"C'è chi crede in dio o nel denaro. Io credo nel cinema, nel suo potere. L'ho scoperto da ragazzino, mi ha aiutato a fuggire da una realtà in cui ero infelice. È una delle forme d'arte più alte che l'uomo ha concepito. Credo nel suo futuro."
(John Carpenter)

mercoledì 19 novembre 2008

Torino 2008

Torino 2008

Non è facile mettere in ordine i pensieri riguardo al Torino Film Festival. Da un lato c’è il ricordo di quello che, fino a pochi anni fa, era il più bel festival d’Italia, fautore di una visione artistica e critica all’insegna della mescolanza totale dei generi e dei formati, senza classificazioni tra “alto” e “basso” e fra “autori” e “industria”, che non a caso era definito – e rivendicava di esserlo – un festival “scanzonato”. E questo tanti anni prima di Venezia e delle sue (diversamente significative) retrospettive “nocturne”.

Poi arrivò la tempesta, sotto forma di una pesante riorganizzazione che ha visto il festival diventare parte di quel più grande progetto che mira a fare di Torino un polo culturale e produttivo alternativo a Roma, con la sua attivissima Film Commission e il Museo del Cinema. E il festival ha smesso gli abiti “alternativi” e ha indossato giacca e cravatta per dare forma a un appuntamento più istituzionale. Al vertice della piramide, come personaggio carismatico in grado di fare da garante della nuova identità è stato posto Nanni Moretti, figura simbolo di una cinefilia rigorosa, ma allo stesso tempo controversa e conservatrice, contrassegnata anche dal disprezzo per alcuni generi che del festival di Torino hanno paradossalmente fatto la storia (primo fra tutti l’horror).

L’edizione 2008 sulla carta si preannuncia in ogni caso degna di nota. Lasciamo pure da parte le cifre che, giustamente, i selezionatori sbandierano con tanto orgoglio, le prime visioni dei registi più blasonati e tentiamo di navigare a vista in un programma davvero corposo: la prima cosa che salta all’occhio è l’ottima qualità delle retrospettive, che permettono di esplorare le carriere di due autentici maestri come Jean-Pierre Melville e Roman Polanski. A questi si affianca l’omaggio alla British Reneissance degli anni Ottanta e Novanta (quella di autori come Ken Loach e Stephen Frears).

Quindi la sezione sperimentale “La Zona”, curata con competenza e passione dall’amico e collega Massimo Causo con gli omaggi dedicati a Stephen Dwoskin, Ken Jacobs e al maestro giapponese Kohei Oguri, punta di diamante di un’offerta ricercata e potenzialmente molto interessante.

Da segnalare anche, nella sezione “Italiana.Doc” i nuovi lavori di Mauro Santini, Paolo De Falco e Daniele Gaglianone, fra gli sguardi più curiosi e vitali del cinema italiano alternativo, sempre in cerca di stimoli sui quali sperimentare interessanti soluzioni visive e narrative in grado di far trasparire la traccia delle emozioni (quelle che in fondo sempre chiediamo nel buio della sala).

E poi ancora gli “Eventi Speciali” e l’interessante spazio “L’amore degli inizi”, dedicato agli esordi di autori come Peter Del Monte, Claudio Caligari, Giuseppe Bertolucci.

Tutto questo senza dimenticare, ovviamente, la sempre presente speranza di nuove folgorazioni: i presupposti sono quindi buoni per lasciare da parte le perplessità e intraprendere l’avventura con curiosità e soddisfazione, sperando che il Torino Film Festival si confermi come un appuntamento degno di nota, al di là dei paragoni con il suo ingombrante passato.

L'appuntamento sotto la Mole è dal 21 al 29 novembre.

Il sito del Torino Film Festival

mercoledì 12 novembre 2008

Las Horas Muertas

Las Horas Muertas

Due coppie in un camper sono ferme ai confini di una statale immersa nel deserto: un cecchino li prende di mira trasformando la vacanza in un incubo.

Quattro protagonisti. Il deserto. Unica possibile via di fuga, come una ferita a squarciare la monotonia del paesaggio una strada, attraversata quasi esclusivamente da camion. In mezzo al tutto e al nulla. E poi un cecchino, che prende di mira i ragazzi.

Basta davvero poco a Haritz Zubillaga per dare forma a un’idea tanto semplice quanto precisa, che pesca da modelli consolidati con la sicurezza di chi sa quel che vuole e lo persegue con convinzione, regalando ai tredici minuto di girato un impatto stilisticamente maturo e narrativamente teso.

Las Horas Muertas (anche noto come Killing Time) diventa così la cronaca di un disfacimento sociale già in atto: non sappiamo nulla dei protagonisti, i nomi dei loro interpreti compaiono come pallottole caricate in canna su fondo nero nella breve sequenza dei titoli di testa e tanto ci deve bastare. Ma è subito evidente come i quattro siano immersi in una convivenza di cui farebbero volentieri a meno, dove dominano gli egoismi delle parti, elementi di uno schema ridotto alle componenti essenziali e virato tragicamente al nero. La presenza del cecchino appare quindi come la materializzazione di quell’oscuro sentire che già attanaglia gli animi e non ha per questo bisogno di motivazione: può essere il suo un gioco perverso o una sorta di punizione per un mondo che deve costantemente imparare a convivere con l’orrore perché non ha possibilità di concepire altro.

Non a caso in questo microcosmo fatto di terra (quella brulla e pietrosa del deserto), aria (quella del cielo che sovrasta tutto e sembra non conoscere orizzonte), fuoco (quello che brucia le carni) e tempo (il poco concesso dalle implacabili pallottole del cecchino) quello che manca è proprio l’elemento vivificatore per eccellenza, l’acqua, mentre il suo unico surrogato, la birra, è il primo bersaglio delle mortali pallottole.

E si procede così, inesorabilmente, in un puro meccanismo di tensione che Zubillaga conduce stringendo sui volti e curando particolarmente i dettagli, dando significato a ogni gesto e a ogni pulsione, come il desiderio che Samuel prova per Ana, la più spregiudicata (e sensuale) del gruppo: nell’attimo del maggiore pericolo, quindi, è ancora l’istinto di parte a reclamare la sua centralità, secondo l’ottica dell’assurdo cara all’intera pellicola. Il tutto è poi immerso in una fotografia dai colori saturi, che rimanda tanto agli archetipi dell’horror anni Settanta (lo scenario è praticamente lo stesso de Le colline hanno gli occhi) quanto a quello del western, in particolare di quello italiano per l’insistente fischiettare del killer, che contrappunta le azioni e costituisce la ficcante colonna sonora del film.

Il sonoro è d’altronde l’altro importante elemento che Zubillaga cura con particolare dedizione, dando forma a una cacofonia di rumori che vanno dal costante sibilo delle pallottole al rombo dei camion in marcia sulla statale; e poi il montaggio, che permette al film di vantare una tempistica molto precisa, con sprazzi di orrore che fanno improvviso capolino nei momenti di apparente calma, mentre le traiettorie descritte dai proiettili forniscono nuove possibili vie di fuga a protagonisti/cavie osservati beffardamente nei loro vani tentativi di salvare la propria vita.

Il tutto inesorabilmente conduce alla normalizzazione dell’orrore, alla presa coscienza di un’esistenza in trincea che sembra rinfacciare all’uomo moderno e alla sua sicurezza, tracotante eppure fragile, la propria misera condizione di forzata prigionia all’interno di un alveo sempre più oscuro e decadente, che permette infine al film di sfociare senza remora nell’horror. Ma stavolta non ci sarà il Boris Karloff del bellissimo Bersagli a fermare romanticamente il mostro.

Las Horas Muertas è pertanto un’opera che lavora sulle percezioni e sul capovolgimento della realtà, sulla confusione dei sensi che non riescono a definire più lo spazio nel quale ci si muove e che giustifica le domande lasciate senza risposta, le motivazioni inespresse e la situazione di perenne incertezza sul quale l’assunto parte, si muove e infine giunge.

Premiato (meritatamente) con l’Anello d’Argento per il miglior cortometraggio al Ravenna Nightmare Film Fest 2008.

Las Horas Muertas
Regia e sceneggiatura: Haritz Zubillaga
Origine: Spagna, 2007
Durata: 13’

Las Horas Muertas su Vimeo
Sito della produzione Basque Film

lunedì 10 novembre 2008

Hush

Hush
 
Due ragazzi, Zakes e Beth, viaggiano in auto lungo una statale sferzata da una pioggia torrenziale: lui deve fermarsi a ogni stazione di servizio per affiggere alcuni manifesti pubblicitari e il rapporto fra i due è segnato da continui litigi. D’un tratto Zakes sembra intravedere, nel rimorchio di un camion che lo precede lungo la strada, una ragazza urlante. Dopo aver chiamato la polizia ed essersi fermato alla successiva stazione di servizio, il ragazzo ha un ennesimo litigio con la compagna e i due si separano. Ma quando Zakes torna indietro per recuperarla, Beth è sparita e gli indizi lasciano pensare che sia stata rapita dall’autista del misterioso camion. E’ l’inizio di una notte di tensione!

Opera d’esordio di Mark Tonderai, già attore e dj per la BBC Radio1, che qui si cimenta nel doppio ruolo di sceneggiatore e regista, affidando poi interamente la narrazione all’interprete William Ash, che riesce a districarsi bene fra le varie situazioni offerte dal copione, regalandoci un bell’esempio di performance fisica, totalmente immersa nella vicenda. In effetti che Hush, a dispetto del titolo sia un film ossessivo è indubbio, nonostante l’assunto da road-movie porti l’azione a spaziare parecchio. Anzi, parte dell’interesse del film sta proprio nella dialettica che mette in scena fra spazi claustrofobici (il rimorchio del camion, i bagni pubblici, gli abitacoli, le abitazioni) e la vastità degli spazi nei quali protagonisti e macchine si muovono (la statale, i campi, le case immerse nel nulla). D’altronde il film racconta dichiaratamente di un difficile incontro di mondi nel momento in cui eleva la particolare situazione thriller ad archetipo del conflitto tra due innamorati: il rapimento con conseguente avventura per ritrovare l’amata diventa infatti per Zakes un momento di espiazione delle proprie mancanze in quanto compagno spesso assente e superficiale; e, va da sé, la perdita assume anche valore in quanto momento qualificante per comprendere l’importanza di chi non è più vicino. 

Temi senz’altro semplici, ma che il film manovra con convinzione, non preoccupandosi di essere a ogni costo originale: d’altronde la struttura è puramente di genere, con tutto ciò che ne consegue in termini di esemplificazioni e ingenuità. Il protagonista quindi corre, ansima, si ferisce, si nasconde, spesso sbaglia, è avventato e stimola in questo modo l’attenzione dello spettatore che secondo un meccanismo tipico del thriller, passa dall’identificazione per il dramma alla posizione critica di chi teme per il destino che un singolo errore può determinare.

Quel che poi resta è ancora una volta lavoro di regia: praticamente tutto il film è girato con la macchina a mano, secondo lo stile più recente, tipico non del Real-movie (il film non è certo in soggettiva, ma adotta un punto di vista tradizionale), ma di quella espressività propria di chi si vuole immergere nell’azione per comunicare l’urgenza del momento. In questo senso la “sporcizia” dell’inquadratura “mossa” scontorna i luoghi dell’azione regalando una qualità espressionista che impedisce allo spettatore il conforto della chiarezza dei fatti. La stessa visione della donna prigioniera nel retro del camion è quasi una fulminea visione, un flash, del quale è pure lecito dubitare, potrebbe in fondo essere soltanto un sintomo del nervosismo e della stanchezza che affligge un protagonista collerico e frustrato per la crisi in atto nel suo rapporto di coppia. E il successivo tour-de-force impedisce di pensarci troppo delegando tutto al finale risolutore.

In questo modo Tonderai riesce a conferire al film una qualità espressionista, complice anche un bel lavoro con il direttore della fotografia Philipp Blaubach, che satura i colori al punto giusto, creando un impasto di tinte, fra il nero della strada, il blu delle carrozzerie, i gialli e i rossi delle varie luci che compaiono sulla statale. Anche questo in fondo contribuisce a confondere le percezioni regalando a una vicenda ben codificata un look non banale e vagamente visionario.

Ne viene fuori un puro meccanismo della tensione, fatto di sentimenti forti e traiettorie in continuo rinnovamento, che si articola attraverso una narrazione tesa e stringata, capace di esaurire completamente il suo scopo nei canonici 90 minuti di durata, omaggiando anche classici come Duel o il mai troppo lodato The Hitcher, ed evitando per fortuna la facile lusinga di creare il classico villain da B-movie (nonostante il killer si comporti proprio come un boogeyman senza volto, con il suo agire calmo e apparentemente distaccato). Piccoli grandi meriti che permettono ad Hush di ritagliarsi un giusto spazio nel panorama già abbastanza ricco delle proposte d’oltremanica.

Il film è stato presentato al Ravenna Nightmare Film Fest 2008 e al momento non si hanno notizie di una possibile distribuzione italiana.

UPDATE: distribuito in Italia attraverso il solo circuito dell'home video il 24 Gennaio 2013, con il titolo Panico - Hush.


Hush
Regia e sceneggiatura: Mark Tonderai
Origine: Uk, 2008
Durata: 90’