"C'è chi crede in dio o nel denaro. Io credo nel cinema, nel suo potere. L'ho scoperto da ragazzino, mi ha aiutato a fuggire da una realtà in cui ero infelice. È una delle forme d'arte più alte che l'uomo ha concepito. Credo nel suo futuro."
(John Carpenter)

venerdì 22 luglio 2011

Quadri del cinema

Quadri del cinema

Mi piacerebbe rivendicare la paternità di una così splendida definizione come “Quadri del cinema”, riferita ai manifesti cinematografici “dipinti”, come si usavano realizzare con continuità nei decenni passati da grandissimi artisti come Reynold Brown, Bill Gold, Frank McCarthy, Drew Struzan, Renato Casaro, Sandro Symeoni, Enzo Sciotti e via citando. Invece il merito è dell'amico e collega Massimo Causo che me l'ha gentilmente “ceduta” per il titolo della nuova rubrica che ho iniziato a tenere su DVDWeb.it.

Da tempo infatti cercavo di fare il punto sull'idea del manifesto disegnato, caduto in disuso dopo l'adozione delle terribili composizioni fotografiche (quelle che io chiamo semplicemente “i faccioni”, perché vedono sempre al centro di tutto il volto extra-large dell'attore di turno) e che oggi, per un curioso corto-circuito sensoriale di cui fatico a comprendere i motivi, sta tornando in auge unicamente attraverso la forma dell'edizione limitata per intenditori.

E' accaduto con film come Tron: Legacy, con Transformers 3 e sembra proprio che il trend sia destinato a non fermarsi qui: il che provoca in realtà un doppio contorcimento sensoriale. L'ex strumento di massa (il manifesto dipinto) recupera una sua dimensione artistica diventando oggetto per pochi e restituendo così davvero legittimità all'idea del “cartellone” come “quadro”, frutto della mano di un artista. D'altra parte però questo avviene proprio per effetto di una manovra pubblicitaria, che sfrutta la risonanza dell'evento esclusivo riconducendo dunque il disegno a strumento di diffusione pubblicitaria, esattamente come avveniva in passato.

Ci sarebbe dunque di che discutere a lungo sulle implicazioni di simili scelte, magari lo si farà, ma nell'immediato la rubrica vuole soprattutto incuriosire il pubblico, far scoprire e valorizzare i nuovi quadri, e vuole costituire soprattutto un atto d'amore nei confronti del disegno come forma di diffusione artistica e insieme pubblicitaria di una pellicola cinematografica.

Il primo appuntamento con la rubrica è dedicato a Captain America: Il primo vendicatore, in uscita oggi nelle nostre sale, per la regia di Joe Johnston. Film che naturalmente spero di poter anche recensire come già accaduto con i precedenti “capitoli” del progetto Vendicatori: ci vorrà un po' di tempo perché un dissidio attualmente in corso fra esercente e distributore ha privato Taranto di tutti i film targati Universal e dovrò fare trasferta per vederlo (naturalmente nella speranza che il film sia valido e meriti attenzione).

Di seguito l'elenco agli articoli di volta in volta scritti, riportati in ordine cronologico (lettura dal basso verso l'alto):

lunedì 11 luglio 2011

The Conspirator

The Conspirator

1865. Gli Stati Uniti d'America sono usciti dalla Guerra Civile e si avviano a diventare una nazione unita. Il Presidente Lincoln viene però assassinato mentre si trova a teatro e le autorità auspicano una condanna ferma e veloce per i colpevoli, che vengono stanati senza perder tempo. Della difesa d'ufficio di Mary Surratt, la donna che ospitava i cospiratori nella sua pensione, viene incaricato il giovane avvocato Frederick Aiken, eroe di guerra ora votatosi alla giurisprudenza. Aiken non tarda a capire come le prove contro Mary Surratt siano meramente indiziarie, ma che ciononostante la sua condanna è fortemente voluta dalle autorità che, in nome della ragion di stato, stanno calpestando ogni fondamento del diritto.


Avete mai tenuto a qualcosa di più grande di voi?

Robert Redford è un regista prezioso: innanzitutto perché possiede la lucidità di chi sa ancora credere in un cinema civile che parli di valori ed etica senza preoccuparsi di risultare inattuale. In questo ricorda molto George Romero. Ma anche perché il suo modo di approcciare i suddetti valori non è quello del supino accondiscendente, ma al contrario quello dell'artista che deve stimolare il dubbio. Spesso la visione dei suoi film non permette la tranquilla uscita dalla sala: al contrario le sue opere continuano a lavorarti dentro, a macerare fino a metterti di fronte che in effetti il “sugo della storia” non è il ribadire una verità, ma al contrario mostrarne tutte le variabili che di volta in volta la mettono in crisi. In questo ricorda molto William Friekdin, e mi piace pensare che – se il grande regista de L'esorcista non fosse ormai da tempo avviluppato in una crisi frutto di una certa autoreferenzialità – magari un film come The Conspirator l'avrebbe diretto proprio lui.

Ciò che infatti il film pone in essere non è tanto il ribadire la giustezza di uno stato del diritto, quanto il mostrare l'evidente conflitto tra ragioni alte, perorate con foga da parti contrapposte, decise a tutto pur di dimostrare l'evidenza del proprio essere dalla parte del Bene. Non, dunque, Bene contro Male, ma diversi tipi di aspirazioni positive dal cui incontro si genera il caos di una coesione sociale e storica ormai acclarata. La prima verità è infatti quella della Legge, perorata da Aikin, che si batte per difendere la sua cliente e impedirne l'esecuzione. Sebbene il film parteggi chiaramente per questo personaggio, non lo fa in virtù di una adesione astratta, ma perché il suo punto di vista è uno dei pochi ad essere filtrato dalla consapevolezza e dal dolore: che è quello di un ex eroe di guerra, restio ad accettare il ruolo di difensore di una donna che ritiene pregiudizialmente già colpevole, e che viene infine convinto dalla possibilità di fare carriera. Aiken è naturalmente il personaggio più sfaccettato del film poiché il suo giungere alla strenua difesa del diritto avviene attraverso un processo di formazione che parte dal principio per ricadere nella pura umanità, e nella presa di coscienza di come la dignità della persona sia la base di un fondamento sociale.

Peraltro, proprio la non suscettibilità dell'ordine costituito è il punto d'appoggio utilizzato dagli oppositori di Aiken per perorare la loro causa e far condannare Mary Surratt: in particolare, il segretario di guerra Edwin Stanton e, ancor più, il pubblico ministero Joseph Holt. I due operano in nome di una coesione sociale che potrebbe essere minata alle fondamenta da una assoluzione della donna e quindi agiscono in nome di quello che ritengono un ideale superiore alla Legge difesa da Aiken. La loro natura negativa, anche in questo caso, non è data dall'astrattismo legalitario, ma dal fatto che il processo da loro messo in piedi è una rappresentazione esattamente paritetica a quello spettacolo teatrale che ha portato all'assassinio di Lincoln, con tanto di uccisore che si ritrova sul palcoscenico secondo una logica puramente spettacolare. E' parimenti interessante notare la perfetta scelta di casting (e le foto d'epoca sono testimoni che non si è cercata la mera rassomiglianza fisica con i modelli) che costruisce due figure antitetiche: Stanton trova infatti nella fierezza di Kevin Kline l'evocazione di un modello pragmatico, che non trova compiacimento in ciò che fa, ma è mosso dall'ardore di una Ragione di Stato che giudica imprescindibile. Al contrario, Holt, complice la sublime caratterizzazione luciferina del grande Danny Huston, è individuo che gode del potere derivatogli dalla posizione in cui si trova, e grazie alla quale può plasmare a suo piacimento il dibattito giudiziario, decidendo della vita e della morte di “sacrificabili” vittime.

Ulteriori verità sono poi quella divina, incarnata dal sacerdote che protegge i cospiratori, e soprattutto quella materna, che porta la stessa Surratt a farsi carico del proprio destino pur di non compromettere la salvezza del figlio complice negli omicidi (è lei infatti a pronunciare la frase qui riportata in esergo sul credere in qualcosa di più grande). Il fatto che Aikin tenti di sviluppare una strategia difensiva volta a screditare il figlio della sua cliente pur di salvarle la vita, permette al film di giocare le sue carte drammaticamente più rilevanti, evidenziando come quello in atto sia uno scontro fra differenti concezioni della verità, dove esiste uno scopo differente che fa appello a convinzioni profondamente radicate e pertanto inconciliabili.

La risultante di questo scontro è apparentemente il Caos, poiché ciò che alla fine sembra trionfare su tutto è il potere di una rappresentazione che calpesta la verità dei fatti, ma in realtà Redford è regista dotato di lungimiranza e la didascalia finale ci informa che il fallimento della difesa ha poi portato Aikin ad abbracciare la causa del giornalismo. Il che ci riporta, in un magnifico esempio di circolarità, agli albori della carriera attoriale di Redford, al finale de I tre giorni del Condor, o alle cronache di Tutti gli uomini del presidente, sintomo di un sentire che è profondamente connesso alla Storia e alla società americana, e che non recede dalla convinzione di poter ancora cambiare il mondo.


The Conspirator
(id.)
Regia: Robert Redford
Sceneggiatura: James D. Solomon (soggetto di Gregory Bernstein e James D. Solomon)
Origine: Usa, 2011
Durata: 123'