"C'è chi crede in dio o nel denaro. Io credo nel cinema, nel suo potere. L'ho scoperto da ragazzino, mi ha aiutato a fuggire da una realtà in cui ero infelice. È una delle forme d'arte più alte che l'uomo ha concepito. Credo nel suo futuro."
(John Carpenter)

mercoledì 28 settembre 2011

L'alba del pianeta delle scimmie

L'alba del pianeta delle scimmie

Will Rodman è uno scienziato i cui lavori sono finalizzati a trovare una cura contro l'Alzheimer per guarire il padre malato. Lo scimpanzé cui viene però somministrato il farmaco sperimentale manifesta segni di violenza e viene abbattuto, lasciando al mondo un erede, che Will adotta e cui dà il nome di Cesare. Nel tempo Cesare dimostra di aver ereditato i geni modificati della madre e dimostra una spiccata intelligenza, crescendo perfettamente a suo agio con l'habitat umano. Almeno fino a quando non aggredisce un vicino per difendere il padre di Will, che dopo essere apparentemente guarito grazie alle cure del figlio inizia a manifestare nuovamente i segni della malattia. Così Cesare viene rinchiuso in un istituto, dove – maltrattato dagli uomini – si vede contrastato anche dalle scimmie...


Al pari dei personaggi che mette in scena, la saga del Pianeta delle scimmie dimostra di aver saputo inaspettatamente superare i traumi provocati dal pessimo remake di Tim Burton, e di essere stata capace di riguadagnare la sua centralità nell'immaginario contemporaneo, in modo intelligente e filologico. Questo nuovo capitolo azzera la continuità della saga anni Settanta, si colloca come prequel diretto dell'indimenticabile originale con Charlton Heston (non considerando dunque tutti i seguiti) e, pur attingendo da un plot di base che ricorda quello del quarto capitolo 1999: Conquista della Terra (dove compariva per la prima volta il personaggio di Cesare), riserva non poche sorprese.

Tutto ruota attorno all'esigenza di determinare la propria identità, autentica linea guida non solo dei personaggi, ma del progetto tutto: così come il nuovo film deve infatti trovare la sua dimensione all'interno di un immaginario preesistente, così i suoi protagonisti devono affrontare una ricerca del proprio posto del mondo o addirittura della propria stabilità razionale ed emotiva all'interno di un complesso di relazioni minate dalla caducità del corpo. L'evoluzione è dunque fisica e anche relazionale, al pari di quanto accade con Cesare che, nel suo progressivo avvicinamento alla dimensione umana, deve anche passare per un confronto con la legge della giungla, evidente nel rapporto con le scimmie che condividono la sua prigionia. D'altro canto, invece, il personaggio di Will cerca la propria specificità di persona attraverso la ricerca medica, utile a guarire quel padre che – complice l'Alzheimer – sta letteralmente perdendo la sua identità. La sceneggiatura è abile nell'evitare tanto le tentazioni superomiste dello scienziato che si crede Dio, quanto le spinte meramente rivoluzionarie, che restano confinate al prototipo settantesco.

I personaggi sono infatti affrontati secondo una prospettiva squisitamente “interiore”, per effetto della quale la ribellione di Cesare non è collegata agli abusi dei carcerieri o alla diffidenza degli uomini, ma piuttosto all'esigenza propria di trovare un posto nel mondo attraverso la correlazione empatica con l'ambiente, i propri simili e l'umanità: con sagacia l'approdo è ibrido, le scimmie fuggiasche saranno qualcosa in più che semplici primati, una sorta di anello di congiunzione con la razza umana, e prenderanno possesso di un alveo di verde all'interno dello spazio metropolitano di San Francisco, a metà fra la tradizione mitologica (la sequoia per molte culture è un albero sacro) e la modernità ispirata dai palazzi.

Ciò che dunque si cerca è una sintesi, la stessa che spinge il film ad aprire un arco narrativo nuovo, ma interno alla tradizione tracciata dal primo Pianeta delle scimmie, chiamato in causa attraverso piccoli in-jokes; allo stesso tempo c'è un discorso prettamente teorico e tecnico che la pellicola chiama in causa attraverso il tour-de-force stilistico rappresentato dall'uso della motion-capture e degli sfondi digitali su cui si muovono i personaggi. Rifacendosi alla lezione di Avatar, il film mette in scena il racconto di un istinto libertario attraverso una messinscena estremamente orchestrata e tecnologica, che rende il particolare look visivo del film antitetico al trionfo del make up e dei trucchi prostetici della saga originale (e del remake burtoniano, sorta di deriva ultima possibile per il lavoro dei maghi del lattice): la sensazione è quella ancora una volta di sintesi fra la leggerezza immateriale del digitale e la pesantezza di un corpo che deve essere superato per dare vita a una sorta di smaterializzazione empatica nell'ambiente circostante, capace per questo di rendere il tutto estremamente coerente a livello visuale.

Non a caso la sensazione che il film offre è quella di un viaggio costante in una dimensione alterata, quasi lisergica, dove si incontrano istanze in continuo conflitto, appianate dalla capacità di sintesi mostrata dal regista Ruper Wyatt. Pertanto, l'ultimo movimento che il film mette in scena è quello della ricollocazione della storia di Cesare in un immaginario anni Settanta. La progressione mostra infatti un continuo slittamento del baricentro narrativo da una modernità fatta di esperimenti genetici e scenari asettici, a location più vicine alle iconografie del passato (lo zoo, il Golden Gate, l'elicottero, gli scontri di massa con la polizia), come se il film, nel riappropriarsi di elementi tipici della mitologica della saga, volesse al contempo farli propri, metabolizzarli e superarli.

L'evoluzione di Cesare si sposa pertanto con una propensione a riprendere la lezione del passato per poi farle fare un ulteriore passo in avanti, lungo una strada che produca un risultato inedito nella sua familiarità: il tutto in modo lineare e capace di risultare ad ogni modo appassionante anche a uno sguardo in cerca del semplice spettacolo. Una vera sorpresa, che porta ad aspettare con interesse il possibile seguito.


L'alba del pianeta delle scimmie
(Rise of the Planet of the Apes)
Regia: Rupert Wyatt
Sceneggiatura: Amanda Silver, Rick Jaffa, Jamie Moss (ispirata al romanzo di Pierre Boulle)
Origine: Usa, 2011
Durata: 105'

martedì 27 settembre 2011

Sergio Bonelli non c'è più

Sergio Bonelli non c'è più

Sergio Bonelli non c'è più. La formattazione del blog fa sì che questa frase si ripeta per tre volte di seguito (fra titolo, sottotitolo e inizio del testo), e non è casuale. E' infatti necessario metabolizzare la scomparsa del più grande editore italiano di fumetti, una figura altrimenti creduta eterna e capace di attraversare indenne le epoche, come una certezza, un baluardo di stabilità nel continuo fluire delle cose. E invece un giorno come tanti ci svegliamo e ci rendiamo conto che così non è.

Il concetto di tempo peraltro è quanto mai opportuno per ricordare la figura di Bonelli: tempo che per molti è quello passato. A scorrere i commenti in giro per la rete sembra infatti che l'unica prospettiva possibile dalla quale inquadrare il lavoro dell'editore milanese sia quella della nostalgia. Molti ricordano di essere “cresciuti” con i fumetti di Bonelli, alcuni addirittura di aver imparato a leggere con essi, di come Tex o Zagor o anche Dylan Dog siano stati compagni dell'adolescenza. Sempre dunque eroi di un tempo lontano, fatto che lascia presupporre che a un certo punto siano stati abbandonati e confinati nell'alveo dorato della memoria.

La cosa mi colpisce perché, al contrario, per me il nome di Bonelli è da sempre declinato al presente, da lettore delle testate attuali: innanzitutto Nathan Never, che solo con il festeggiamento del ventennale quest'anno inizia a essere considerato a tutti gli effetti un “classico”, e poi la collana dei Romanzi a fumetti o le miniserie come Caravan, Greystorm e Lilith. Perché, in effetti è vero che ogni generazione ha avuto e ha tuttora il “suo” Bonelli e qui ci si inserisce a gamba tesa nell'eterno dibattito se egli sia stato o meno un conservatore o un innovatore: provate a intavolare il discorso in un qualsiasi ambito fumettistico, vedrete che i fronti sono perfettamente divisi, c'è chi pensa che il suo grande torto sia stato quello di non essersi mai voluto adeguare ai tempi, chi invece ha apprezzato la capacità di sperimentare formati e nuove testate pur nell'ambito di un impianto ben consolidato e alieno alla facilità delle mode del momento.

Proprio l'anno scorso, visitando la bellissima mostra itinerante L'audace Bonelli che ha fatto tappa anche in Puglia, a Brindisi, riflettevo ancora una volta su questa natura sfuggente, che di fatto rende Bonelli un classico, una figura dunque perfettamente a metà fra tradizione e innovazione, allo stesso modo con cui lui portava in giro la sua aura di leggenda con la disinvoltura dell'appassionato ancora capace di emozionarsi per una storia o un disegno. Che è poi la sensazione che provo ogni volta che sfoglio quegli albi in bianco e nero, dove percepisci il segno della china e quella fattura “artigianale”, da bottega degli artisti che neppure l'uso più recente del retino riesce a scalfire. Alla base c'è infatti la fiducia in una forma di racconto che si avverte sempre contemporanea, anche quando guarda al passato, perché in effetti i meccanismi dell'avventura sono sempre in grado di affascinare: mi viene in mente un azzardato paragone con Avatar, che nel dispendio più alto di tecnologia oggi immaginabile, accarezza ancora un'ideale di avventura pieno e tradizionale, distante da contorcimenti narrativi e tutto orientato a sentimenti di empatia con i personaggi. Il collegamento arriva dunque non soltanto con Sergio, ma anche con il suo grande padre Gian Luigi, l'inventore di Tex, il quale confessava di vincere l'ansia del foglio bianco solo quando sentiva di riuscire a partecipare emotivamente e intimamente delle imprese e dei sentimenti del suo eroe.

Alla fine è tutto qui: Bonelli lo si è sentito per tanto tempo come una figura vicina perché parlava un linguaggio universale che toccava corde profondamente radicate in un immaginario globale che da un lato riusciva a intercettare con l'atteggiamento scafato dell'editore di razza (si pensi al citazionismo esasperato di alcuni fra i suoi eroi più moderni), e che dall'altro sapeva veicolare bene creando a sua volta uno stile e una serie di consuetudini che hanno fatto scuola. E' per questo che i suoi personaggi sono anche in eterna oscillazione fra l'ideale “passato” dell'eroe tutto d'un pezzo (categoria dove probabilmente Tex risalta maggiormente) e quello moderno e postmoderno del protagonista insofferente, problematico e perfettamente dentro alle vicissitudini esistenziali dei tempi più complessi (da Mister No a Ken Parker a Nathan Never), capaci per questo di essere coerenti con epoche di transizione.

Dentro al fluire del tempo, ma impermeabile ad esso dunque. Forse “bonelliano” vuol dire semplicemente questo.


venerdì 23 settembre 2011

On Location

On Location

Tempo addietro avevo promesso di aprire qui sul Nido un'etichetta dedicata ai “Luoghi del cinema”: lo spunto in realtà nasceva da alcuni viaggi fatti in giro per l'Italia, dove mi ero imbattuto (vuoi per caso, vuoi per scelta) in posti suggestivi scelti da vari registi per girare scene di film che avevo amato. Ciò che dunque mi interessava era poter raccontare questi incontri, le sensazioni che si provano di fronte a un luogo che materializza e per certi versi ti permette di confrontarti con il cinema, creando una “mappa emotiva” che partendo dalla materialità del luogo arriva alla fuggevole persistenza della memoria.

Poi, per i casi della vita, questa etichetta non è mai nata, ma l'idea resisteva e veniva rafforzata a ogni nuovo viaggio, fino a quando una fortunata proposta l'ha trasformata nella collaborazione che da oggi si instaura con il portale WhatYouLove, dedicato alle “passioni in movimento” e che ha nel viaggio uno dei suoi temi prediletti.

Si è insomma riprodotto lo stesso meccanismo del viaggio: scegli una meta e lei sceglie te, e così nasce “On Location”, la rubrica che aperiodicamente e con spirito “avventuroso” racconterà alcuni luoghi d'Italia (ma non è escluso di andare anche oltre) che almeno per una volta sono stati set cinematografici. Con la speranza di non affrontare i soliti posti ormai abusati, ma di cercare scorci un po' più interessanti e curiosi.

Si parte oggi con il castello di RoccaCalascio, in Abruzzo, che nel 1985 è stato usato come location per il bel film fantasy LadyHawke, di Richard Donner. Di seguito il link al quale, come già con i Quadri del cinema, di volta in volta saranno aggiunti gli aggiornamenti. Buon viaggio e buona lettura!


mercoledì 21 settembre 2011

Carnage

Carnage

New York. Penelope e Michael Longstreet invitano nel loro appartamento Nancy e Alan Cowan per confrontarsi su quanto accaduto ai rispettivi figli: il giovane Cowan ha infatti colpito il piccolo Longstreet con un ramo d'albero, procurandogli delle lesioni al volto. Il confronto, inizialmente civile, diviene lentamente più serrato fino a sfociare in una guerra delle parti, che rompe e ricompatta i fronti, dando ben presto vita a un tutti contro tutti.


Un gioco al massacro, perfetto, implacabile, oltremodo chirurgico, nel quale i personaggi sono trattati alla stregua di topi da laboratorio. La cosa in sé non ci coglie peraltro impreparati, sia perché alla base c'è un noto testo teatrale, sia perché le coordinate del cinema di Polanski da sempre oscillano fra il dramma e quella tendenza a irridere il soggetto che si mette in scena, tipica di un autore con il gusto del paradosso.

Ciò che invece colpisce è la lucida delegittimazione del dialogo che dà vita a una struttura involutiva capace non già di risolvere il contenzioso in atto fra i personaggi, ma di esaltare lo stesso, rinchiudendo i quattro ancor più nel loro reciproco isolamento. Con sagacia, la dicotomia fra le famiglie si sfalda facilmente per dare vita a un meccanismo dove i fronti si mescolano, nascono improvvise alleanze e simpatie fra i due uomini, dove Alan Cowan non difende il figlio ma anzi ne esalta la natura di teppista e l'armonia apparente dei Longstreet evidenzia tutte le sue crepe. L'incontro di tesi contrapposte, insomma, non fornisce soluzioni al dramma, ma anzi lo alimenta e sottolinea lo spazio incolmabile fra i contendenti.

Da questo versante è assolutamente gustoso notare come, in sostanza, Polanski metta in scena un meccanismo tipico dei dibattiti televisivi: il suo scopo è cioè conferire centralità a personaggi che non sono i reali protagonisti della vicenda, ma delle figure vicarie che pure si scontrano in una situazione di assoluto distacco dal reale, e pretendono di poter decifrare quanto accaduto meglio dei due autentici artefici della situazione. Lo scontro fra i ragazzi è dunque accennato soltanto nei titoli di testa per poi lasciare spazio a un effettivo “fuori-onda” che pretende di essere il vero momento qualificante della vicenda, sintomo della confusione linguistica e di contenuto dell'epoca attuale: non sono dunque i due giovani a confrontarsi nel merito di quanto successo, ma due coppie di genitori che dimostrano praticamente di non avere mai stabilito nessun legame tangibile con i propri figli. E qui naturalmente si torna a un concetto puramente polanskiano come quello della famiglia in quanto nucleo non coeso ma basato sulla mera coabitazione e sopraffazione reciproca, che aveva già reso grandi titoli come Rosemary's Baby o Luna di fiele.

Rispetto a quei film, però, Carnage è volutamente distante dai personaggi, che considera visibilmente come degli intrusi da osservare nella loro bislacca pretesa di poter leggere il mondo, pur risultando impermeabili allo stesso. E' infatti interessante notare come, pur vomitandosi (letteralmente e praticamente) addosso le peggiori accuse, i quattro restino sostanzialmente indifferenti alle stesse e anzi fieri dei reciproci ruoli. Ciò che realmente li destabilizza è il danno inferto a quegli oggetti che ne legittimano lo status, come il telefono cellulare per Alan, i libri d'arte per Penelope o la borsetta per Nancy. Non a caso i personaggi evitano quasi del tutto anche lo scontro fisico, accanendosi proprio contro gli oggetti, come accade ad esempio con i tulipani. Tali feticci rappresentano infatti le pietre angolari di un mondo che è tutto lì, al chiuso di una situazione ovattata dove le terze parti sono assenti o veicolate attraverso forme di intermediazione capaci comunque di preservare la distanza (principalmente le telefonate).

In virtù di questa struttura, trova una sua ragione d'essere anche l'esuberanza del parlato che affligge la narrazione (ascrivibile peraltro all'origine teatrale), con dialoghi a tratti didascalici, che però altro non fanno che esaltare proprio l'inutilità della parola in quanto forma fallimentare di comunicazione in un mondo ormai non più predisposto al confronto.

L'autentico colpo di genio sta dunque tutto nell'inquadratura finale che – in forma non a caso squisitamente muta e priva di dialogo – reimmette lo spettatore nel mondo mostrandoci la riconciliazione dei figli, avvenuta nella piena normalità dello scorrere degli eventi, mentre i genitori hanno ormai consumato il loro dramma al chiuso delle pareti domestiche. Al grande regista basta una sola immagine per svelare l'inganno di un confronto fallimentare in partenza e aprire nuovamente lo sguardo alla vita.


Carnage
(id.)
Regia: Roman Polanski
Sceneggiatura: Yasmina Reza e Roman Polanski (dalla pièce Il dio del massacro, di Yasmina Reza)
Origine: Francia/Germania/Polonia, 2011
Durata: 75'

lunedì 19 settembre 2011

Contagion

Contagion

Beth Emhoff contrae una nuova e misteriosa malattia in seguito a un viaggio d'affari a Hong Kong. Portata in ospedale dal marito Mitch, muore immediatamente ed è di poco seguita dal figlio. Le autorità si mobilitano per circoscrivere e studiare il nuovo e minaccioso virus, in una corsa contro il tempo mirata a fermare il macabro conteggio delle vittime, che va aumentando di giorno in giorno. Il mondo precipita gradualmente nel caos, fomentato da blogger come Alan Krumwiede, che cavalca l'onda della paranoia diffondendo dati sui segreti custoditi dalle case farmaceutiche e su eventuali cure al morbo. Nel frattempo Mitch è fra i pochi a essere dichiarato immune e per impedire che anche la figlia Beth sia infettata si chiude in casa con lei, cercando di resistere fino al termine dell'epidemia e alla diffusione del vaccino su scala mondiale.


Rispettare e sovvertire, in una parola: innovare. Nel mettere mano a un genere classico come il disaster-movie, Steven Soderbergh utilizza un approccio al contempo filologico e infedele rispetto ai modelli conclamati - ciascuno scelga pure quelli che ritiene più opportuni essendo la lista molto lunga. Da un lato abbiamo infatti l'evoluzione esponenziale del male e il conseguente precipitare del mondo nel caos, saggiamente evidenziata dalla presenza di corpi iconici che, colpiti inesorabilmente dal morbo, urtano la sensibilità e l'immaginario dello spettatore, non abituato a vedere violate le immagini immutabili e perfette dei divi. Con consumata abilità la scelta cade su personaggi a volte insospettabili, creando svolte narrative a tratti cariche di un forte pathos e che lasciano aleggiare l'interrogativo dell'impotenza: chi è realmente destinato a salvarsi in un meccanismo che appare simile a quello della roulette russa?

Allo stesso tempo, però, Soderbergh lavora su una traccia visiva che gli è fornita dalla giustapposizione di ambienti diversi, mediando fra la necessità spettacolare di un meccanismo che ha bisogno di totali e luoghi aperti e devastati, e una sensibilità “da camera” che si estrinseca attraverso spazi definiti e chiusi. In tal modo si viene a creare una dicotomia “dentro/fuori” che è scontornata con intelligenza da un uso del digitale (il film è girato con macchine RED) capace di creare impasti di colore dal sapore vagamente impressionista e che a tratti sembra riecheggiare persino le scelte cromatico-oniriche del cinema di Wong Kar-Wai. Questa scelta si avvantaggia del doppio registro impresso alla narrazione dalla necessità e dal timore del contatto con l'altro. Se infatti il morbo si trasmette con il semplice tocco dei corpi, la possibilità di stabilire un momento d'unione fra le persone diventa contemporaneamente la minaccia più concreta, ma anche la prospettiva più agognata (perché impossibile).

Ciò risulta evidente soprattutto nei personaggi di Mitch (il sempre grande Matt Damon) e di sua figlia Jory, costretti a vivere in una sorta di limbo e ad agognare un contatto con l'esterno che pure la situazione di caos rende estremamente improbabile e difficoltoso. A contraltare di questa situazione difensiva sta il triste destino della moglie e madre Beth, che ha contratto la malattia in una circostanza di estrema socializzazione, al punto da disperdere il proprio ruolo in un tradimento che rivela come la mancanza di una visione comune con il marito fosse già embrionale nel loro nucleo: il virus diventa così una manifestazione tangibile di un isolamento già presente, e naturalmente il film lo estende a vari livelli, rendendo la pandemia una sostanziale metafora della moderna incomunicabilità.

Da questo punto di vista è interessante notare come le vittime del contagio tentino un approccio con l'esterno nell'unico modo possibile, attraverso la tecnologia: le macchine sostituiscono il contatto fisico in una sorta di virtualizzazione della comunicazione che è il contraltare perfetto all'immaterialità del contagio, la quale si riflette a sua volta nel particolare look “digitale” del film.

In questo modo Soderberg riesce a modernizzare uno schema altrimenti desueto e a immergerlo in una contemporaneità che è centrata a livello innanzitutto visivo e tematico, prima ancora che narrativo. Pertanto l'evoluzione del male non si ferma alla propagazione fattuale del virus, ma è implementata da un esubero comunicativo che aggiunge elementi a una situazione di caos: il mondo di Contagion è una cacofonia di suoni che stridono e mappano una situazione sociale alla deriva, dove addirittura il significato stesso di comunicazione viene ben presto sovvertito. L'emblema di questo rovesciamento è il personaggio di Alan (un ottimo Jude Law), sorta di nuovo messia della realtà virtuale, che immette – come un virus – informazioni inesatte nella Rete generando una pandemia digitale che rispecchia, contestualizza e rafforza quella reale e innesca un gioco di rimpalli con la stessa. Nell'economia del racconto, Alan rappresenta lo speculare del Whitacre visto nel precedente The Informant! o del simpatico Ocean della trilogia con George Clooney: in tutti i casi, infatti, questi personaggi rappresentano l'elemento destabilizzante che fa emergere le falle del sistema e ne rivela la pochezza, ma in questo caso senza il corollario della bonaria ironia che rendeva quei precedenti esempi godibili e ameni. Al contrario stavolta la sensazione è quella di un nervo scoperto che viene colpito con precisione.

Proprio la complessità e l'eterogeneità degli elementi e dei livelli chiamati in causa riescono a restituire un'idea di kolossal per il resto abbastanza schivata da uno stile registico che appare molto agile e alieno alle pesantezze del blockbuster. E se il risultato globale può a tratti dare l'impressione di un certo narcisismo, basta la bellissima sequenza in cui il salotto di casa Emhoff viene reinventato come sala da ballo per Jory a rinnovare l'emozione e l'impressione che forse, più che della fine, questo sia il racconto di una possibile ricostruzione.


Contagion
(id.)
Regia: Steven Soderbergh
Sceneggiatura: Scott Z. Burns
Origine: Usa, 2011
Durata: 106'

mercoledì 14 settembre 2011

Super 8

Super 8

1979. Il piccolo Joe resta improvvisamente orfano di madre, morta per un incidente sul posto di lavoro: suo padre Jackson ritiene responsabile del lutto Louis Dainard, che era arrivato ubriaco in fabbrica e per questo era stato sostituito dalla donna. Qualche mese dopo, Joe si dedica al film horror in Super 8 che l'amico Charles sta girando con grande passione, e nel quale è stata coinvolta anche Alice, la figlia di Dainard, di cui lo stesso Joe è segretamente invaghito. Durante una notte di riprese presso la stazione ferroviaria, i ragazzi sono così testimoni di uno spaventoso incidente, provocato dal dottor Woodward, che fa deragliare il treno e poi intima ai ragazzi di non raccontare a nessuno cosa hanno visto. Ben presto le cause del folle gesto iniziano a chiarirsi quando una misteriosa creatura inizia ad aggirarsi per la zona, mentre l'esercito impone il coprifuoco in città.


La prospettiva più esaltante è sottrarre finalmente il genio di J. J. Abrams ai contorcimenti narrativi delle sue invenzioni televisive, per vedere piuttosto in lui un autore completo e capace di instaurare una proficua dialettica con l'immaginario cinematografico degli ultimi trent'anni. Se infatti Mission Impossibile III rappresentava un tentativo ambizioso e non del tutto riuscito di ibridare il format della classica spy-story con le strategie narrative di Alias, ben più interessante si era rivelato l'esperimento di rivitalizzare le coordinate dell'universo di Star Trek attraverso un approccio che guardava direttamente alle epopee spaziali di George Lucas. Non appare pertanto peregrino il fatto che un gioiello come Super 8 innesti una vicenda che presenta echi da Cloverfield (che Abrams stesso aveva prodotto) su un'architettura visiva e tematica che si rifà direttamente allo Steven Spielberg d'annata.

L'operazione compiuta da Abrams diventa pertanto ricognizione filologica su uno stile che è contemporaneamente memoria condivisa e forza propulsiva di un cinema ritenuto evidentemente come modello imprescindibile per leggere tanto il reale quando la fantasia che da esso deriva. Siamo ai confini del manierismo, laddove il regista non solo riproduce con fedeltà intere inquadrature di E.T. o Incontri ravvicinati del terzo tipo, ma addirittura lavora con la macchina da presa per conferire a ogni passaggio una natura avvolgente, girando intorno ai protagonisti, come ad abbracciarli, ma anche come a voler riprodurre a livello visivo l'effetto della rotazione della pellicola nel caricatore della cinepresa Super 8.

La bravura dimostrata dall'autore sta tutta nel saper sfruttare simili elementi mantenendo sempre un rapporto empatico e non strettamente teorico con i personaggi, indagati nelle proprie emozioni e utili a riflettere spielberghianamente l'idea di una comunità articolata, anche divisa, ma capace di dare vita a una comunione d'intenti. Abrams riflette questo proposito da un lato nelle difficoltà sopportate dai ragazzi per portare a termine il loro film, dall'altro nella strenua battaglia dell'alieno contro le forze che vogliono impedirgli di portare a termine la sua missione e che non a caso operano nell'inganno e nel silenzio.

Al pari dei misteriosi cubi che servono a formare l'astronave della creatura (e che sembrano guardare anche a Transformers), il lavoro che Abrams svolge di concerto con i suoi personaggi è quello di recuperare gli elementi primari della mitopoiesi e del sense of wonder, cioè quelli del cinema e, in ultima istanza, della realtà. Si tratta di un lavoro sotto molti aspetti artigianale e ammantato dall'evidente soddisfazione del fare, che si riverbera in un tripudio di elementi materici (il caricatore di pellicola, la cinepresa, i modellini, i trucchi e le vernici di Joe) ma anche di una certa caratura immateriale che affonda naturalmente in inquietudini più profonde, al pari di quanto i film spesso chiamati in causa (in particolare gli invasion-movie dei Cinquanta) facevano con le isterie collettive, filtrate attraverso lo schematismo dei B-movie. Oggi, più che alle paure dei russi o ai complotti militari, pure chiamati in causa con forza, dobbiamo guardare alle relazioni personali: da quelle più difficili fra rivali (il vicesceriffo e l'uomo che ha causato suo malgrado la morte della moglie) a quelle più complesse e articolate fra amici che si rimproverano le rispettive mancanze, come accade nel bel rapporto fra Joe e Charlie.

Questa natura a metà fra ricapitolazione e riappropriazione di un sentimento originale arriva quindi alla necessità di tarare lo spirito di una comunità attraverso la possibilità di ristabilire l'emozione della prima volta. Il film pertanto sta tutto in una serie di inizi: la nuova vita di Joe che, in seguito alla morte della madre deve imparare a far da sé; il suo contrapporsi per la prima volta a un padre autoritario che gli nega la possibilità di effettuare le sue scelte; il primo amore per Alice; fino alla spiritosa metafora degli zombi evocati dal film in Super 8. Si tratta in tutti i casi di stabilire una rinascita, una connessione che rivitalizzi o inneschi nuovi e virtuosi rapporti, per colmare una distanza fra elementi e persone altrimenti destinate a restare chiuse nelle rispettive ostilità. Il tutto attraverso le possibilità offerte da un cinema che è prospettiva privilegiata per vedere il mondo, elemento unificante di affetti, che svela segreti (la natura dell'alieno), chiarisce i sentimenti e aiuta a conservare le memorie di ciò che si è perduto (i filmati di famiglia di Joe), e che permette dunque la saldatura fra il fantastico e il reale.

Il toccante momento finale dell'incontro ravvicinato con l'alieno diventa così la sublimazione di questo spirito di avvicinamento fra i personaggi e fra i vari livelli su cui si articola l'intero racconto. A completamento del tutto resta, durante i titoli di coda, la divertente visione del film in Super 8: il frutto delle fatiche collettive è infatti ormai completato e se sarà proiettato in un festival (come Charlie spera) rappresenterà a sua volta un possibile nuovo inizio.


Super 8
(id.)
Regia e sceneggiatura: J. J. Abrams
Origine: Usa, 2011
Durata: 112'


mercoledì 7 settembre 2011

Lo squalo

Lo squalo

Nelle acque di Amity, una tranquilla isoletta vicina alla costa atlantica degli Stati Uniti, una ragazza viene fatta a pezzi da quello che si sospetta essere un grande squalo bianco. Martin Brody, capo della polizia locale, vorrebbe chiudere le spiagge, ma si scontra con il consiglio comunale che non intende compromettere l'apertura della stagione turistica, autentico polmone dell'economia locale. Brody trova supporto ai suoi timori nell'esperienza di Matt Hooper, scienziato dell'Istituto Oceanografico, ma le autorità non sembrano voler sentire ragioni, forti anche del fatto che la presenza di una simile creatura non ha precedenti nella storia del luogo. Tutto questo finché ulteriori attacchi ai danni dei bagnanti non li convincono a ingaggiare l'abile pescatore Quint. Con lui, Brody e Hooper partono per una caccia che si rivelerà un'autentica sfida, dove ben presto i confini fra cacciatori e preda sfumeranno fino a ribaltarsi.


Si potrebbe credere che il cinema di Steven Spielberg sia stato sviscerato a sufficienza, ma persiste tuttora una errata attitudine a inquadrare ogni film unicamente dalla prospettiva degli incassi e del successo economico, generando valutazioni imprecise. Ad esempio, un insano e snobistico atteggiamento cinefilo ha spesso portato un film come Lo squalo a essere ricondotto nel cono d'ombra del precedente Duel, in quanto tardo e "commerciale" epigono di un fiero modello indipendente basato sui meccanismi mitologici dell'uomo contro il Leviatano. Sicuramente non va negato come il successo al botteghino abbia innescato dinamiche che poi hanno prodotto delle ricadute estetiche e contenutistiche molto significative sul cinema a venire, ma Lo squalo resta in sé un modello encomiabile di espressività, che rispetto al citato predecessore deve porsi non come un superfluo cascame, ma piuttosto come una evoluzione.

Spielberg riesce infatti a compiere una straordinaria operazione di sintesi amplificando il livello di risonanza mitica già innescato da Duel partendo da uno schema narrativo che si situa nel solco dei classici monster-movies. Come più volte dimostrerà nella sua carriera, il regista americano è grande nel costruire una struttura capace di innalzare un fatto specifico a livello universale e globale, pur restando ancorato alla lezione di chi lo ha preceduto. Pertanto, la lotta solitaria fra l'uomo e il mostro perde il suo carattere solitario e diventa stavolta condivisa, e se Brody è sicuramente una figura aliena rispetto alla comunità di Amity (in quanto proveniente da New York e non nativo del luogo – elemento originale perché assente nel romanzo da cui il film è tratto), nondimeno non è isolato nella sua odissea, ma condivide la stessa con compagni d'avventura che, insieme, formano una sorta di modello ideale di comunità: Quint è l'esperienza pratica sul campo, Hooper la teoria imparata attraverso l'osservazione e gli studi, e i due insieme estroflettono quella necessità di un confronto sul campo con un demone che rispetto a Brody è ancora interiore, e metaforizzato dalla sua paura dell'acqua: risulta in tal modo esemplare la scena in cui i due uomini esibiscono le rispettive cicatrici, come a legittimare la loro presenza fisica sul teatro di una scena che però ha in Brody (semplice osservatore dell'atto) il suo protagonista principale, sebbene ancora inconsapevole.

Se, dunque, la caccia allo squalo diventa il percorso di formazione del poliziotto, la creatura resta comunque un archetipo di inquietudine assoluta che investe e chiama in causa ogni personaggio: la dinamica del singolo (Brody) si articola dunque all'interno di una rete di relazioni che rende il racconto corale e complesso. La lotta dell'uomo si innalza pertanto a un livello mitico perché racchiude in sé il senso dello stare all'interno della comunità: non a caso a Brody è demandato il ruolo della difesa del proprio spazio, in quanto poliziotto, secondo una dinamica che potremmo avvicinare a quella dello sceriffo nei classici film western. E lo squalo, sebbene autentico villain del film, è sostanzialmente identificato nell'oceano stesso grazie alla geniale trovata di celarne la presenza allo spettatore per tre quarti della durata.

Questa coralità si riflette poi nella struttura filmica che Spielberg tesse con abilità consumata (e a dir poco incredibile, considerando i mastodontici disagi sopportati durante la fase delle riprese): il regista, infatti, nel mettere in scena questa nuova storia e nello sfruttare ogni possibile spunto in grado di rendere universale la vicenda, chiama in causa i possibili modelli passati, consapevole com'è che la costruzione del nuovo non può prescindere dalla ricontestualizzazione del vecchio e dalla sua lezione. Ecco dunque che il primo attacco dello squalo, con la bellissima inquadratura della donna ripresa dal fondo del mare, costituisce un generoso omaggio al capolavoro di Jack Arnold Il mostro della laguna nera, in quanto rappresentante dell'epoca gloriosa dei monster movie; pensare di unire questi spunti all'impegnativo confronto uomo/natura dello strepitoso Moby Dick di John Huston (dal quale Spielberg riprende fedelmente alcune inquadrature durante la caccia allo squalo) è un colpo di genio che solo un grande regista poteva avere! Il tutto senza dimenticare che, la già citata responsabilità imposta a Brody dal suo ruolo di difensore della comunità, lo allontana dalle manie dell'Achab di Gregory Peck, chiaro indice di una dialettica che Spielberg instaura con i classici, confrontandosi con essi senza complessi di subalternità.

Lo squalo è per questo un film-ponte, in grado di unire spunti tra loro differenti in modo virtuoso, per creare un affresco potente e mitico: ma è anche un magnifico tour-de-force espressivo e tecnico. Nell'era della computer grafica può risultare di poco conto l'impresa compiuta dalla troupe fra le acque dell'oceano, ma la testardaggine mostrata da un regista che ha voluto girare on location (come già in Duel) ed evitando le comodità della stop motion o dei modellini, per impiegare al contrario un innovativo squalo meccanico a grandezza naturale, è l'indice di una ossessione di un cinema che, pur raccontando un'avventura non priva di spunti fantastici, pretende di stare nella realtà. A questo punto non deve stupire il fatto che Lo squalo, in realtà, sia un film realistico e fatto di uomini, prima ancora che delle basiche dinamiche horror conseguenti la lotta con il mostro. Non a caso Spielberg chiama in causa la Storia, con il bellissimo passaggio in cui Quint racconta l'affondamento della USS Indianapolis (l'incrociatore che trasportava parti della bomba atomica sganciata su Hiroshima). Un piccolo momento significativo, che getta un ponte verso un'ossessione figurativa destinata a germinare ancora nel cinema di Spielberg, basti pensare alla visione nucleare de L'impero del Sole.

Per questo, e per molto altro, Lo squalo non è soltanto un fortunato campione degli incassi, ma anche, e soprattutto, un capolavoro del cinema.


Lo squalo
(Jaws)
Regia: Steven Spielberg
Sceneggiatura: Carl Gottlieb, Peter Benchley (dal suo romanzo)
Origine: Usa, 1975
Durata: 118'


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