"C'è chi crede in dio o nel denaro. Io credo nel cinema, nel suo potere. L'ho scoperto da ragazzino, mi ha aiutato a fuggire da una realtà in cui ero infelice. È una delle forme d'arte più alte che l'uomo ha concepito. Credo nel suo futuro."
(John Carpenter)

mercoledì 31 luglio 2013

Facciamola finita

Facciamola finita

Jay Baruchel torna a Los Angeles per fare visita all'amico e collega Seth Rogen, che, pur sapendolo contrario, lo trascina a una festa. James Franco sta infatti inaugurando la sua nuova casa e ha invitato un po' di gente del cinema, che Jay non sopporta particolarmente. L'atmosfera viene comunque interrotta da un catastrofico scatenarsi di eventi apocalittici. Dopo che molti dei loro amici sono morti, Seth e Rogen si ritrovano costretti a barricarsi a casa di Franco: con loro ci sono anche Jonah Hill, Danny McBride, Craig Robinson e Emma Watson (che poi li abbandonerà per il timore di essere violentata!). Insieme il gruppo cerca di sopravvivere e capire cosa stia accadendo all'esterno, ma deve anche affrontare le divisioni che oppongono i vari membri dell'improvvisata compagnia.


C'è qualcosa che si muove a Hollywood e, al solito, lo fa attraverso i percorsi della commedia, sempre attenta a radiografare gli umori dei tempi che cambiano, anche se poi lo si capisce troppo tardi (e in effetti in pochissimi si stanno preoccupando di studiare il fenomeno, la maggior parte invece preferisce il comodo sport della demolizione e della sottovalutazione). Un film come Facciamola finita diventa quindi importante già soltanto perché ci permette di avere sotto i riflettori alcuni dei principali esponenti di questa neo-commedia: un filone che si offre attraverso gag pesantemente orientate sui temi sessuali e capaci di evocare la risata più crassa, secondo un modello che possiamo facilmente ascrivere alla scuola umoristica di matrice ebraica (basti pensare alle classiche e demenziali parodie di Zucker-Abrams-Zucker); ma anche un genere che affonda i denti nei temi dell'esistenzialismo più crepuscolare, complice una generazione di quarantenni “perduti” e inclini a riflettere sulla propria identità umana, culturale e sociale. La figura cardine del movimento è senz'altro il regista e produttore Judd Apatow, qui totalmente assente, ma che ha lanciato (o comunque consolidato) alcuni dei volti che nel film ritroviamo, come Seth Rogen, Jonah Hill e James Franco. Alle spalle del film c'è comunque un cortometraggio rimasto inedito, Jay and Seth versus the Apocalypse, scritto da Seth Rogen e Evan Goldberg (autori di questa versione “lunga”), insieme a Jason Stone che ne aveva poi firmato la regia.

Il tono è insomma quello da ultima occasione per un gruppo di amici che devono esplorare le reciproche interazioni, ma allo stesso tempo è anche quello del nonsense sfrenato che unisce alle gag a raffica (con un forte e costante odore di improvvisazione) parecchie strizzatine d'occhio cinefile, tali da far assumere all'insieme una natura proteiforme: un po' commedia, un po' fantasy, un po' articolata riflessione sui topoi del sottogenere preso in esame (nel caso specifico l'horror apocalittico), tanto che in alcuni momenti persino il fantasma della già citata ZAZ fa capolino (la parodia de L'esorcista). Se volessimo comunque tracciare un parallelo più spontaneo, questo sarebbe da rintracciarsi nei capolavori inglesi di Edgar Wright (il quale – guarda un po' il caso – quasi contemporaneamente gira un film intitolato The World's End...). Quasi uno Shaun of the Dead in salsa ebraica, insomma, e non ci stupisce quindi che a un certo punto qualcuno citi anche gli zombi, anche se poi si ripiega su temi biblici più tradizionali (con tanto di spettacolari demoni ed effetti speciali a tratti molto ben elaborati).

Data una simile mole di influenze, e considerato l'entusiasmo contagioso che il continuo avvicendarsi di situazioni, colpi di scena e trovate assurdamente spettacolari pongono di fronte ai nostri occhi, Facciamola finita finisce quindi naturalmente per rientrare spontaneamente nei territori e nei temi dell'identità cari a questi esponenti della commedia: l'interazione fra i personaggi non fa infatti venir meno un gioco di rispecchiamenti fra la dimensione privata degli stessi, con le rispettive amicizie e rivalità, e la loro natura di icone pubbliche, dove uomo e personaggio coincidono (ognuno interpreta se stesso) e ogni figura è tipizzata secondo uno schema che è naturalmente di fiction (lo “strafumato”, l'ossessionato dal sesso, l'icona gay, il bravo ragazzo un po' artificioso e via citando). L'avventura apocalittica diventa quindi davvero l'occasione per riflettere sul senso di appartenenza a un mondo che si prende in giro con irriverenza e senza fare sconti a nessuno (vengono anche citati i rispettivi insuccessi commerciali e artistici), giocando spesso sulla sovrapponibilità fra amicizia virile e omosessualità latente, e che in ultima istanza riesce a trovare la sua coesione in virtù di una serie di valori unificanti e un senso dell'amicizia che permetta di uscire dalla propria dimensione individuale per ricomprendere anche l'altro da sé. Un percorso di formazione di un gruppo, insomma, perfetta cerniera fra gli opposti forniti da realtà e fiction, tale da rendere i personaggi degni di salvarsi e ascendere così al futuro livello (e non a caso tutto parte con una partita ai videogame...).

La ragnatela delle relazioni che uniscono o dividono queste figure, riesce perciò a mettere a nudo l'umanità nascosta dietro il ruolo “pubblico” dei personaggi/attori, descrivendo una serie di rapporti affettivi che ci portano nei territori di un'altra importante figura della scena indipendente contemporanea: quella di Kevin Smith, da alcuni chiamato in causa per alcuni parallelismi con il suo Dogma e per la capacità di mescolare una profonda componente umana con i meccanismi del cinema spettacolare più puro. Il che significa che a “farla finita” non è soltanto un complesso schema di relazioni che descrivono una mappa allargata della scena indipendente contemporanea, ma anche il puro piacere della visione che il film naturalmente riesce a regalare. Che lo si veda dal versante più complesso e “teorico”, o da quello del semplice divertimento, Facciamola finita resta un film entusiasmante!


Facciamola finita
(This is the End)
Regia e sceneggiatura: Seth Rogen, Evan Goldberg (basato sul cortometraggio Jay and Seth versus the Apocalypse di Jason Stone)
Origine: Usa, 2013
Durata: 106'

martedì 23 luglio 2013

Jenifer - Istinto assassino

Jenifer - Istinto assassino

Frank Spivey, agente di polizia, sorprende un uomo che sta per uccidere una ragazza e lo uccide con un colpo di pistola. La sventurata, Jenifer, è una ragazza con il volto orribilmente sfigurato e apparentemente incapace di provvedere a se stessa. Frank decide di prenderla sotto la sua custodia, nonostante il parere contrario dei familiari, che finiscono con l'abbandonarlo. Soggiogato ben presto dalla carica sessuale espressa da Jenifer, Frank precipita progressivamente in un vortice di orrori e oscilla fra la voglia di “normalizzare” la sua situazione e la difficoltà nel nascondere l'insaziabile furia omicida della ragazza.


Quarto episodio della prima stagione dei Masters of Horror, questo Jenifer è tratto da una breve storia a fumetti, scritta da Bruce Jones e disegnata da Berni Wrightson, apparsa in un numero della rivista Creepy nel 1974. A dirigere la versione “live action” c'è il nostro Dario Argento, su una sceneggiatura redatta da Steven Weber, che interpreta anche il ruolo principale. Questo coacervo di influenze si rispecchia in una struttura narrativa semplice e un po' meccanica (tipica delle storie originali), e uno stile visivo in cui Argento, alla sua consueta cifra visionaria, predilige un approccio più classico, in bilico fra realismo esasperato e svolte grottesche che facciano risaltare con più forza la componente splatter. Missione compiuta, a quanto sembra, considerati i piccoli tagli che l'episodio ha dovuto suo malgrado subire.

In effetti, come già in altre opere dell'ultimo Argento, sembra che il regista italiano abbia scoperto il corpo in quanto coacervo di orrori: se la prima fase della sua carriera è più incentrata sulla componente psichica e sull'attacco ai nervi dello spettatore, stavolta emerge una fisicità prepotente e in grado di suscitare sentimenti opposti: amore/odio, eros/thanatos e un senso di sgradevolezza fisica immediata per il volto sfigurato della “donna-mostro”, che però si stempera nella forte carica erotica espressa dal suo corpo perfetto. Argento, insomma, riprende delle figure retoriche già portate in evidenza in opere come Phenomena, dove l'impatto virulento delle scene di morte non faceva venir meno una certa malinconia di fondo e lasciava perciò spazio a dinamiche umane tali da rendere la storia una sorta di deviato racconto d'amore.

C'è, quindi, un'ambiguità di fondo che permea tutta la vicenda e che si ritrova nella doppia natura di Jenifer, corpo da adorare e belva feroce che uccide selvaggiamente chiunque le capiti a tiro (a volte anche con gustose citazioni, come accade con la bambina che occhieggia a Frankenstein), nonostante la sua apparente vulnerabilità. Si crea in questo modo una continua oscillazione fra elemento forte e debole della coppia, con un protagonista espressione dell'autorità, ma pure vittima dell'istinto perché soggiogato sessualmente dalla ragazza, come a cercare un filo che unisca la cifra “fisica” del nuovo corso, con i sentieri insondabili della mente della prima produzione argentiana.

Su tutto, comunque, domina una scelta brillante, che marca in maniera precisa la differenza con la storie originale di Creepy e con i modelli alla EC Comics: ovvero quella di lasciare totalmente da parte qualsiasi considerazione di ordine morale sulla vicenda. Il destino di perdizione cui va incontro Frank, infatti, non è motivato da una qualche volontà suprema di punire l'uomo per le sue mancanze (come invece sembra accadere nel fumetto originario, dove il protagonista nasconde l'omicidio iniziale con cui ha salvato Jenifer, sperando di farla franca). La sceneggiatura sembra pure propendere per una simile ipotesi, quando ce lo mostra padre e marito incapace e irrealizzato, ma la regia di Argento vira chiaramente da un'altra parte, che è puramente fenomenologica. Jenifer è un mostro perché deve esserlo e la coazione a distruggere le vite di chi intreccia il suo cammino è una conseguenza naturale di qualcosa che non ha una motivazione alle spalle (almeno per tre quarti del racconto). Ciò che conta è quello che accade, ovvero il legame particolare che si stabilisce tra i personaggi, fatto di scene di sesso perfettamente crude: merito anche della straordinaria prova di Carrie Anne Fleming, che riesce a far emergere la carnalità di Jenifer dietro il make up esasperato.

Quasi una dichiarazione d'intenti per un'idea di cinema che in fondo, non ha altro obiettivo che indagare l'ambiguità e i sentimenti contrastanti posti in essere dall'irruzione di un elemento dionisiaco in una realtà altrimenti apollinea. La deviata storia d'amore enunciata in precedenza diventa così anche una sorta di viaggio fantastico che il regista continua a compiere in una dimensione alterata, dove le percezioni sono più forti, gli istinti più profondi e la scoperta del lato oscuro della vita diventa un inevitabile viaggio verso la realizzazione della distruzione. A suo modo, è questa la mostruosa bellezza che gli interessa.


Istinto assassino
(Jenifer)
Regia: Dario Argento
Sceneggiatura: Steven Weber
Origine: Usa, 2005
Durata: 50'


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domenica 21 luglio 2013

Michael e Homesdale: gli esordi di Peter Weir

Michael e Homesdale: gli esordi di Peter Weir

Qualsiasi discorso sul cinema di genere australiano non può prescindere dalla figura di un autore “vero” come Peter Weir, forse il nome più noto fra quelli sfornati dalla terra dei canguri: non che la regia di Weir sia direttamente assimilabile alle forme dei generi, concentrata com'è su ossessioni molto personali e su un universo figurativo particolarissimo. Ma proprio la sua personalità ha finito in qualche modo per marcare la differenza fra il cinema australiano “istituzionalmente riconosciuto” (quello che alla metà degli anni Settanta fece parlare di “new wave” d'Oceania) e il sottobosco delle produzioni oggi racchiuse sotto il marchio dell'Ozploitation. E, come si potrà notare attraverso il percorso che qui analizzerà la sua filmografia australiana, il cinema di Weir a volte ha intessuto con il genere dinamiche molto strette e interessanti.

Il primo appuntamento è dedicato ai corti d'inizio carriera: una galassia abbastanza variegata, tra lavori universitari, shorts realizzati da indipendente e miniserie televisive - proprio sul piccolo schermo avviene il debutto vero e proprio nel lungometraggio con Man on a Green Bike, del 1969. Dell'intero corpus - difficile da organizzare sotto un'unica direttrice, come sempre avviene negli anni della formazione - conviene analizzare i lavori più compiuti, ovvero Michael, episodio del collettivo 3 to Go (1969) e il mediometraggio Homesdale (1971), che molte filmografie indicano anche come l'autentico “numero zero” della sua filmografia, per come contiene in nuce già molte delle sue future ossessioni.


Prodotto dal Commonwealth Film Unit, il film in tre parti 3 to Go è un percorso nelle vite di tre personaggi, utile a tastare il polso della situazione sociale australiana alla fine degli anni Sessanta – una delle missioni del CFU, infatti, era la produzione di documentari e lavori di interesse culturale nazionale. Michael, l'episodio diretto da Weir, centra perfettamente l'obiettivo raccontando le giornate di un ragazzo ordinario (Michael, appunto), ben inquadrato in una famiglia di stampo classico e conservatore, con un lavoro e una fidanzata di buon lignaggio. L'incontro con Grahame, attore in un film sulle proteste giovanili, gli aprirà però un mondo nuovo, portandolo alla scoperta dei fermenti libertari che animano molti coetanei. Weir è già attento a mettere in scena la scoperta di un mondo altro da parte di un protagonista che si ritrova così in bilico fra due realtà tra loro opposte, dove vige però il concetto dell'esclusione, più che dell'inclusione, tanto che alla fine il destino è inevitabilmente amaro e conduce alla non collocazione in nessuno dei due ambiti. Weir articola il percorso di Michael attraverso il doppio passo fornito, da un lato, da una vita quotidiana tarata su rituali apparentemente inscalfibili, e dall'altro da una protesta sociale portata avanti dai giovani e fatta di dibattiti pubblici o talk televisivi che sembrano aggirare il fulcro del discorso. L'attenzione del regista per le dinamiche tipiche della società-spettacolo diventerà evidente in opere come The Truman Show, ma è già espressa in potenza in una struttura narrativa che evidenzia a tratti la finzione dello schermo (il servizio televisivo in cui il presentatore vuole offrire uno spaccato “reale” dei ragazzi che intervista, ma poi le scene sono ripetute più volte) e che crea un rispecchiamento con l'iniziale film-nel-film dedicato alle proteste. In questa parte troviamo peraltro rappresentati quegli aspetti visivi “forti” (con scene anche molto violente) che poi produrranno lo spiazzante detour de Le macchine che distrussero Parigi, mentre l'approccio semi-documentaristico alla materia corteggia gli esperimenti coevi di The Naked Bunyip. Ma, al di là delle possibili letture sociologiche, Michael funziona per il flusso narrativo non lineare, con un montaggio basato più sull'associazione emotiva delle immagini che sulla perfetta scansione degli eventi: all'epoca il regista era vicino al collettivo di cinema sperimentale Ubu Films, ed è probabile che questo filtri nello stile visivo del cortometraggio. Ciò che però ci interessa è il fatto che questo modulo narrativo già crea quelle atmosfere magnificamente rarefatte, destinate a diventare un marchio di fabbrica per il regista.


Il confronto fra gli outsider di Weir e le realtà differenti con cui gli stessi si trovano a interagire, ha come conseguenza spesso l'implosione della realtà medesima, oppure l'inevitabile inglobamento del malcapitato nel meccanismo. E' questo il caso di Homesdale, che si può considerare il primo vero racconto di un sistema chiuso e retto da regole interne perfettamente definite, anche laddove esse appaiono oscure allo spettatore. La vicenda si svolge infatti in una sorta di casa da riposo isolata, dove un gruppo di persone affette da frustrazioni o paure più o meno gravi si riunisce per affrontare i propri traumi, grazie a un personale appositamente predisposto. Nel gruppo c'è però un nuovo arrivato, mr. Malfry, timido e incapace di integrarsi con il resto della compagnia e, soprattutto, refrattario a seguire alle regole del posto. Il tono stavolta è più quello di una commedia nera, che a tratti sfocia nel thriller vero e proprio, complici le scene notturne, dipinte con energico piglio espressionista, quando non propriamente horror (c'è persino un omaggio alla doccia di Psyco, a ruoli invertiti, con un uomo a far da vittima). La compagnia è composta da personaggi eccentrici e il tono è spesso sopra le righe, ma proprio l'alternanza dei registri permette di definire quell'atmosfera sospesa cara al regista, con punti in cui le realtà e le visioni dei personaggi tendono a sovrapporsi, tanto da rendere congruo, nella sua inaspettata torsione, il finale della storia. Nel cast ritroviamo Grahame Bond, già visto in Michael e destinato a diventare una star televisiva con la sitcom The Aunty Jack Show. Peter Weir e il collega Phillip Noyce hanno una piccola parte, e il tutto è stato girato nella casa dello stesso Weir.

Dunque realtà in conflitto, personaggi destinati a essere tagliati fuori o inglobati dagli spazi in cui si ritrovano, ma su tutto domina il tema dell'identità, che attraversa a grandi linee tutto il cinema australiano, in ossequio a un'industria cinematografica cui è stato demandato, da un certo punto in avanti, il compito di forgiare un immaginario comune. Il fatto che Peter Weir sia emerso come il rappresentante più ampio di questo movimento, è dovuto alla sua abilità nel declinare un percorso personale con una disamina più ampia della “doppia natura” del suo paese, stretto fra le origini rappresentate dai territori aspri dell'Outback e il suo status di ex colonia britannica. Ci si ritornerà su quando vedremo le successive opere dell'autore.

Quanto alla reperibilità dei due lavori qui analizzati, Michael è tranquillamente visibile nel cofanetto DVD della Ripley's Home Video con i primi lavori del regista. Homesdale è invece inedito in Italia, ma è compreso nella raccolta Peter Weir: Short Film Collection, acquistabile attraverso i canali import.


3 to Go - Michael
(id.)
Regia e sceneggiatura: Peter Weir
Origine: Australia, 1969 (il film fu poi distribuito nel marzo 1971)
Durata: 29'

Homesdale
Regia: Peter Weir
Sceneggiatura: Peter Weir e Piers Davies
Origine: Australia, 1971
Durata: 48'

domenica 14 luglio 2013

L'ignoto spazio profondo

L'ignoto spazio profondo

Un alieno proveniente da Alfa Centauri, nell'ignoto spazio profondo, racconta la sua fuga dal pianeta morente, il suo vano tentativo di mettere il suo sapere a disposizione dell'umanità, e il viaggio di alcuni astronauti verso nuovi pianeti in grado di ospitare la vita, una volta che la Terra non sarà più abitabile. Un viaggio che si concluderà proprio quando gli astronauti arriveranno su Alfa Centauri, in un curioso esempio di circolarità degli eventi...


Werner Herzog al limite, ancora una volta: stavolta il pretesto è un “fantasy science fiction”, genere di per sé deputato a scavalcare ogni frontiera, seppur in un'ottica speculativa e perciò apparentemente distante da quello sguardo sempre radicato nella realtà tipico del cineasta tedesco. In realtà, se oggi un limite è ravvisabile nella fantascienza, è proprio perché troviamo difficile astrarci dal reale, e non riusciamo più a far volare la fantasia verso un impossibile altrove. Il film, da questo punto di vista, è uno dei più geniali e poetici canti del fallimento di un'umanità smarrita, cui Herzog sembra fornire nuove possibilità attraverso una diversificazione delle prospettive. Lo sguardo spiritato del grandissimo Brad Dourif è lì a farci da monito rispetto a ciò che non si è riusciti a costruire nemmeno con l'ausilio di un'avanzata tecnologia aliena. Ma la sua voce è anche la nostra guida lungo il viaggio impossibile degli astronauti terrestri verso l'ignoto spazio profondo, in cerca di nuovi mondi abitabili, in vista di un futuro in cui la Terra non sarà più in grado di accogliere la vita. Disillusione e speranza insieme, quindi: un approccio duale alla materia che è l'asse portante dell'intera operazione.

Herzog mescola così materiali di repertorio, pescati dall'archivio della NASA (ringraziata per il suo “senso poetico”), insieme a spettacolari sequenze di sub che esplorano i mari sotto la calotta antartica, e interviste a scienziati e esperti di ingegneria spaziale, che formulano interessanti ipotesi futuribili. Tutti elementi che ci riportano immediatamente alla concretezza del reale, a un'idea di scienza che è matematica, che si esprime attraverso intrichi di cavi, plastica e metallo, quasi una sorta di contrappasso al caos degli scenari in cui si esprime lo stesso Brad Dourif. Ma, come ricorda uno degli scienziati, il Caos non è necessariamente un elemento negativo, ma una possibilità che apre nuove porte e così il viaggio degli astronauti diventa quasi una danza di corpi liberati dal peso della gravità, che si librano negli spazi angusti delle navicelle e finiscono naturalmente per confluire nell'incredibile forza espressiva delle sequenze subacquee. A rivederlo oggi colpisce soprattutto la preveggenza di chi aveva quasi prefigurato l'incredibile canto della “stranezza spaziale” di David Bowie da parte del Colonnello Chris Hadfield sulla Stazione Spaziale Internazionale (e non appare casuale che il titolo stesso del film sia preso da una canzone, quella ufficiale della U.S. Air Force). Segno che l'idea è quella giusta, e che l'arte riesce sempre a reinterpretare la realtà, anticipandola.

Coadiuvato dai suggestivi canti del coro sardo “Cuncordu e Tenore” e dal violoncello del musicista olandese Ernst Reijseger, Herzog rinnova così lo spazio e crea l'illusione di un mondo realmente alieno: il regista sembra ammonirci che la nostra incapacità di vedere la finzione e di sognare l'altrove, ci abbia fatto smarrire quel “senso poetico” che ogni giorno ci pone di fronte a un mondo capace di contenere al suo interno ulteriori universi. Ecco dunque che gli elementi del reale si trasfigurano e assumono una caratura, davvero, aliena e che il mondo abbandonato dagli extraterrestri diventa la possibile nuova casa dell'umanità. Lo sguardo dello spettatore, apparentemente costretto dagli elementi del reale, può finalmente perdersi e sognare l'altrove, attraverso le tappe scandite da una struttura narrativa volutamente disarticolata, che si prende numerose pause, come nel 2001 kubrickiano, per lasciare il tempo alla mente di assaporare la forza dell'esperienza.

Il che, al di là degli aspetti squisitamente poetici (comunque i più importanti), diventa anche una riflessione sulla capacità ingannevole dell'immagine e sulle sue possibilità mitopoietiche: in una parola sui limiti della rappresentazione. Herzog, in fondo, è un regista troppo intelligente per ignorare le possibilità teoriche di un lavoro che a tratti sembra quasi un divertissement d'autore. Al contrario, pochi registi possiedono oggi una tale lucidità speculativa e così il film diventa anche un saggio sulla ricombinazione degli elementi e sulle sperimentazioni del linguaggio per immagini. Un lavoro comunque non accademico, ma capace anzi di creare risonanze inaspettate, attraverso inserti ora malinconici (la frustrazione dell'alieno e gli scenari desolati della Terra investiti di rifiuti), ora ironici (lo starnuto dello scienziato), ora squisitamente satirici, laddove Herzog sembra ricordarci come sia stata la prospettiva economicista (fra le teorie si parla di supermercati spaziali e gli stessi alieni, arrivati sulla Terra, costruiscono un enorme area commerciale) a condannarci all'aridità di pensiero.

La via verso l'ignoto spazio profondo, quindi, descrive anche e soprattutto un viaggio addentro all'umanità, ai suoi errori, ai suoi sogni e alle sue speranze. Così un divertissement diventa un autentico capolavoro.


L'ignoto spazio profondo
(The Wild Blue Yonder)
Regia e sceneggiatura: Werner Herzog
Origine: UK/Francia/Germania
Durata: 81'

Recensione pubblicata su Orizzonti di gloria


venerdì 12 luglio 2013

Pacific Rim

Pacific Rim

In un vicino futuro, un portale dislocato in una faglia dell'Oceano Pacifico libera i Kaiju, giganteschi mostri che attaccano le città. Per contrastarli, viene creata la Pan Pacific Defense Corp, con i robot Jaeger, ciascuno dotato di due piloti, interconnessi a livello mentale: l'operazione inizialmente ha successo, ma ben presto nuovi e più potenti Kaiju fiaccano le difese terrestri. Railegh Becket vede il fratello morire in battaglia e decide di abbandonare il fronte: viene richiamato dopo 5 anni, quando la situazione è ormai al limite e si è deciso di dare via a un'operazione finale che chiuda il passaggio nell'Oceano. Railegh dovrà fare coppia con Mako Mori, che ha perso tutto in un attacco dei mostri quando era bambina e che per questo dovrà imparare a fare i conti con il passato.


Il gioco più facile sarebbe quello di seguire il filo dei ricordi e tracciare la mappa dei riferimenti, fra cartoon d'infanzia e fantascienza nipponica: ma lo lasciamo a chi, da mesi, polemizza sui presunti plagi da Evangelion senza sapere che Guillermo Del Toro è un grande amante degli anime giapponesi e quindi parla semplicemente un linguaggio che gli appassionati non possono non riconoscere. Almeno un nome però conviene farlo, ed è quello di Mitsuteru Yokoyama, grande pioniere del genere mecha, autentico teorizzatore del titanismo meccanico come pesantezza dei corpi metallici: Pacific Rim è un continuo tentativo di smarginare rispetto ai limiti imposti dal bordo dell'inquadratura, che diventa così incapace di contenere l'imponenza delle creature e la furia dei colpi che si abbattono letteralmente sulla pelle dello spettatore. Una battaglia a superare un confine enorme, che però diventa poi piccolo e iscritto nei drammi dei personaggi.

Qui ritroviamo infatti il Del Toro che negli anni abbiamo imparato a conoscere e amare. Non solo l'autore che adora il fantastico e che si crogiola nel gusto per la creazione dei suoi mostri (complice anche un digitale quanto mai materico e “pieno”); ma anche e soprattutto il cantore di un'umanità che vive in una perenne dialettica con i retaggi del passato e che articola la propria poetica attraverso il raffronto con i legami affettivi, più o meno parentali. Siano essi quelli determinati dalla figura paterna, qui simboleggiata idealmente da uno splendido Idris Elba, o quelli derivanti dalla perdita del congiunto con cui stabilire la proverbiale interconnessione.

Il personaggio cardine diventa così l'unico privo di legami, apolide e senza consanguinei, la Mako Mori di Rinko Kikuchi: figura cardine per pagare dazio all'origine giapponese dei mecha anime e alla “grammatica” degli orfani deputati a pilotare i giganteschi robot; ma anche un personaggio indispensabile per stabilire il limite da superare, ovvero quello di una indeterminatezza umana provocata dalla mancanza di radici e legami. E' come se la sua condizione di figura fuori fase rispetto a un mondo dove ogni team è formato da fratelli o da padri e figli, sia una sorta di prefigurazione di un universo nel quale non serve più il legame di sangue diretto (molte sono infatti le perdite che i protagonisti sopportano direttamente in tal senso), perché la connessione che si deve stabilire è quella con l'umanità intera, dove si è deciso di “credere gli uni negli altri”. Dove un regista messicano che ha abbandonato il suo paese per la Mecca del Cinema può raccontare una storia che mette sullo stesso piano Australia, Giappone, Russia e Stati Uniti in una grande struttura corale.

La dicotomia Jaeger/Kaiju diventa così il passaggio attraverso il quale gli umani possono unirsi in una sfida comune che permetta di superare categorie, rivalità e ruoli, dove il giovane inesperto può afferrare con foga il braccio di un suo superiore annullando le distanze gerarchiche, dove la scelta dei piloti con cui fare squadra si determina attraverso lo scontro fisico (il duello fra Raleigh e Mako) e le battaglie diventano un tripudio di colpi sferrati con forza, al di là della componente squisitamente tecnologica chiamata in causa dagli avveniristici macchinari. Non a caso le armi davvero “hard sci-fi” sono poche, rispetto ai pugni e alle coreografie da autentici wrestler di metallo.

Da questo versante, Del Toro non cerca di superare i limiti del visibile come fa Michael Bay con i suoi magnifici Transformers: l'immagine gli è sufficiente (come già evidenziato, il suo limite è solo il bordo dell'inquadratura) perché determina lo spazio in cui muoversi bene, come fanno i suoi Jaeger nelle profondità marine. L'avventura assume così un sapore retrò, paleoindustriale, più vicina al classicismo del sottovalutato Real Steel e alla purezza lucasiana (non a caso si sta parlando di nuovo Star Wars) che allo sperimentalismo spielberghiano. D'altra parte, il confronto che gli interessa è quello che guarda al passato e quindi reinventa soprattutto il già fatto, siano esso, appunto, i mecha anime o i kaiju-eiga alla Godzilla. Alla fine il cerchio dei riferimenti si chiude in un ritratto di precisa compiutezza.


Pacific Rim
(id.)
Regia: Guillermo Del Toro
Sceneggiatura: Travis Beacham e Guillermo Del Toro
Origine: USA, 2013
Durata: 131’

Recensione pubblicata su Sentieri Selvaggi

domenica 7 luglio 2013

Toei Animation: I primi passi del cinema animato giapponese

Toei Animation: I primi passi del cinema animato giapponese

Dici Toei Animation e la mente di tutti vola alle serie animate realizzate principalmente negli anni Settanta: i “classici” Mazinga, Goldrake, Capitan Harlock e via citando. Solo in pochi magari penseranno ai lungometraggi animati del decennio precedente, che pure dalle nostre parti una timida distribuzione l'avevano avuta, fra sala e trasmissioni tv: mi riferisco a titoli come Il gatto con gli stivali o La grande avventura di Hols (che in futuro sarebbe bello ripercorrere). Il libro di Mario Rumor parte proprio da un'esperienza personale: la visione in tv del film Il lago dei cigni “da qualche parte negli anni Ottanta del secolo scorso”, per proporci un excursus nell'“infanzia dell'animazione giapponese”. Attenzione però! La prospettiva nostalgica in questo caso sarebbe la più fuorviante possibile e l'autore dimostra di conoscere bene questa trappola, per cui utilizza la forma del “racconto” per creare un'atmosfera più colloquiale con il lettore, ma per il resto evita accuratamente i rischi dell'apologia un po' sterile.

Per infanzia dell'animazione si deve quindi intendere quel periodo delle origini, all'interno del quale Toei Animation svolse un ruolo di primo piano, sia permettendo all'industria di rialzare la testa dopo i disastri della Seconda Guerra Mondiale, sia fornendo gli spazi e i mezzi creativi a quelli che sarebbero poi diventati i maestri ancora oggi in auge: gente come Hayao Miyazaki o Isao Takahata, per intenderci. Anche su questo punto Rumor mette un po' le cose a posto, perché recupera il ruolo fondamentale avuto da altri maestri come Yasuji Mori (figura seminale dell'industria animata nipponica) e Yasuo Otsuka, oppure dal produttore/padrone Hiroshi Okawa, l'uomo che decise di rifondare il settore guardando a Disney e trovando infine nel gatto Pero il simbolo stesso della Toei. E se l'idea di addentrarvi in questo intrico di titoli e nomi vi fa un po' paura non preoccupatevi: le immagini (ricche di precise didascalie) e le biografie presenti nella parte finale vi forniranno un'ottima mappa per muovervi agilmente fra i vari momenti della storia.

Il racconto di Rumor procede in ordine cronologico, analizza gli albori dell'animazione nipponica, la nascita di Toei e poi le tappe scandite dai vari lungometraggi, senza dimenticare l'apporto di outsider come Osamu Tezuka (il “dio del manga”) e Shotaro Ishinomori (creatore dei Cyborg 009): il fiorire del settore dedicato ai cartoon televisivi, le lotte sindacali, i contrasti creativi fra chi cercava una formula indipendente dai trend disneyani (leggi: libertà di sperimentare nuove soluzioni) e le imposizioni della produzione, fino alle inevitabili diaspore. Il ritratto di un'epoca, unito alla disamina tecnica degli aspetti innovativi introdotti nel corso di questa lunga avventura. Ciò che più colpisce nel racconto è la lucidità dell'analisi: se prima, infatti, si faceva accenno al totale diniego dell'apologia, non stupirà a questo punto sapere che la penna di Rumor è spesso critica nei confronti delle scelte compiute, impietosa nel mettere a nudo i difetti della formula Toei, pur rimarcandone sempre gli innegabili pregi. Gli interessa analizzare e capire, più che celebrare, insomma.

A chiudere il tutto, infine, tornano utile gli apparati: la cronologia dell'animazione giapponese fra il 1914 (in cui arrivarono nell'Arcipelago i primi cartoon occidentali) e il 1958 (anno di uscita del primo lungometraggio animato Toei, Hakujaden); la filmografia completa dei film animati della casa; e naturalmente le già citate biografie. Un libro interessante e prezioso, che speriamo aiuti a mettere le cose nella giusta prospettiva e a capire che l'animazione giapponese, prima ancora di essere serialità televisiva, è stata anche e soprattutto una valida alternativa cinematografica alle formule occidentali.

Toei Animation – I primi passi del cinema animato giapponese
Scritto da Mario A. Rumor
200 pagine, 20 euro
Cartoon Club Editore

Recensione originariamente pubblicata su Sentieri Selvaggi