"C'è chi crede in dio o nel denaro. Io credo nel cinema, nel suo potere. L'ho scoperto da ragazzino, mi ha aiutato a fuggire da una realtà in cui ero infelice. È una delle forme d'arte più alte che l'uomo ha concepito. Credo nel suo futuro."
(John Carpenter)

mercoledì 31 agosto 2011

500 giorni insieme

500 giorni insieme

Tom Hansen, laureato in architettura, ha preferito ripiegare sulla scrittura di bigliettini d'auguri, guadagnandosi una posizione in una azienda del settore. D'altra parte la sua indole romantica sembra fare allo scopo, anche se ancora il grande amore fatica a entrare nella sua vita. Questo almeno fino al giorno in cui il suo capo assume Summer [nella versione italiana “Sole”], per il quale Tom perde subito la testa. Le cose sembrano mettersi bene fra i due, ma la relazione avrà alti e bassi fino a quando lei non deciderà di troncarla inaspettatamente, lasciando Tom solo e in preda alla disperazione. Il tutto raccontato in un continuo andirivieni lungo i 500 giorni in cui Summer occuperà la vita di Tom.


Ciò che tutti si aspettano da una storia d'amore è uno svolgimento lineare che conduca a una sorta di bilancio sul tema: piace, insomma, non soltanto palpitare empaticamente per il destino dei protagonisti, ma anche trarne delle conseguenze, sviluppare una conclusione (positiva e/o ottimista) che risponda all'eterna domanda sulla sostanza di questo sentimento. Il film di Marc Webb sceglie invece la strada più difficile: alla fine della visione, infatti, gli interrogativi non saranno sciolti, permarrà una certa dose di tristezza, seppur mista alla speranza di nuove prospettive, e la struttura ad andirivieni non farà comunque di capire che l'amore è quel qualcosa che da A arriva a C passando per B, permettendo di comprendere tutti gli errori e voltare pagina. Anche perché – chiunque può rendersene conto da solo – non è affatto così.

Allo stesso tempo, questa pluripremiata commedia può far sorgere il dubbio di voler affrontare il problema da una prospettiva che è quella di chi, tutto sommato, intende suggerire che l'amore è bello ma illusorio. Ma anch'essa sarebbe una conclusione, e dunque aliena agli intenti del film. Che, invece, esplora le dinamiche del durante più che del dopo e, soprattutto, le emozioni che vengono messe in campo, da una fonte sostanzialmente soggettiva: quella di Tom Hansen, protagonista e punto focale della storia.

Pertanto, sebbene non manchino degli indizi che portino a comprendere perché Summer improvvisamente decida di lasciarlo, il film non indugia su questi e lascia aperti degli spazi interpretativi che diano l'idea di una progressione schizofrenica, alimentata dal montaggio non lineare, che a volte crea giustapposizioni cariche di significato fra momenti diversi, mentre in altri casi sembra cercare accostamenti privi di senso, nati sull'onda di chissà quale collegamento mentale, né più né meno come spesso accade a ognuno di noi.

Il punto è tutto qui: 500 giorni insieme è un film geniale perché, nell'apparenza del suo essere (e nel suo sostanziale porsi come) una commedia di scrittura, quindi perfettamente preordinata nei suoi meccanismi, riesce anche a diventare uno dei film più umorali del genere, capace di passare dal riso al pianto, dall'entusiasmo all'apatia, senza indulgere in reiterazioni forzate, ma lavorando sui piccoli intervalli che l'amore naturalmente produce, in un'ottica – per l'appunto – soggettiva.

Ecco dunque che, ciò che noi vediamo, è sempre il punto di vista di Tom, la sua dimensione personale, che passa per una prima esaltazione dell'amata, che poi diventa la persona più odiata del mondo (per quei difetti che naturalmente prima erano pregi...). E la selezione dei momenti in cui è suddiviso il racconto è altrettanto sagace, perché pesca da un inconscio che è talmente “dentro” l'immaginario amoroso (non a caso il suo lavoro coinvolge la scrittura di bigliettini affettuosi) da sublimarne la sostanza in una dimensione ideale, che perde perciò totalmente di vista la realtà. Per cui forse ha davvero ragione Summer, i due non fanno che litigare, non si conoscono e capiscono realmente, ma di questo restano pochi scampoli nella memoria di Tom (che poi sarebbe il film che noi vediamo). In essa, al contrario, tutto è sempre perfetto, l'affinità viene misurata sulla base di particolari di poco conto, i colori sono vivi e la vita è un immenso gioco, come accade nella strepitosa sequenza sonora in cui la città festeggia al passaggio del protagonista, si complimenta per l'amore conquistato e tutto culmina in un divertito ballo con i passanti e un simpatico uccellino animato (la colonna sonora ha un'importanza seminale in tutto il film). Di conseguenza la separazione arriva poi come il più classico dei fulmini a ciel sereno.

Una conclusione dunque la si può azzardare: si tratta di re-imparare a vedere la realtà scindendola - per quanto (im)possibile - dagli assoluti tipici di un sentimento così forte, un po' come Tom fa quando riesce a comprendere l'architettura e il suo rapporto con lo spazio, le persone, le esigenze di chi quei palazzi li deve abitare e il “respiro” che naturalmente tutto deve assumere, astraendosi da quello “sguardo comune” tipico di chi è troppo impegnato a muoversi nella città per capirla e pensarne una più funzionale. Una città che non sia dunque più solamente un set, ma uno spazio vitale e capace di esprimersi e far esprimere un talento (quello di Tom) represso da altre debolezze e convinzioni.

Accanto a una regia piacevolmente pop, che sembra fare il paio con quella di altri nomi del cinema recente (la presenza di Chloe Moretz crea un collegamento con Kick-Ass di Matthew Vaughn che sembra tutt'altro che peregrino), va rimarcata anche la felice scelta di casting, che opta per due interpreti assolutamente capaci di lavorare su emozioni contrastanti e, spesso, di esprimere le stesse attraverso il loro contrario: Joseph Gordon-Levitt è strepitoso nell'incarnare l'uomo qualunque, la cui medietà non sconfina mai nella banale indifferenza di altri colleghi (penso ad Ashton Kutcher), mentre Zooey Deschanel spesso sorride nel pronunciare le battute più drammatiche, e appare quasi come un personaggio fuori da ogni contesto, come a rimarcarne la sua natura ideale: che in fondo Summer non esista e sia solo una proiezione dei desideri inespressi (o mal espressi) dal povero Tom?


(500) giorni insieme
((500) Days of Summer)
Regia: Marc Webb
Sceneggiatura: Scott Neustadter, Michael H. Weber
Origine: Usa, 2009
Durata: 95'

lunedì 29 agosto 2011

127 ore

127 ore

Aaron Ralston è un alpinista solitario che nel tempo libero si inoltra nel deserto americano per esplorarne le conformazioni rocciose, senza avvisare nessuno. La sua ultima escursione avviene durante un weekend in cui è libero da impegni di lavoro: le cose, però, non vanno come dovrebbero e, dopo aver messo il piede su una roccia instabile, il nostro si ritrova incastrato in un crepaccio, con la mano bloccata da un masso. Iniziano così ore di attesa, durante le quali Aaron ripensa alla sua vita e a un metodo che gli permetta di liberarsi: alla fine giungerà alla più disperata delle soluzioni. Tratto da una storia vera.


Che differenza c'è fra le città deserte a causa di un morbo che ha contaminato gli abitanti trasformandoli in mostri sanguinari e un alpinista rimasto incastrato in una gola al di fuori di ogni centro abitato? C'è la pubblicità, quella che costituisce l'unico simulacro dell'umanità nel mondo post-apocalittico di 28 giorni dopo e quella che riempie i pensieri dell'Aaron Ralston di questo 127 ore, che nella solitudine provocata dall'incidente pensa alla bottiglia di Gatorade lasciata in auto. In effetti uno degli aspetti più interessanti del Danny Boyle regista è questo continuo insistere sulla merce come elemento qualificante dell'assenza. Lo stordimento sensoriale dato dal montaggio frenetico, infatti, non fa venir meno l'idea che tale sensazione si accompagni sempre alla cognizione di uno spazio che è tale in quanto definito dalle merci che lo occupano (la città abbandonata da Aaron è un continuo via vai di cartelloni e insegne), e le cui differenze si situino in una dimensione “a parte” che è tale solo in quanto non “pubblicizzabile”. In questo senso risulta anche congrua una certa visualità da videoclip che rende ad esempio estremamente patinati alcuni momenti, come quelli in cui Aaron e due improvvisate compagne di viaggio si concedono rigeneranti tuffi nell'acqua di un lago sotterraneo.

Al di fuori di quello c'è una solitudine che diventa soprattutto interiore e che provoca un movimento a sottrarre, nel quale Aaron non deve soltanto soffrire perché nessuno sa dove si trova, ma deve riflettere su uno stato proprio che è preesistente. Aaron infatti è solo già da molto tempo, per una scelta personale che non ci viene mai realmente spiegata, ma di cui cogliamo i sintomi: non risponde alle telefonate della madre, non comunica i suoi spostamenti ai colleghi d'ufficio e rompe l'unica relazione affettiva che sembrava destinata a portare qualcosa di buono. A riempire il suo vuoto interiore c'è solo la merce, quell'equipaggiamento che però si rivelerà via via superfluo, incapace di risolvere il suo problema, come il coltellino spuntato, inutile sia per scavare la roccia che lo blocca, sia per segare l'osso del braccio incastrato.

A fronte di tutto questo, 127 ore (il leitmotiv del tempo sembra anche essere ritornante nei titoli di Boyle) diventa così non tanto l'odissea fisica di un uomo costretto a lottare con la fame e le difficoltà: anzi, da questo punto di vista è interessante notare come manchino pure alcuni cliché del rapporto fra l'uomo e la natura selvaggia: non ci sono animali selvatici che attentano alla vita del nostro, il caldo non crea insopportabili disagi e la pioggia che arriva a investirlo è (forse) soltanto un'allucinazione. Molti degli errori sono anzi attribuibili unicamente al protagonista, in una sorta di reiterazione inconscia di quegli atti che gli hanno fatto scegliere inevitabilmente la solitudine come direttrice di vita.

Pertanto il film è una sorta di viaggio lisergico in una dimensione interiore che, scaricata dei cascami apparenti di un mondo basato sulla persuasione dell'autosufficienza materiale, costringe a prendere coscienza dei propri sbagli. E lo fa con una qualità visiva che, nell'alternanza di punti di vista (quello oggettivo della macchina da presa e quello “soggettivo” della videocamera cui Aaron si confessa), dei piani temporali (il presente e i ricordi) e delle possibili realtà (ciò che realmente succede e ciò che forse è sognato) crea una certa qual componente onirica: sembra insomma che tutta la vicenda sia realmente il frutto di un sogno o di una regressione psicanalitica dentro la memoria e l'inconscio del personaggio, al punto che persino il momento clou della rottura del braccio non comunica un dolore realmente autentico (pur essendo la scena certamente “forte”), in quanto rito di passaggio che nella distruzione materiale permette la rinascita interiore del personaggio.

Accusato spesso (e con ragione) di furbizia, Boyle riesce insomma a trovare un buon compromesso con il proprio narcisismo, con i virtuosismi sfrenati di montaggio e con certi accostamenti fra suono, musica e immagine, tanto da ricondurre lo stile in una forma espressiva congrua con il racconto, capace perciò di rendere il pubblico partecipe del tormento di vita di Aaron, più che della contingente necessità dovuta alla brutta situazione in cui si è andato a infilare.

Alla fine perciò si pensa alle scelte fatte e a quelle ancora da fare, e più d'uno sicuramente potrà rivedere negli sbagli del personaggio quelli magari compiuti nella propria vita: è una forma di empatia positiva, che va al di là dei facili giudizi, e che rende 127 ore un film meritevole.


127 ore
(127 Hours)
Regia: Danny Boyle
Sceneggiatura: Danny Boyle, Simon Beaufoy, dal libro Between a Rock and a Hard Place, di Aaron Ralston
Origine: Usa/UK, 2010
Durata: 90'

giovedì 11 agosto 2011

Stagione cinematografica 2010/2011

Stagione cinematografica 2010/2011

Stavolta il consueto riepilogo di fine stagione arriva con qualche giorno di ritardo, causa la necessità di recuperare alcuni film usciti sul limitare della scadenza e che, fra impegni e incertezze distributive, ho dovuto un po' “inseguire”. Idealmente questo post si colloca dunque all'1 di agosto, secondo la consolidata prassi di conteggiare la stagione cinematografica da quella data, fino al 31 luglio successivo.

Quella conclusa è dunque stata una stagione con divisioni abbastanza nette fra un'ultima parte letteralmente congestionata di blockbuster (quasi tutti battenti bandiera Universal, peraltro) e periodi di stasi, tanto che se da un lato sembra che siano usciti meno film del solito, dall'altro la percezione è quasi che il periodo interessato sia durato più del canonico anno. Un andamento a singhiozzo, fra accelerazioni e improvvisi rallentamenti, insomma, per un'annata abbastanza avara di scoperte e che è servita soprattutto a confermare alcune certezze, a consolidare talune percezioni e a ritrovare grandi Maestri come John Carpenter e John Landis. Certo, come sempre all'appello continua a mancare qualcosa che si spera sarà recuperato in seguito: in alcuni casi si tratta di film visti e non ancora recensiti (lo struggente e bergmaniano Beyond di Pernilla August, il sorprendente I ragazzi stanno bene di Lisa Cholodenko, il pluri apprezzato The Social Network di David Fincher), in altri casi invece di titoli ancora da recuperare e che sulla carta sembrano molto interessanti (20 sigarette di Aureliano Amadei, In un mondo migliore di Susanne Bier, My Son My Son What Have You Done, di Werner Herzog, Pietro di Daniele Gaglianone, Scott Pilgrim vs the World di Edgar Wright, Uomini di Dio di Xavier Beauvois).

Di seguito come sempre la lista dei film recensiti, che ricordo sempre non essere una classifica (dovrebbe far fede l'ordine alfabetico, ma molti non ci fanno caso), in coda alla quale va anche aggiunta – per amor di conteggio – la riedizione di Ritorno al futuro, che dal 1985 a oggi continua fortunatamente a fare capolino in sala. Per il resto il blog va in ferie come ogni anno e ci si rilegge a settembre. Buon Ferragosto a tutti!

16) Machete
18) Paul
23) Splice
25) Thor

venerdì 5 agosto 2011

Bitch Slap

Bitch Slap

Tre donne, Hel, Camero e Trixie, si fermano con la loro auto in pieno deserto: sono a caccia di una partita di diamanti che dovrebbe essere nascosta in quel luogo, e per scoprire il punto esatto in cui scavare hanno rapito Gage, un criminale di mezza tacca, legato a doppio filo al temibile Pinky. Mentre assistiamo ai tentativi delle tre di venire a capo del mistero, scopriamo anche i retroscena dell'avventura, il modo in cui si sono incontrate, i loro legami con Gage e Pinky, gli interessi reciproci e progressivamente anche i segreti delle rispettive vite, che le porteranno ben presto a dubitare l'una dell'altra, fino a degenerare nello scontro totale.


L'effetto di una distribuzione ritardataria permette a un film come Bitch Slap di approdare nelle nostre sale di luglio, nonostante sia stato realizzato nel 2009: il suo inserimento nel percorso della neo exploitation va quindi datato come precedente rispetto a titoli della presente stagione quali Drive Angry o Machete (che pure era del 2010). A metà strada fra il progetto Grindhouse e le derive più recenti, insomma, e in effetti il risultato pare proprio quello di un prodotto “di mezzo”, derivativo eppure originale rispetto ai modelli forniti da Quentin Tarantino e Robert Rodriguez.

Se, infatti, la matrice tarantiniana è sostanzialmente apparentabile a quella dell'exploitation classica (l'uso feticistico della katana, la figura di Kinky che sembra una versione più sopra le righe della Go Go Yubari di Kill Bill, e la stunt-coordinator Zoe Bell, coprotagonista di A prova di morte), è anche vero che stavolta non si tende soltanto alla rievocazione, quanto alla rielaborazione di uno schema che sia capace di stare nella contemporaneità. Ciò determina una interessante natura ibrida fra il progetto fattivamente grottesco ed eccessivo, e l'operazione più consapevole e riflessiva, tipica di chi non intende sforare più di tanto il recinto del genere. A tal proposito è giusto notare come il ritmo stesso sia ondivago, costretto fra la necessità di dare alla storia il tempo di srotolarsi nella sua pienezza, e i ripiegamenti autoreferenziali che creano delle vere e proprie “pause” narrative, durante le quali il film si diverte a giocare con le situazioni e il sex appeal delle tre protagoniste (in particolare si rimarca la scena in cui le tre si gettano addosso dei secchi d'acqua).

Esiste dunque una componente scopica che però si stempera nella progettualità, al punto che la carica erotica delle tre burrose protagoniste si riequilibra nel loro essere corpi iconici che devono rimandare a una tradizione, come rimarcato dai titoli di testa, che passano in rassegna un'idea di femminilità ripresa dalla tradizione exploitation. Abbiamo così Hel, che rimanda al modello delle pin up anni Cinquanta (ma più che alla “dark” Betty Page, penso alle pubblicità vintage della Coca Cola); Camero è invece l'amazzone, prototipo perfetto della donna guerriera, i cui riferimenti peraltro pescano anche da un immaginario maschile (il suo uso di droghe per darsi la carica è esplicitamente riferito al Gary Oldman di Léon); infine Trixie è la personalità apparentemente più fragile ed esteriore, essendo non a caso una spogliarellista.

Al pari della storia che segue un approccio contemporaneo alla narrazione, rimescolando le carte e giocando con la continuità narrativa partendo dal finale per poi rivelare progressivamente i retroscena, allo stesso modo la natura così definita delle tre ragazze è propedeutica a mettere in crisi le certezze dei loro ruoli: la guerriera si rivelerà perciò una romantica in crisi che è sfuggita alle autorità nascondendosi fra le suore (!), la pin up una donna che sopporta una serie non indifferente di rischi e la bellona una personalità astuta e calcolatrice.

Ciò che resta immutato è lo spazio nel quale le tre si muovono, che è puramente cinematografico nella misura in cui i continui rivolgimenti di campo non fanno mai venir meno la natura iconica di tre donne che sono corpi filmici in perenne movimento fra personalità comunque riconducibili a modelli codificati. Hel, Camero e Trixie sono discendenti di una tradizione che può essere fatta ondeggiare fra vari estremi, ma è sempre perfettamente chiusa in se stessa e aderente a un'ideale spettacolare capace di coinvolgere il pubblico. La confusione delle identità si sovrappone così a quella presente nel film, che trova la sua unitarietà nell'essere derivazione di un immaginario composito e che perciò favorisce la ricombinazione degli elementi e l'accostamento di caratteristiche apparentemente opposte.

In tal modo Bitch Slap finisce per essere un noir “serio”, ma anche una parodia; un sexploitation con curve sempre in evidenza, ma anche un modello di proto-femminismo privo di nudi reali e in cui ogni figura maschile è umiliata, meschina o inerme; un epigono del Russ Meyer di Faster Pussycat Kill Kill, ma anche un “tarantinismo”; un film vintage che guarda al passato, ma anche un prodotto figlio di logiche narrative più recenti, dove citazioni letterarie si mescolano a pratiche "basse".

E pure lo stile si adegua a questa “porosità” che è “fissità”: al segmento narrativo principale ambientato nell'unico spazio del deserto (che non a caso è un luogo ben preciso, ma anche indefinibile) si contrappongono i continui flashback girati con la tecnica del green-screen, che conferiscono una carica lisergica all'impianto visivo della storia. Tutto questo mentre gli elementi più dichiaratamente exploitation (azione, curve esplosive, violenza) si accumulano secondo una logica grottesca che tiene alta l'attenzione e mantiene sempre fresco il ritmo, e coinvolgono anche il ricorso continuo ai sopracitati flashback, talmente insistiti, da sembrare a volte una parodia dei contorcimenti del cinema attuale, basato sulle continue rivelazioni a posteriori. Niente male per un B-movie composto in gran parte da volti e maestranze della tv anni Novanta.


Bitch Slap – Le superdotate
(Bitch Slap)
Regia: Rick Jacobson
Sceneggiatura: Rick Jacobson e Eric Gruendemann
Origine: Usa, 2009
Durata: 106'

mercoledì 3 agosto 2011

Harry Potter: quel che finisce bene

Harry Potter: quel che finisce bene

Non deve essere stato facile tracciare lo schema finale di una saga lunga e complessa come quella di Harry Potter: se è legittimo immaginare che la scrittrice J. K. Rowling avesse già in mente dall'inizio il percorso che avrebbe condotto alla definitiva affermazione del maghetto nell'immaginario del nuovo millennio, di certo più problematica appare l'elaborazione della controparte cinematografica, iniziata quando ancora l'avventura cartacea non si era conclusa, e poi passata attraverso continui cambi di regista. Alla fine l'ha spuntata il misconosciuto David Yates, al timone degli ultimi quattro capitoli (ovviamente considerando la divisione in due del finale I doni della morte): proprio la scelta di questo regista appare oggi significativa, alla luce dell'eccellente risultato portato a casa con la Parte 2 della storia conclusiva. Stante infatti il mediocre debutto con L'Ordine della Fenice (peggior film della saga) è notevole constatare come il regista sia cresciuto insieme ai suoi personaggi, facendo propria quella propensione a vivere la storia come un lungo percorso da studiare e cui partecipare con empatia, fino a maturare un tocco personale che ammanta tutta l'ultima parte.

Harry Potter e i doni della morte Parte 2 non è infatti soltanto il miglior film della saga (insieme al Prigioniero di Azkaban del grande Alfonso Cuaron), ma anche un progetto ammantato dalla forza “definitiva” della conclusione, in cui il tirare le somme sul già fatto si estrinseca attraverso tre grandi direttrici: le prime due sono in realtà quasi obbligate e non stupiscono. Innanzitutto c'è da concedere rinnovato spazio a tutti i principali personaggi dell'epopea, ivi compresi gli scomparsi Albus Silente/Michael Gambon e Sirius Black/Gary Oldman, in quella che appare una affettuosa carrellata di volti, ognuno in grado di risuonare del lungo percorso compiuto insieme al protagonista. In questo frangente è bello dedicare due parole almeno alla grandissima Maggie Smith, che nonostante i terribili problemi di salute che l'hanno afflitta (nel 2008 le era stato diagnosticato un tumore al seno) ha voluto mantenere il suo posto nella saga, dimostrando la sua enorme professionalità. In pochi minuti la sua classe attoriale le permette di riverberare la grande carica umana e positiva del suo personaggio, la professoressa MacGranith.

La seconda direttrice è squisitamente narrativa e certamente è quella che più risente della filiazione dalla fonte, in quanto il film deve far venire al pettine una serie di proverbiali nodi spiegando le motivazioni che muovono i personaggi, la loro reale natura e i segreti finora celati. Un compito, ribadisco, in buona sostanza dovuto e che non stupisce, nonostante l'arguzia di talune rivelazioni.

Dove il film vince completamente la sua battaglia - tanto da riuscire a ricomprendere e dare completezza alle due direttrici sopra citate - è sul versante squisitamente visivo, nel quale Yates riesce a infondere un notevole sense of wonder che stupisce anche in virtù del consolidamento di una saga che aveva ormai introiettato completamente l'idea fantastica di un mondo basato sulla magia. Come a ritrovare lo stesso sguardo vergine che aveva connotato il Chris Columbus di Harry Potter e la pietra filosofale, Yates si lascia abbandonare ai prodigi dei suoi personaggi attraverso una caleidoscopìa di colori e toni che ammaliano lo spettatore. Nello stesso tempo, però, questa attitudine fabulistica non è disgiunta da un approccio comunque estremamente lucido e capace di conferire finalmente senso al tutto: non si tratta più soltanto di dare “normalità” alle magie dei protagonisti, che nei precedenti capitoli apparivano anche un po' stucchevoli. Al contrario, si tratta di tracciare finalmente le coordinate di un universo coerente che, nelle sue derivazioni fantasy, si dimostra autosufficiente rispetto al mondo reale, non più soltanto ripiegato negli interstizi dello stesso (come dimostrato fin dall'inizio con l'attraversamento del pilastro nella stazione per raggiungere il “mezzo binario”), e capace di mantenere sia un'apertura ideale verso ogni possibile soluzione quanto una “chiusura” che ne delimiti i propri confini.

In questo senso, la macchina da presa di Yates attraversa continuamente muri e membrane, suggerisce una perenne trasparenza delle barriere, snocciola passaggi segreti e lavora sulla profondità di campo (complice anche un uso intelligente del 3D, purtroppo non nativo) trasmettendo continuamente l'idea di uno spazio attraversabile in ogni sua direzione e pertanto “aperto”, ma allo stesso tempo capace di delimitare luoghi ben precisi come la scuola, la foresta, la casa, la stanza segreta e i luoghi in cui di volta in volta nascondersi o resistere al male. La “barriera magica invisibile” che protegge Hogwarts e che i nemici non riescono a vedere pur subendone gli effetti, diventa così il paradigma della filosofia alla base dell'approccio prescelto. Siamo insomma esattamente addentro all'idea (platonicamente intesa) di “fantastico”, capace cioè di essere al contempo stabile eppure in perenne divenire, e ciò determina quella completezza dell'universo narrativo che fin dall'inizio ha dato una marcia in più alla serie.

In virtù di questo approccio estremamente flessibile, la storia riesce a trovare la sua ragione d'essere in modo più compiuto che in passato, poiché gli stessi tormenti dei protagonisti, le tentazioni del Male e le possibile redenzioni dei nemici sono pedine dello stesso schema aperto e allo stesso tempo chiuso. Compito identico svolgono i ritorni su volti e luoghi già noti, il recupero di scene viste nei precedenti film e in cui si denota il lavoro che la saga ha naturalmente compiuto sul corpo dei suoi attori, mutati perché cresciuti fra un capitolo e l'altro, fino alla deriva “futura” dell'epilogo, dove il make up invecchia i personaggi ma con discrezione, come a voler ancora una volta stare a metà fra la concretezza di una truccatura classica e la naturalezza di un corpo che ha vissuto i propri percorsi afferrando ogni possibile occasione di vita.

Ne è eccezionale riprova la splendida sequenza post-mortem in cui Harry Potter elabora un incontro impossibile con Silente in una immaginaria stazione deserta: per la prima volta l'attore Daniel Radcliffe è liberato dall'oppressione della “maschera” del suo personaggio, così come lo stesso Potter è liberato dalla dinamica pressante dello scontro con Voldemort e può permettersi di fare il punto della situazione, con una conversazione che sembra estremamente naturale seppur significativa per lo svolgimento della storia: il tutto in un intervallo che pur essendo dentro la sua testa (fantastico) è ugualmente vero e significativo (reale), come gli ricorda lo stesso Silente, delimitando e aprendo ancora una volta lo schema narrativo.

Ecco dunque che le stesse rivelazioni dei segreti non diventano soltanto uno stanco cascame della logica dei colpi di scena, ma sono supportate da uno stile che riesce a elaborarne gli spunti visivamente, dando l'impressione di una storia capace di sopportate i cambiamenti restando solida, e per questo capace di andare al di là del semplice entertainment.

Farewell, mr. Potter!


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lunedì 1 agosto 2011

Captain America: Il primo Vendicatore

Captain America: Il primo Vendicatore

1941. Il giovane Steve Rogers sogna di arruolarsi nell'esercito per combattere i nazisti, ma il suo fisico gracile sembra precludergli ogni possibilità. La sua ostinazione, però, convince il Dr. Abraham Erskine a utilizzarlo come cavia per l'esperimento che, nelle speranze dell'esercito, dovrebbe servire a creare un corpo di Super Soldati. L'operazione si rivela un successo, ma i nazisti uccidono Erskine subito dopo l'esperimento, impedendogli così di creare nuovi campioni. Rogers diventa così un'attrazione per le masse da convince a investire sui titoli di guerra, ma il suo sogno è combattere in trincea, contro i nazisti e l'Hydra del “Teschio Rosso” Johann Schmidt, la divisione speciale di ricerca dell'Asse che in segreto sogna di scalzare lo stesso Hitler e dominare il mondo. E quando Roger otterrà la sua occasione, portandola a termine con successo, inizierà la leggenda di Capitan America.


Come già ribadito in passato, i vari titoli che formano l'esalogia dei Vendicatori sono caratterizzati da un approccio sostanzialmente industriale alla materia d'origine, in quanto mere riduzioni di un'opera cartacea preesistente. Ciò è evidente anche nella scelta dei registi, dove l'unica eccezione di un autore come Kenneth Branagh (responsabile non a caso di quel Thor che si staglia finora come il miglior lavoro dei cinque già realizzati), è controbilanciata da un mestierante come Jon Favreau (artefice dei due Iron Man) e un regista “in cerca d'autorialità” e pertanto ibrido come Louis Leterrier (suo L'incredibile Hulk).

In uno schema così fortemente definito, la variabile imprevista si rivela però proprio l'unico regista che merita la qualifica di director professionale, Joe Johnston, autore di quest'ottima pellicola su Capitan America. Regista da sempre sottovalutato e abile narratore, Johnston è infatti uno di quelli che un tempo avremmo definito “artigiani”, capaci cioè di mettere in scena un'opera narrativa con ottimo gusto spettacolare e senza cercare l'alibi di una forzata autorialità: fatto che, peraltro, non gli impedisce di lavorare da sempre sottotraccia inserendo nelle sue pellicole degli elementi tematici, non sufficienti a definire una vera e propria poetica, ma comunque capaci di ispessire i termini del rapporto fra il suo sguardo e la materia trattata. Ecco dunque che Captain America rinnova la capacità di Johnston di lavorare sull'intervallo esistente fra due differenti dimensioni che, nel caso specifico, sono quella esteriore dell'icona e il retroterra motivazionale dell'uomo.

Il personaggio di Steve Rogers, infatti, rappresenta una classica figura a metà fra il realismo della guerra e la superficialità di un meccanismo spettacolare che abbisogna di icone capaci di elevare le gesta di un popolo e un esercito a livello mitico. Johnston iscrive il suo eroe esattamente in quello spazio intermedio fra i due opposti: non siamo messi a conoscenza delle reali motivazioni che spingono il giovane soldato a voler combattere a tutti i costi il male, ci vengono fornite solo evasive spiegazioni sull'odio per i prepotenti e quand'anche sono tirate in ballo possibili velleità di ripercorrere la strada paterna, il tema viene poi lasciato cadere in tutta fretta senza essere mai recuperato (neppure quando Rogers si ritrova a salvare gli uomini di quello stesso battaglione nel quale aveva militato il genitore). Steve Roger, insomma, più che un personaggio è l'espressione di una dinamica fenomenologica, in base alla quale ci si aspetta che il protagonista assuma il suo ruolo centrale nella storia, senza troppi interrogativi. L'aspetto sul quale più si dilunga la storia, infatti, non è tanto l'eroismo acquisito da Capitan America: anzi, è molto interessante notare come Johnston riesca a ossequiare la forza mitica dell'eroe negandone sostanzialmente qualsiasi capacità superiore. A parte pochi e ben dosati momenti in cui lo vediamo compiere balzi da primatista olimpionico, oppure lanciare il suo celebre scudo, Capitan America è infatti nulla più che un abile e acrobatico guerriero in maschera, che combatte i nemici corpo a corpo senza fare sfoggio di particolari capacità superiori a quelle di un Indiana Jones qualsiasi.

Questa “medietà” dell'eroe è ciò che gli permette di non elevarsi al di sopra di quel popolo che pure si troverà a rappresentare, ma che invece lo rende un personaggio pari ai commilitoni, restituendogli una dimensione che prima gli era negata: Capitan America, insomma, è un individuo che riesce a far prevalere la propria umana “normalità”, al contrario di Steve Rogers che, nella sua natura gracile e problematica, era l'autentico outsider della storia.

Ne consegue che Cap trova se stesso solo quando riesce a ossequiare una natura iconica e spettacolare che lo renda centrale in uno spazio definito unicamente in quanto fiction: le tappe del suo percorso sono tutte scandite dal tema della rappresentazione. Si comincia con l'arruolamento, in cui l'unica motivazione reale – al netto dei pretesti enunciati in precedenza e di scarsa sostanza – è la propaganda che incita il giovane a fare domanda. I manifesti nelle strade, i cinegiornali, spingono per una corsa alle armi che lo vedono in prima fila, fiero difensore di un ideale e oppositore dei bulli che nel buio della sala cinematografica gridano il loro irrispettoso disappunto verso eventi che non sentono come propri. Il secondo movimento è la sua trasformazione in icona mediatica per convincere le folle a investire nei titoli di guerra: qui Johnston sembra compiere una rievocazione in chiave vaudeville degli stessi temi denunciati da Clint Eastwood in Flags of Our Fathers, per effetto dei quali la macchina propagandistica sembra essere l'unico elemento che legittima l'esistenza di un conflitto che la pellicola lascia per il resto in perenne fuoricampo. Anche quando infatti Capitan America inizia a combattere sul serio, lo spazio che delimita è totalmente cinematografico, iscritto fra le velleità di un cattivo inverosimile (il Teschio Rosso) e i lasciti spielberghiani di un'avventura piena e dai toni quasi steampunk (non a caso Schmidt rimprovera il Fuhrer che perde tempo a “scavare nel deserto”, in un chiaro rimando a I predatori dell'Arca Perduta). Il movimento finale è quello della traslazione di Cap nel presente, attraverso il geniale espediente dell'ibernazione, ripreso dai fumetti originali: anche in questo caso il risveglio del personaggio avviene attraverso una rappresentazione che però l'eroe per la prima volta sembra non assecondare, lasciando intravedere una possibile deriva problematica demandata a futuri sequel.

La caratura “di mezzo” di Capitan America racchiude in questo modo l'essenza stessa di un personaggio il cui senso è quello di riverberare la verità attraverso la finzione, come testimoniato dal fatto che la sua importanza storica è sempre stata più simbolica che reale: la lettura dei suoi albi, infatti, non lascia trasparire particolari qualità narrative, affascinando più per il portato metaforico dell'eroe che per le reali vicende da lui descritte. Questa, più di altri, è la caratteristica precipua di una nazione (gli Stati Uniti d'America) in perenne ricerca di simbologie, miti e metafore che ne legittimino il ruolo nel mondo. Joe Johnston era la persona giusta per questo, e il suo film si dimostra pertanto vincente. Ora aspettiamo di vedere cosa ci riserverà Joss Whedon con l'ultimo capitolo della saga, The Avengers, in uscita nel 2012.


Captain America: Il primo Vendicatore
(Captain America: The First Avenger)
Regia: Joe Johnston
Sceneggiatura: Christopher Markus, Stephen McFeely (ispirato al fumetto creato da Joe Simon e Jack Kirby)
Origine: Usa, 2011
Durata: 124'