nel gioco al massacro, fatto di sangue a fiotti, ustioni mostruose e arti rotti. Risulta straordinario in tal senso anche il casting compiuto, dove spiccano il simpatico e tenero Tyler Labine, lo stralunato Alan Tudyk (visto in Transformers 3) e la bellissima Katrina Bowden.

In tal modo Tucker & Dale vs Evil si connota non come un estemporaneo esperimento, quanto come un esemplare genuino di una tradizione che Eli Craig non vuole deridere, perché evidentemente rispetta e si ama: la visione rinvigorisce infatti figure e situazioni dei migliori classici del genere, rinnovandole con energia e facendoci provare lo stesso divertimento che avvolgeva la visione dei migliori lavori degli anni Settanta e Ottanta. Segno che proprio lavorando sul genere, senza appiattirsi sul mero ricalco, si può dare ancora linfa a un horror che negli ultimi tempi appare affetto da terribili segni di stanchezza.

Rimasto purtroppo inedito in Italia (anche in America però non ha avuto più di una distribuzione limitata, destinandosi principalmente alla fruizione attraverso l'home video), Tucker & Dale vs Evil è fortunatamente reperibile attraverso il circuito dei fansub. Se amate l'horror e i suoi classici vi conviene inseguirlo!


Tucker & Dale vs Evil
Regia: Eli Craig
Sceneggiatura: Eli Craig, Morgan Jurgenson
Origine: Canada, 2010
Durata: 89'

Trailer originale