Pulgasari
XIV secolo. La popolazione contadina è oppressa dalla tirannia del governatore e alcuni ribelli, capeggiati dal giovane Inde, decidono di partire per le montagne dove organizzare la resistenza. Un editto però ordina l’esproprio di tutto il ferro a disposizione del popolo per la fabbricazione di armi, compito che viene affidato all’anziano padre della giovane Ami, di cui Inde è innamorato. Ma l’uomo però si rifiuta di obbedire e lasciare la popolazione senza attrezzi e per questo viene imprigionato fino alla morte: prima di spirare, l’uomo affida le sue preghiere a un pugno di riso che assume la forza del mostro Pulgasari. Goloso di ferro, il mostro cresce a dismisura fino a diventare l’arma definitiva dei ribelli contro il tiranno e favorisce così la caduta del regime.
Qualsiasi considerazione si voglia tentare su un film come Pulgasari non può prescindere dall’incredibile storia alle sue spalle, che ha visto il regista Shin Sang-ok e la moglie (e attrice) Choi Eun-hee (interprete di Ami) rapiti nel 1978 dal regime nordcoreano per conto di Kim Jong Il, all’epoca ministro della propaganda del partito comunista, convinto di dover portare avanti i suoi compiti attraverso il cinema. Frustrato infatti dalla mancanza di registi capaci di realizzare i suoi voleri, Kim decise di “importarne” uno dal Sud: rinchiuso in una prigione dorata, ma anche sottoposto a vessazioni dopo un tentativo di fuga, Shin Sang-ok realizzò alcuni film prima di riuscire a riguadagnare la libertà. Pulgasari è considerato il suo capolavoro e rappresenta un ibrido estremamente curioso di influenze diverse.
Parte kaiju-eiga, parte affresco storico intinto nelle direttive del cinema di propaganda, il film rovescia l’assunto giapponese del “cinema di mostri” nipponico, rendendo la creatura eponima non propagazione della natura violata, ma estensione del desiderio di libertà del popolo oppresso da un regime (chiara metafora del capitalismo inviso all’ideologia comunista). Shin tratta però Pulgasari con voluta ambiguità, rendendolo allo stesso tempo amabile e temibile, secondo un dualismo che è comunque insito nella stessa matrice giapponese del genere, in cui le categorizzazioni di “buono” e “cattivo” sono alquanto sfumate: non a caso il film utilizza comunque professionalità del kaiju eiga vero e proprio, in particolare affidando la caratterizzazione del mostro ai celebri Ma-chan (che già aveva impersonato in patria Minilla, buffo figlio di Godzilla, negli anni sessanta) e Kenpachiro Satsuma, che in quegli anni “indossava” la tuta gommata dello stesso Godzilla. Gli effetti speciali sono inoltre curati da Teruyoshi Nakano, altro nome celebre del cinema fantastico giapponese, la cui bravura si può osservare nelle scene di distruzione ai danni di curatissime miniature.
Si attua in questo modo un curioso cortocircuito di senso, dovuto alla derivazione coreana di un genere giapponese, peraltro già mutuato dai monster-movie americani (il primo Godzilla, infatti, nasce dopo il successo di King Kong e Il risveglio del dinosauro).
Shin è bravo a risolvere questa apparente contraddizione cercando proprio un tono difforme che renda Pulgasari un lavoro composito, spesso in bilico fra ironia e dramma. Il mostro nasce dunque come una buffa creatura, volta ad attirare l’attenzione e la simpatia dello spettatore, che ne può in questo modo accettare con maggiore naturalezza la caratura di “eroe” al servizio della causa di liberazione. L’aspetto estremamente rotondeggiante del cucciolo cede perciò il passo a un colosso dotato di corna e aspetto massiccio, sorta di ibridazione fra Godzilla e il Daimajin (non a caso altra figura che accorre in aiuto del popolo oppresso), che non ha caratterizzazione che non sia il semplice procedere imperterrito, sospinto dal desiderio di un popolo che pure affronta una serie di difficoltà nel nutrirlo. Si tratta pertanto di una creatura che, in ossequio alla matrice propagandista del progetto, esiste in quanto attuatrice di una dinamica che prescinda da una precisa caratterizzazione caratteriale, elemento seminale invece delle pellicole nipponiche.
Qui sta la geniale ambiguità cui si faceva accenno in precedenza perché, nei fatti, Pulgasari attua le stesse dinamiche del regime, costringendo gli operai a privarsi del ferro con cui lavorare la terra o cuocere il cibo e, addirittura, la sua vita discende direttamente dal sangue versato dalla giovane Ami, che nel finale attuerà anche un sacrificio rituale per fermare l’insaziabile appetito del mostro, diventato quindi a tutti gli effetti una minaccia dopo la caduta del regime. Shin sembra perciò suggerire che l’aberrazione non discenda di per sé dalla propria natura, quanto dalla prospettiva in cui la stessa è inquadrata, che porta a tracciare la linea di demarcazione fra protezione e distruzione. Allo stesso tempo, il regista sembra riflettere nelle dinamiche del suo film una precisa consapevolezza circa le storture prodotte da un’ideologia che si ritiene giusta, ma che diventa suo malgrado causa di ulteriori sventure: la rivoluzione come causa di violenza, quindi, in una spirale che trova solo nell’innocenza e nell’altruismo disinteressato una possibile via d’uscita.
Spettacolare nella resa visiva, grazie alle imponenti scene di massa, ma consapevole della goffaggine tipica dei mostri in “tuta di gomma”, Pulgasari resta perciò un esperimento al limite, la cui visione risulta preclusa ai più esclusivamente a causa della scarsa circolazione in Occidente (sono comunque reperibili varie versioni sottotitolate in inglese o italiano).
Nel 1996 Shin ha scritto una versione americana della storia, Galgameth, vista anche in Italia, dove si accentua l’aspetto fiabesco della storia e la caratura giocosa del mostro che crea empatia con il pubblico più giovane: un film che è diventato per questo un classico degli appuntamenti televisivi statunitensi.
Pulgasari
(id.)
Regia: Shin Sang-ok
Sceneggiatura: Kim Se Ryun
Origine: Corea del Nord/Giappone, 1985
Durata: 95’
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