"C'è chi crede in dio o nel denaro. Io credo nel cinema, nel suo potere. L'ho scoperto da ragazzino, mi ha aiutato a fuggire da una realtà in cui ero infelice. È una delle forme d'arte più alte che l'uomo ha concepito. Credo nel suo futuro."
(John Carpenter)

lunedì 12 aprile 2010

Lecce 2010

Lecce 2010

Sarà uno strano effetto collaterale dovuto a un qualche fuso orario “sballato” o un jet-lag o forse addirittura l’ora legale entrata in voga da poco, ma l’impressione è che sia questo l’anno in cui il Festival del Cinema Europeo festeggia la sua decima edizione. Perché di solito sono le edizioni a cifra tonda quelle che si permettono nomi prestigiosi ed eventi tanto interessanti come quelli che fanno capolino dal programma di questo undicesimo appuntamento che va a iniziare domani nella città salentina!

In realtà, a parte le battute, tutto questo non è che il risultato del meritorio lavoro che Alberto La Monica, Cristina Sodano e tutti i collaboratori portano avanti da tempo, nel tentativo di unire la cultura a una forma popolare in grado di parlare al pubblico più trasversale possibile. La figura simbolo di quest’anno, dunque, non è soltanto Carlo Verdone (che pure è un nome spendibilissimo per attirare l’attenzione di media e spettatori), ma piuttosto Yilmaz Guney, prestigioso regista turco oggi abbastanza dimenticato, che ha iniziato la sua carriera come autentico divo del cinema popolare, salvo poi declinarsi in forma di autore “militante”, in ossequio a un tempo in cui la passione politica e la visione d’artista erano ancora due concetti in grado di conciliarsi. Praticamente il contrario dei nostri tempi dove se va bene gli attori dell’età d’oro li ritrovi in qualche triste fiction di mamma Rai a riverberare i fantasmi di un tempo lontano…

A Guney è dedicata una delle retrospettive, insieme a un libro curato da Massimo Causo: accanto alle due personali però svettano altri percorsi e nomi, ad esempio sarà possibile assistere al nuovo Shadow, l’horror diretto da Federico Zampaglione che sta facendo tanto parlare di sé e che da un lato conferma l’attenzione di Lecce per le visioni forti, da un altro testimonia la sua timida e interessante apertura a un genere puro come quello della paura. Oppure il non meno importante La città invisibile, dedicato alla tragedia del terremoto che ha colpito L’Aquila e su cui tanto si discute senza che si riesca a capire la reale portata del disastro (prima e dopo la scossa).

Ma come sempre la massima attenzione va al concorso, con la selezione ufficiale che si spera possa confermare il valore sempre alto tenuto sino a oggi dai selezionatori: 10 le opere previste, tutte in anteprima nazionale, in viaggio fra Slovenia, Germania, Danimarca, Olanda, Bulgaria, Spagna, Regno Unito, Francia e naturalmente Italia. E poi le Giornate degli Attori, altro momento importante, capace di declinare il neo divismo in una forma attenta sempre ai contenuti e al percorso professionale delle personalità emergenti.

Da rimarcare infine il premio Mario Verdone (dedicato allo scomparso storico del cinema e padre proprio di Carlo) che verrà assegnato a un giovane autore distintosi nell’anno passato. Che l’evento inizi!

Sito del Festival del Cinema Europeo

Collegati:
Lecce 2009
Lecce 2008

mercoledì 7 aprile 2010

Gurren Lagann

Gurren Lagann
  
In un mondo futuro, l’umanità vive nascosta nei villaggi sotterranei, ma due ragazzi, Simon e Kamina, riescono a fuggire e, insieme all’amica Yoko e a nuovi compagni, formano la Brigata Gurren. Dopo essersi impadroniti di due robot, i nostri eroi intraprendono quindi una lotta con gli Uomini Bestia che dominano la superficie. E’ l’inizio di una grande avventura che porterà l’umanità a riscattarsi contro i nemici che la opprimono.


Nell’arco delle 27 puntate che la compongono, una serie anime capolavoro come Sfondamento dei cieli Gurren Lagann ridefinisce i codici del cartoon robotico grazie a un attento lavoro sugli stereotipi che hanno fatto grande il genere, ricollocati in un’ottica postmoderna. La serie pesca a piene mani dal passato, servendosi del citazionismo come mappa su cui fissare una serie di punti, per poi investire direttamente concetti che si richiamano alla fisica quantistica, in modo da superare ogni limite e dare forma a una narrazione che trova la sua liberazione nell’eccesso più puro: robot sempre più potenti si fronteggiano in battaglie che superano lo spazio tempo, in un tripudio di esplosioni e energia lasciata libera di scorrere sullo schermo, mantenendo così lo spettatore in uno stato di perenne euforia.

Nonostante l’attenzione a un racconto sempre sovraeccitato e portato al massimo dei giri, Gurren Lagann è dunque terreno di ricognizione del già fatto e di sperimentazione di nuove soluzioni: che nella tradizione dello Studio Gainax sono visive, attraverso la giustapposizione di stili differenti, che spesso lasciano spazio alla creatività dei singoli disegnatori, ma sono anche narrative, capaci di interrompere la linearità del racconto per improvvise digressioni che magari aprono squarci in generi altri: la parentesi con Yoko maestra, ad esempio, rimanda più a generi cari alla Nippon Animation che a quel Ken Ishikawa chiamato in causa come nume tutelare grazie ai precisi riferimenti alla Getter Saga.

D’altronde l’intero concept della serie è articolato attraverso il ciclico ritorno su situazioni che permettano di stabilire due opposti, la conservazione e l’evoluzione. Nell’arco della loro avventura, infatti, i membri della Brigata Gurren dovranno più volte combattere una lotta di liberazione che sia soprattutto rivolta a esaltare il completamento di un sé in perenne divenire. Contro di loro, invece, si staglierà chi, in nome di una volontà difensiva dell’equilibrio, ha costretto (o intende farlo) l’umanità nel baratro della disperazione e della stasi perenne. Il tema della spirale, evocato dalle trivelle del super robot Gurren Lagann, dal movimento delle galassie e dalla struttura del DNA rimanda infatti a un’idea di tutto coerente laddove è lasciato libero di esprimersi nella perenne evoluzione, contraddetta dai paladini di uno status quo visto irrimediabilmente come depressione dell’istinto.

Il che naturalmente conduce a due derive fondamentali: la prima è quella di una critica sistematica ai pilastri codificati del reale e alle figure dell’autorità, siano esse la politica, la religione e tutto ciò che intende imbrigliare l’istinto in strutture organizzate e oppressive. Alla ragione si preferisce un ideale utopistico nella ricerca di un fine sempre spostato in avanti, oltre le soglie dell’impossibile, che però non diventa tanto spregio della tradizione quanto volontà di superare la stessa. Perché, e qui la sceneggiatura di Kazuki Nakashima dimostra tutta la sua intelligenza, il punto non è creare una frattura tra il passato (immobile) e il presente (dinamico), ma invece sfruttare il primo come base d’appoggio, come terreno di coltura in cui far germogliare quegli elementi che possano definire la via da percorrere. Il che naturalmente ci riporta al citazionismo citato all’inizio: Gurren Lagann è consapevole di poter innovare il genere robotico solo laddove ne conosce (e ne ossequia) a perfezione i codici e i limiti. Di qui scaturisce naturalmente la centralità di un personaggio come Kamina, che pure è fattivamente poco presente nel corso della storia, al contrario del reale protagonista Simon. Kamina infatti rappresenta esattamente l’incarnazione di una tradizione che vuole rimettersi in gioco (non a caso il motore che lo spinge all’azione è un ricordo del padre), che il racconto intende omaggiare ma al contempo superare. E’ lui, dunque, a codificare tutta una serie di elementi iconici del racconto - entrando così in risonanza con la conoscenza degli stilemi radicati nella memoria storica del suo pubblico - e a determinare le varie svolte della storia: è lui a dare il nome ai robot e alla Brigata Gurren, è ancora lui a suggerire l’idea dell’agganciamento che forma il Gurren Lagann, e, non ultimo, è lui a designare letteralmente Simon come autentico eroe e protagonista della storia. A dispetto del suo apparente agire sconsiderato, Kamina non sbaglia mai alcuna mossa, la sua avventatezza è sintomo di un coraggio radicato nell’indole guerriera del Giappone e permette ai personaggi di liberare il proprio potenziale nascosto. 

Qui si instaura dunque la seconda deriva del racconto. Quella, cioè, che chiama in causa lo stesso pubblico degli appassionati, costretti a rispecchiarsi nel proprio ruolo di difensori di una memoria storica che non deve mai diventare museificazione del passato e glorificazione asfittica in nome della nostalgia, a detrimento al presente. Al contrario, il regista Hiroyuki Imaishi ci ricorda che se abbiamo amato il passato per la vitalità che era stato capace di esprimere, non possiamo che sognare di rendere altrettanto vivo il presente attraverso la sua continua evoluzione, lungo quel percorso che da Tetsujin 28 e Mazinga Z (capostipiti del genere) ha portato a Gurren Lagann.


Sfondamento dei cieli - Gurren Lagann
(Tengen Toppa - Gurren Lagann)
Regia generale: Hiroyuki Imaishi
Progetto generale: Kazuki Nakashima
Origine: Giappone, 2006
27 episodi

martedì 6 aprile 2010

What Women (and Men) Want

What Women (and Men) Want

Ha fatto molto discutere un articolo di Massimo Fini pubblicato lo scorso 27 marzo su Il Fatto Quotidiano: avrebbe potuto farlo fin dal programmatico titolo (Donne, guaio senza soluzione) e che a pubblicarlo sia stato un giornale non certo ascrivibile a un’area conservatrice ha naturalmente finito per amplificare il danno. Sono seguite alcune risposte, una da parte di una collaboratrice del quotidiano, e molte altre dai lettori attraverso il blog antefatto.it.

In quella che era un’autentica requisitoria, Fini si scagliava infatti contro le donne, tacciandole di essere “una razza nemica”, dalla “lingua biforcuta” e i cui maggiori demeriti sarebbero curiosamente quello di mascherarsi da “sesso debole” mentre in realtà “sono quello forte” e di essere “molto più robuste dell’uomo”, tanto da vivere “sette anni in più” (è comunque possibile leggere integralmente l’articolo, raggiungibile attraverso il link in calce).

Non so se Fini abbia poi avuto modo di tornare sull’argomento, magari adducendo come “giustificazione” il fatto di essere stato frainteso (in fondo va di moda nell’Italia recente…) o giocando la carta dell’ironia (pure tirata in ballo da qualche difensore), se non addirittura quella del “fiero pensiero controcorrente”. Ma, che lo abbia fatto o meno, poco importa, l’articolo resta un prodotto inquietante. Non tanto per la misoginia che lo ha animato: il misogino in fondo è riconoscibile, isolabile, commiserabile nella sua incapacità di vedere davvero oltre se stesso. Non meriterebbe una parola sul Nido.

No, il problema è un altro: il danno di quelle righe è che dimostrano come anche una persona che possiamo ascrivere al rango dell’intellettuale (pur con i distinguo che ormai il termine naturalmente scatena) sia caduta nella trappola dell’esemplificazione a ogni costo, di cui i nostri tempi sono tristemente schiavi. Sia stato cioè capace di ricondurre un tema sempiterno e complesso come quello del rapporto uomo-donna a una facile e sterile formulazione di enunciati immediati e riconoscibili. In una parola: semplici. Di più, che condanni il fatto che la realtà spesso tradisca la possibilità di ricondurre il tema a schemi esemplificativi: la donna non è il sesso debole, come viene spesso banalmente, e semplicemente, categorizzata, ma il forte, e questo è male. E’ un sintomo chiaro della tendenza imperante a ricondurre le dinamiche storico-sociali a una formula. Uno slogan. Una frase. Un sms o un post su Twitter. La sintesi, un tempo dono, diventa sistema e spazza come rami secchi qualsiasi argomentazione più complessa. La complessità provoca noia, insofferenza, rancore. E ancor più ne provoca il pensiero di una realtà differente dalla propria.

Prenderò ad esempio un passaggio, che peraltro si collega a un’esperienza da me vissuta (mi si perdonerà se trascino il discorso nell’ambito dell’aneddotica personale). Scrive Fini: “Per l’uomo la linea più breve per congiungere due punti è la retta, per la donna l’arabesco”. Ignoro chi abbia coniato questa formula, ma non è la prima volta che la vedo usare, una volta anche una mia amica la utilizzò in una conversazione, sebbene con presupposti differenti (in quel caso, infatti, lei la tirò in ballo come differenza che avallava meritoriamente la capacità delle donne di essere complesse, a fronte della banalità maschile). La mia risposta a quella sollecitazione fu (vado a memoria): se devo unire due punti posso effettivamente tracciare una retta, ma non è detto che lo trovi necessariamente l’unico metodo possibile o il migliore.

La verità sta in fondo nel senso di un’azione e nella prospettiva da cui si inquadra un problema: adattando il proprio sguardo alle situazioni si può infatti cogliere ogni volta un diverso modo di affrontare la realtà e questo rende il rapporto interpersonale fecondo e vitale. Personalmente ciò che ho sempre trovato affascinante, in quanto uomo, dell’universo femminile è la capacità di farmi reimparare a vedere ciò che per me è scontato attraverso prospettive inedite, in grado di fornire nuovi spunti, nuove vie, nuovi elementi di curiosità. La diversità come possibilità, insomma.

Ecco dunque che gli elementi tirati in ballo da Fini possono tranquillamente essere ribaltati di senso: la donna è inaffidabile, insopportabile, burocratica? E perché invece non considerare come sia tenace, perseverante, ma capace anche di slanci di generosità che spesso la spingono a fare un passo indietro per lasciare ad altri la gloria dei suoi sforzi? (la Storia è piena di esempi a proposito). Ha perso ogni dolcezza e istinto materno nei confronti del marito o compagno che sia? Sorvolando sul fatto che un qualsiasi rapporto di coppia che voglia definirsi maturo non dovrebbe basarsi su dinamiche semplicemente “materne”, non sarà che forse la donna si è dovuta adattare a una realtà che ha spinto sempre per cucirle addosso un ruolo predefinito? Perché fosse esemplificabile? E che ora, negli esempi più positivi, sia invece capace di rivendicare un diritto a essere persona prima ancora che categoria?

Sul sesso la donna ha “fondato il suo potere”? Le cronache di questi mesi in realtà ci mostrano esattamente il contrario, che a tirare le fila di quel sistema di potere c’è invece sempre uno o più uomini…

Certo, su una cosa lo scritto di Fini è meritorio: alcuni dei suoi difensori ne hanno infatti approfittato per sollevare il tema dell’emulazione che spesso muove fra le donne, al punto da appiattirle sui peggiori stereotipi maschili, invece di praticare la ben più nobile arte del distinguo. In fondo quello che merita di essere sempre cercato nelle donne è la capacità di incarnare e coltivare un punto di vista differente e costruttivo, ben diverso sia dalle esemplificazioni dello scritto di Fini che dai tristi e beceri ritratti portati avanti dalle trasmissioni televisive del pomeriggio: se il risultato dell’interazione fra i sessi è invece la sola indifferenziazione, allora sì che la rabbia e il rancore meritano di esplodere come nella parole dell’articolo incriminato. La prospettiva, anche in questo caso, è da considerarsi al rovescio.

Il tema è interessante e sarà pertanto al centro di altri interventi sul Nido, attraverso l’analisi di alcune opere che ritengo significative a proposito.

L’articolo di Massimo Fini