"C'è chi crede in dio o nel denaro. Io credo nel cinema, nel suo potere. L'ho scoperto da ragazzino, mi ha aiutato a fuggire da una realtà in cui ero infelice. È una delle forme d'arte più alte che l'uomo ha concepito. Credo nel suo futuro."
(John Carpenter)

martedì 22 giugno 2010

Addio a Corso Salani

Addio a Corso Salani

Ho sempre avuto un certo timore nello scrivere di Corso Salani e del suo cinema. Perché sapevo che qualsiasi inesattezza, qualsiasi parere non condiviso lui non me l’avrebbe perdonato: era fatto così d’altronde, sempre con quell’aria apparentemente svagata, ma in realtà attento ed estremamente preciso verso ciò che riguardava il cinema, il farne e lo scriverne. Molti ricordi si affollano nella mente a così pochi giorni dalla sua improvvisa scomparsa, ma quello che mi torna più forte è proprio la sua ironia: che non era, beninteso, soltanto quel fare divertito che bene o male riesci sempre a rintracciare nelle persone che impari a conoscere, magari un retaggio di quella matrice toscana sempre viva in lui. No, per Corso l’ironia era davvero un modo di essere, al punto che “perseguitare” amichevolmente i critici che scrivevano delle sue opere, tallonarli e metterli all’angolo su un dettaglio, un particolare, una frase o un pensiero era in fondo un suo modo per renderli partecipi del suo universo e per demistificare la pratica seriosa dell’analisi filmica.
 
Contraddizione? Non più di quella insita in un uomo dall’aspetto apparentemente così austero ma in realtà capace di grandissima umanità: d’altra parte era forse stato proprio quell’aspetto a trarmi in inganno quando ancora mi capitava di incrociarlo per festival e di avvertire nei suoi confronti un senso di soggezione, poi superato dalla frequentazione e dalle sue puntuali partecipazioni al Taranto Film Festival, di cui era un po’ il personaggio simbolo: difficile infatti trovare un altro cineasta così, sempre curioso e instancabile, con una forte matrice toscana ma poi in realtà apolide, che riusciva a girare i suoi lavori nei luoghi più impensabili, dall’Europa dell’Est al Sud America e che non a caso spesso intitolava i suoi lavori con nomi che rimandavano a luoghi, da Occidente all’ultimo progetto dei Confini d’Europa.
 
Non era stato forse anche questo a sorprendere i ragazzi che nel 2003 avevano partecipato a un convegno organizzato dal Centro Studi Cinematografici Puglia e svoltosi proprio a Taranto? E’ stata quella volta che ho imparato a conoscerlo meglio e a divertirmi nell’osservarlo mentre spiegava le forme, da lui definite a volte anche “banditesche”, di preparazione dei suoi film, che sembravano all’improvviso sfaldarsi di fronte alla realtà di un risultato finale che nulla dava del lavoro svolto in fretta e in grandissima economia di mezzi.
 
Qui c’è forse il punto focale della sua figura di autore: Corso Salani era un regista indipendente per scelta, ma totalmente opposto all’idea che comunemente associamo a questa figura, che nel nostro immaginario di cinefili è quella del “guerrilla style”, del “mordi e fuggi”, dell’improvvisazione perenne e della lotta continua con produttori e budget. Al contrario da lui non avresti mai sentito una sola parola di lamentela. Pratica rara nel cinema italiano, al lamento preferiva il lavoro, magari come attore in pellicole altrui, quelle per cui oggi è maggiormente ricordato.
 
A proposito di indipendenza, una volta mi capitò di chiedergli se per realizzare i carrelli avesse mai usato una di quelle soluzioni “avventurose” tipiche del nostro cinema popolare più povero, fosse un carrello della spesa o una sedia a rotelle. Il suo diniego fu tanto sincero quanto fulminante. Così come qualsiasi domanda sulla preparazione rivelava come dietro ogni sua opera ci fosse un intenso lavoro di scrittura e pianificazione, esattamente opposto a quello che ci si aspetterebbe dai modi “banditeschi” che pure raccontava. A ripensarci ancora oggi continuo a chiedermelo: qual era il segreto di questo cinema povero eppure capace di non farsi mancare nulla e di apparire ricchissimo? Come era possibile unire una ferrea pianificazione con una capacità così forte di estrapolare un particolare ed elevarlo a momento significante di un’opera? Flashback: C’è un posto in Italia. Corso è al seguito di Nichi Vendola per realizzare una sorta di backstage sulla sua campagna elettorale e si trova in un locale dove l’allora pretendente alla poltrona di Presidente della Regione Puglia parla con alcune donne che espongono i loro problemi. L’occhio della macchina da presa è fisso su un volto, una delle tante donne presenti in sala, il dibattito è ricacciato sullo sfondo, prevale la curiosità umana per quel volto, la sua espressività, la sua veracità e quella bellezza che non è frutto di trucchi e imbellettamenti, ma è data unicamente dalla verità dei suoi gesti. Un’osservazione sfacciata ma sincera nel suo pudore, quando la macchina da presa stacca nel momento in cui la donna si accorge di essere ripresa.
 
D’altronde l’elemento femminile era l’altra grande verità del suo cinema: c’è un lavoro del 2003, Corrispondenze private, in cui Corso mostra il suo lavoro di casting (che l’avrebbe portato poi a selezionare Paloma Calle, protagonista del successivo Palabras). Corso non lo considerava un suo film significativo, ma il suo ritmo episodico, la schiettezza e il reiterarsi di alcuni tormentoni lo rendevano irresistibile, al punto che lui si sorprese nel notare che lo ricordassi così bene.
 
“Bisogna costruire personaggi che diventino persone reali” diceva, ma il rapporto è sempre stato a direzioni intrecciate: i suoi personaggi sono reali proprio perché riflettono le caratteristiche proprie delle sue attrici, c’è un costante lavoro di comunicazione fra la donna e il personaggio e fra la realtà circostante e le storie raccontate nei suoi film.
 
In fondo non si potrebbe pensare diversamente per un cineasta che, dichiaratamente, partiva sempre da situazioni del quotidiano, un’immagine, una sensazione su cui poi si innalzava naturalmente la storia. Non a caso in lui coesisteva sempre la dimensione lirica della narrazione con quella estremamente più concreta del documentario, eppure i suoi film non sono né l’una né l’altra cosa. Ora forse riesco a trovare la risposta a quella domanda che mi sono fatto tante volte: in realtà Corso non era contraddittorio, si limitava a riassumere in sé le forze opposte che permettono alla macchina-cinema di diventare riflesso della vita in tutte le sue sfaccettature. Peccato che l’abbiamo capito in pochi.

venerdì 18 giugno 2010

The Hole, di Joe Dante

The Hole, di Joe Dante

I fratelli Dane e Lucas Thompson sopportano l’ennesimo trasloco e arrivano nella cittadina di Bensonville. Esplorando la cantina della nuova casa scoprono una botola che, una volta aperta, rivela un buco apparentemente senza fondo. Dopo aver coinvolto anche Julie, la loro vicina di casa, Dane e Lucas cercano di indagare su quel mistero, che sembra fare appello alle loro paure più profonde per minacciarli sempre più da vicino…

Sta diventando sempre più difficile poter assistere in sala a una regia di Joe Dante (l’ultima volta è stata nel 2003 con Looney Toones: Back in Action) e quindi ogni occasione non può che essere accolta con favore, soprattutto se poi il risultato conferma il tocco di un autore che, anche nelle prove minori, è sempre dotato di instancabile e contagioso divertimento nella messinscena.
 
Ciò che infatti colpisce positivamente è la capacità mimetica di un cinema che appare convenzionale in superficie, ma poi è attraversato costantemente da un gusto molto personale nella costruzione delle sequenze e da una vena cinefila stavolta più contenuta del solito, ma sempre pronta a fare capolino. Come sempre in Dante, si tratta naturalmente di una cinefilia che riesce a essere allo stesso tempo sguardo rivolto al passato e allineamento alle migliori tendenze del presente. La storia dei due ragazzi alle prese con il buco degli orrori riverbera quindi scenari da antiche serie televisive (Ai confini della realtà), figure archetipiche (il clown mostruoso), corpi iconici (il sempre mitico Dick Miller, il ritrovato Bruce Dern), fino a intrecciare le ossessioni del passato con quelle del presente: la figura della bambina, in questo caso, può considerarsi tanto un debito verso i fantasmi del cinema di Mario Bava quanto verso quelli del cinema giapponese contemporaneo.
 
La natura del racconto diviene quindi programmaticamente “basica” e, come spesso accade nelle opere dell’autore americano, capace di veicolare un immaginario classico attraverso un linguaggio ad altezza di bambino. In effetti The Hole può considerarsi uno dei pochi horror per ragazzi dell’epoca attuale, capace di parlare direttamente al suo pubblico senza l’intermediazione asfissiante della perenne coolness e senza quella certa aria di supponenza un po’ paternalistica tipica di certi film pedagogici. Al contrario l’opera di Dante colpisce per la sua purezza e “innocenza”, per come invita a ripensare il rapporto con la realtà attraverso piccoli gesti che diventano una sorta di percorso di formazione nella strada che porta dal reale al fantastico e ritorno, fino a parafrasare uno strano stato di crescita che non significa mai perdita del rapporto con il sogno e la fantasia.
 
Ecco dunque che la storia parte nel posto più archetipico e nel contempo “normale” del proprio microcosmo, la cantina di casa, sorta di manifestazione concreta dell’inconscio di una microcomunità, dove sono custoditi gli attrezzi, le scorte e dove regna perenne quel buio che favorisce l’ingresso nell’altrodove fantastico; e finisce in uno strano paesaggio onirico dalla qualità espressionista che guarda tanto alle origini del cinema horror quanto alla capacità di giocare con stili artistici già presente nella memorabile scena del Louvre di Looney Toones: Back in Action, quando i personaggi “viaggiavano” tra i quadri più celebri. I protagonisti sono quindi pescati in differenti momenti della loro giovinezza, c’è il bambino e l’adolescente, l’uno alle prese con le fobie più elementari ed esplicite (il buio, un giocattolo spaventoso), l’altro più cupo, represso nei suoi rancori e alle prese con i primi possibili innamoramenti per la bella vicina. Dante non problematizza comunque in senso sessuale i rapporti fra i personaggi, che diventano compagni di un contagioso gioco a tre sullo scenario offerto dal buco misterioso, autentici eroi della storia perché riescono a essere se stessi seppur trascinati in un’avventura dai contorni irreali. Non a caso il segreto della botola è condiviso unicamente da loro e quando sarà la madre a guardarci dentro non vedrà che tubi e terra, non solo perché il pericolo è sconfitto, ma anche perché non è lei la persona deputata a combattere l’oscurità.
  
Ogni deriva è quindi possibile, in un racconto che sfrutta anche l’artificio del 3D non in senso cameroniano (la forza visiva del finale espressionista non si giova particolarmente della stereoscopia), ma anche in questo caso come elemento retrò di un racconto che guarda alla classicità: più che alla moda del momento, Dante sembra vicino ai pionieri della visione con occhialini, all’André De Toth de La maschera di cera per esempio, non indugia troppo sul meccanismo solito degli oggetti lanciati verso lo schermo (pure presente) ma lavora sulla profondità degli spazi, in quello che diventa un set-luna park che sarebbe piaciuto a William Castle.

The Hole in 3D
(The Hole)
Regia: Joe Dante
Sceneggiatura: Mark L. Smith
Origine: Usa, 2009
Durata: 90’


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lunedì 14 giugno 2010

Cari, piccoli zombettini miei…

Cari, piccoli zombettini miei…

L’estate italiana tradizionalmente è stagione cara all’horror, sia in sala (attraverso la programmazione di svariati titoli più o meno dignitosi) sia, soprattutto, in tv, dove è consuetudine ormai ventennale il ciclo Notte Horror su Italia 1 (al momento non ancora partito). Ciò che magari oggi risulta meno chiaro è il percorso che ha condotto a questa consuetudine e che naturalmente ci porta a incrociare quel caso sostanzialmente unico di horror show realizzato alla fine degli anni Ottanta e dominato dalla figura del celeberrimo Zio Tibia.

Per chi non lo avesse visto o non lo ricordasse, Venerdì con Zio Tibia (in origine Mezzanotte con Zio Tibia e poi Zio Tibia Picture Show) era un programma televisivo dedicato ai film horror, trasmesso per tre anni (dal 1988 al 1990), prima in seconda serata e infine in prima, con protagonista un pupazzo (Zio Tibia appunto) nel ruolo dell’anfitrione che si rivolgeva agli spettatori con formule ben identificate (la regola del tormentone è sempre stata di casa in televisione), presentava i film e intervallava gli stessi con rubriche ricche di humor nero: fra le più celebri “Rigor Mortis”, ovvero la classifica delle morti più spettacolari del momento e il “Festivalbara”, un montaggio di scene horror (su canzoncine amene) anticipatore dei fenomeni che oggi si possono ammirare su YouTube. All’interno del programma, nell’edizione finale che assorbiva tutta la programmazione serale del venerdì, sfilavano pellicole in prima visione, classici e anche il dimenticato telefilm Venerdì 13. La sigla presentava un riuscitissimo montaggio di scene horror, sulle note di Monster Mash, brano cult di Bobby “Boris” Pickett del 1962, nel caso specifico proposto nella cover del 1988 del gruppo Big O: il video è visibile per tutta la settimana nello spazio Visioni dalla Rete.

In realtà quello di Zio Tibia non è stato il primo ciclo horror trasmesso dall’allora Fininvest: un paio d’anni prima Italia 1 aveva “tastato il terreno” con il dimenticato Martedì ventunoetrenta dove erano state proposte alcune importanti prime visioni nell’orario eponimo (fra i titoli Fog e Christine la macchina infernale di John Carpenter, Terror Train di Roger Spottiswoode e Amityville Possession del nostro Damiano Damiani). L’idea di Zio Tibia appare però allo stesso tempo dirompente e coerente con i palinsesti dell’allora tv commerciale. Si ricorderà infatti che uno dei tratti distintivi della futura Mediaset era la chiara natura derivativa dalla tv popolare americana e l’insistita prevalenza di format “leggeri”, quali i quiz (più o meno effimeri) o i programmi musicali. Ciò che oggi è stato abbastanza rimosso è la coesistenza, all’epoca in voga, di conduttori “umani” e di pupazzi: non mi riferisco solo alle celebri mascotte Five, Uan e Four (questi ultimi due conducevano i due programmi per ragazzi Bim Bum Bam e Ciao Ciao), ma anche ai personaggi presenti nelle prime edizioni di Superclassifica Show.

Trovare un pupazzo (in realtà un figurante mascherato) a condurre una rassegna dedicata ai film horror, quindi, non deve essere stata una sorpresa per gli spettatori dell’epoca, sebbene l’idea fosse già abbastanza caduta in disuso, ma ancora viva. Più curioso è che si ritenesse opportuno un “presentatore” per annunciare soltanto dei film, pratica assolutamente poco usata in Italia. Qui subentra naturalmente la filiazione americana, dove la tradizione dell’”host” è invece radicata profondamente nella televisione: basti pensare a celeberrimi host come Rod Serling in Ai confini della realtà, Sir Alfred Hitchcock in Alfred Hitchcock presenta o, per restare più vicini all’horror, la nostra amatissima Vampira (autentica capostipite del filone). Non a caso il film inaugurale di Venerdì con Zio Tibia, nel 1990, fu Ammazzavampiri, di Tom Holland, che rifletteva, fra le altre cose, anche sulle dinamiche del terrore e sulla figura dell’host (interpretato nel caso specifico dal bravo attore Roddy McDowall).

Di più: esiste un legame molto stretto fra la fruizione dell’horror e l’idea di una autentica guida che traghetti l’appassionato lungo la girandola di orrori di volta in volta proposti. Dalla televisione infatti l’host è sbarcato anche nei fumetti, dai quali Zio Tibia naturalmente proveniva, in quanto versione nostrana dell’Uncle Creepy della Warren Publishing (o del Guardiano della Cripta degli EC Comics, da noi si è fatto spesso confusione a proposito).

Il programma, creato e diretto da Pino Pellino su testi di Missile Molinari, vedeva il figurante Stefano Cananzi (doppiato dall’attore e speaker Fabrizio Casadio) indossare la maschera gommosa di Zio Tibia, affiancato dal pupazzo Golem (sorta di cucciolo mostruoso) e, nelle edizioni finali, dal silenzioso Astragalo.

La formula, ricordata oggi con nostalgia, in realtà già all’epoca non faceva mancare i suoi detrattori: in un approfondimento sulle tendenze horror di fine millennio pubblicato sul secondo Almanacco della Paura di Dylan Dog (Sergio Bonelli Editore), uscito nel marzo 1992, infatti, si proponeva un confronto con le proposte horror di Rai3 (che aveva trasmesso in prima serata La casa di Sam Raimi, in barba a ogni divieto), che esordiva così:

“Lasciamo perdere i network privati, con le loro rassegne di horror presentate da pupazzi che fanno rimpiangere Topo Gigio.”

Si può essere d’accordo nella misura in cui, a ripensarlo oggi, un programma come questo appare chiaramente ingenuo e finanche ridicolo. Purtuttavia, bisogna anche considerare il contesto nel quale tale programma si inseriva, ovvero quegli anni Ottanta caratterizzati già da una forma di fandom estremamente reattivo alle sollecitazioni della cultura pop e che per questo spingevano per un rapporto ludico con il genere. Sono gli anni in cui la cinematografia del terrore muta verso un tono cartoonesco che porta ironia e orrore a unirsi dando forma ad autentici eccessi visionari, che non di rado sfociano anche nel surrealismo applicato all’estetica della mutazione del corpo (pensiamo al celeberrimo Society di Brian Yuzna) e persino i boogeymen come Freddy Krueger indugiano in una insistita clownerie. Non a caso, ciò che colpisce ancora oggi nei testi di Zio Tibia è una sorta di consapevolezza del ridicolo messo in scena: l’umorismo è costantemente demistificatorio e, se non arriva ad assumere contorni provocatori, è efficace in quanto scherzo connaturato a un codice linguistico che gli appassionati riconoscono come proprio. In effetti bisognerebbe discutere di quanto la figura dell’host, oltre a introdurre generalmente i programmi, spesso e volentieri ne costituiva anche una voce critica, capace di delimitare il labirinto emotivo all’interno del quale quelle opere si iscrivevano. Erano figure che creavano l’atmosfera, dunque, ma sempre con il distacco permesso dall’ironia ed è proprio questa loro capacità di contestualizzare gli argomenti l’elemento di cui più si sente la mancanza nella caotica televisione odierna.

sabato 12 giugno 2010

Street Fighter VS Mortal Kombat

Street Fighter VS Mortal Kombat

Quando, alcuni mesi fa, ho postato qui sul Nido il mio articolo di presentazione dell’etichetta fan-film, ancora la contaminazione fra questo fenomeno e il circuito “ufficiale” del cinema non era arrivata ai livelli decisamente più marcati che vediamo in queste settimane. Tutto parte (e torna) a un concetto tanto aleatorio quanto chiamato in causa insistentemente: la fedeltà delle pellicole alla fonte originale (che sia essa un fumetto, un libro o un altro film).

Quello della fedeltà - che spesso vuol dire trasposizione pedissequa - è una caratteristica tipica del fan-film e, nell’era di internet, è diventato pure un elemento preponderante nella dinamica che spinge le major hollywoodiane a realizzare prodotti mainstream in grado di interessare un pubblico di appassionati ben definito. Infatti, per sua natura, il fan-film antepone la riconoscibilità e l’iconografia di personaggi, luoghi e mezzi alla narrazione stessa: spesso e volentieri gli short che prendiamo in considerazione sono nulla più che meri ricalchi di vignette o sequenze anche slegate tra loro, perché il gioco che interessa non è tanto quello del “raccontare” una storia, quanto di (ri)mettere in scena un universo già noto attraverso linguaggi differenti. La dinamica di cui sopra è a doppio senso: le major vogliono raccogliere consensi tra i fans, mentre questi ultimi si sentono depositari della reale sostanza delle storie da cui Hollywood attinge e, attraverso la Rete, fanno sentire la loro voce con forza. Spesso e volentieri sentiamo ormai registi ammettere di essere dei “fan” piuttosto che degli autori e i risultati più radicali portano a pellicole come Watchmen, dove la linea di confine reale tra il prodotto hollywoodiano ufficiale e il mero fan-film diventa difficile da tracciare.

Ho impiegato molto tempo per poter essere il più fedele possibile, dai dettagli dei costumi alla colonna sonora e, ovviamente, alle super mosse!” (Joey Ansah)

Sono sempre stato immerso nella cultura fanboy” (Kevin Tancharoen)

Il discorso si complica ancora di più quando vediamo che il fan-film stesso diventa parte in causa nel processo di produzione cinematografica, spingendosi al punto di voler “dimostrare” come dovrebbe essere una trasposizione perfetta, magari per fungere da incentivo alle major. Nelle ultime settimane sono stati due celebri videogame a fornire elementi a questa tesi. Mi riferisco a Street Fighter II (1991) e Mortal Kombat (1992), trasposti nei due cortometraggi Street Fighter: Legacy e Mortal Kombat: Rebirth.

In entrambi i casi ci troviamo di fronte a due giochi da sala con già due decenni sulle spalle, che in realtà sono da tempo all’origine di un fenomeno transmediale che ha dato vita a fumetti, opere animate e anche film cinematografici: se lo Street Fighter – Sfida Finale (1994) di Steven E. De Souza è ricordato, a ragione, come uno dei peggiori blockbuster degli ultimi decenni e il suo non-sequel Street Fighter: The Legend of Chun Li (2009) è stato praticamente ignorato, apparentemente un po’meglio è andata con Mortal Kombat che nel 1995 ha visto la storia trasposta in un divertito ricalco de I tre dell’Operazione Drago non privo di una sua efficacia spettacolare. Il seguito Mortal Kombat: Distruzione totale (1997) ha però esaurito in fretta il credito raccolto dal capostipite, e tutto si è fermato qui.


Street Fighter: Legacy arriva quindi in un momento di rinnovamento, dovuto all’uscita del nuovo videogame Street Fighter IV, che ha rilanciato il franchise. Lo stuntman e maestro d’arti marziali Joey Ansah si è fatto carico di dirigere un fan-film “fedele allo spirito originale”, che rimediasse ai torti commessi dalle trasposizioni ufficiali e quindi potesse guardare alle stesse da pari a pari (ma ovviamente con un risultato finale migliore). In ragione di ciò i nomi coinvolti nel progetto sono stati prestigiosi, la produzione è di Anthony Wave, che ha lavorato alla saga di James Bond e gli effetti speciali sono curati dalla Prime Focus (all’opra di recente sul Robin Hood di Ridley Scott).

Al momento è stato diffuso unicamente un trailer che mostra il combattimento fra Ryu e Ken, i due protagonisti della saga. La resa, curiosamente ma non troppo, è a metà strada fra il prodotto professionale e quello amatoriale: l’insieme infatti è generalmente molto curato, ma l’impatto visivo è ben distante dal kolossal “riparatore” promesso e appare naturalmente “costretto” in una narrazione di corto respiro mirata a riprodurre una serie di elementi iconici (posture, gesti e costumi) che chiariscono immediatamente come il perimetro dell’operazione sia la cerchia dei soli fans e null’altro. La regia curiosamente indugia in ralenti che spezzano la linearità dell’azione, sezionando gli attacchi e depotenziandoli in una serie di movimenti enfatici un po’ stucchevoli. Il risultato appare pertanto un po’ asettico.

Quello del ralenti è un elemento che ritroviamo anche in Mortal Kombat: Rebirth, diretto da Kevin Tancharoen, già regista del recente remake di Saranno famosi, che mette in scena un interrogatorio in una stazione di Polizia, sorta di preambolo a un possibile film che ricominci la saga cinematografica. Pochi attori, ambientazione quasi esclusivamente in interni, flashback documentaristici, fotografia patinata ma che non risparmia particolari estremamente fisici e in grado di suscitare la reazione emotiva dello spettatore. L’ammiccamento ai desideri del fan stavolta è meno diretto, e relegato ad alcuni elementi centellinati con cura: non potrebbe essere diversamente, d’altronde, poiché tecnicamente questo non è un vero e proprio fan-film (quale è Street Fighter: Legacy), ma un Promo-Reel, per un film che probabilmente verrà realizzato davvero, ma che anche in questo caso vuole porsi come “appassionato” e migliorativo dei predecessori, portando in scena una versione particolarmente violenta della storia. In entrambi i casi è evidente il rapporto di filiazione diretta non soltanto dal modello originale (il videogame), ma anche da altri esempi cinematografici recenti, che servano a stabilire il tono e l’indirizzo della pellicola. In particolare tutti e due i corti, per l’uso del già citato ralenti, sembrano guardare proprio a Zack Snyder, regista di Watchmen, mentre Mortal Kombat ammicca anche alle pellicole di Michael Bay (l’inquadratura iniziale con gli elicotteri) e alle produzioni di Jerry Bruckheimer (in particolare le serie di CSI).

In tutti i casi la visione è alquanto straniante perché, alla dinamica classica (e divertente) del fan-film, si accompagna un’inquietante sensazione di sconfinamento nei territori del cinema ufficiale che dovrebbero restare distinti. Un’opera è infatti creatura viva e pulsante di temi, storie ed emozioni, non soltanto un universo da riprodurre in maniera pedissequa. Il rapporto con opere preesistenti deve quindi essere articolato su una dialettica critica e costruttiva, non sul mero ricalco in odore di conservatorismo. Aspettiamo insomma di vedere se questi semi germoglieranno o se, come è auspicabile, si tratta di fenomeni isolati.

martedì 8 giugno 2010

Daimajin

Daimajin

Giappone, periodo Kamakura. Alle pendici della montagna sacra che custodisce il corpo del grande Dio Majin, si consuma una congiura di potere: il malvagio Samanosuke uccide infatti lo Shogun Hanabusa e gli uomini a lui fedeli, per poi rilevare il comando. Solo Tadafumi e Kozasa, i due giovani figli del signore, sopravvivono al massacro, salvati dal coraggioso e leale samurai Kogenta. Con l’aiuto della sacerdotessa Shinobu, Kogenta e i ragazzi trovano nascondiglio nella montagna sacra, vicino alla statua del Dio Majin e lì trascorrono dieci anni in pace. Nel frattempo Samanosuke riduce in schiavitù gli uomini del villaggio, obbligandoli a costruire la sua fortezza. Quando Kogenta e Tadafumi vengono trovati dagli uomini di Samanosuke e condannati a morte, saranno le preghiere di aiuto di Kozasa a risvegliare il Dio Majin e a scatenare la sua furia.

Non c’è dubbio che se avesse goduto di una distribuzione italiana, Daimajin sarebbe diventato una figura popolare anche nel nostro paese, similmente ad altre creature iconiche del fantastico giapponese, prima fra tutte il mitico Godzilla. E’ difficile infatti resistere al fascino sprigionato da questo gigantesco guerriero di pietra che arriva a raddrizzare i torti della gente inerme, preservando l’ordine di un Giappone medievale dipinto con tratti sicuramente semplici, ma coerenti con i gusti di un cinema popolare attento a una precisa identificazione dei ruoli.

Il presunto schematismo della storia non fa infatti venir meno una qualità filmica eccellente, capace di unire un gusto narrativo degno delle epiche storie di samurai - con intrighi di palazzo e sentimenti (familiari e non) di grande intensità - a un’attitudine figurativa degna del miglior cinema fantastico, con passaggi che, per accostamenti cromatici, rimandano vagamente al cinema di Nobuo Nakagawa (allo spettatore occidentale potrà venire in mente anche quello di Mario Bava).

In effetti, stante la capacità emotiva dei sentimenti messi in campo dai personaggi, ciò che affascina particolarmente del film è proprio la sua forza visiva e la qualità teorica che, in anticipo sui tempi, Daimajin riesce a veicolare. La montagna sacra in cui il corpo del gigante è custodito, è infatti attraversata da presenze fantasmatiche che suggeriscono slanci visionari al regista Kimiyoshi Yasuda: mani scheletriche che si rivelano rami d’albero, statue di saggina che a una seconda occhiata appaiono semplici alberi e strane apparizioni che attraversano l’inquadratura sono lì a suggerire la compresenza di reale ed immaginario nello spazio di pochi metri, una sorta di qualità trasparente dello spazio che viene poi sintetizzata nella forza visiva espressa dal gigante di pietra.

Nell’interpretazione di Riki Hashimoto (il figurante nella tuta di Majin), infatti, il Dio guerriero rinnova uno dei presupposti taciti del fantasy giapponese, ovvero la riconoscibilità dell’elemento fantastico come altro da sé rispetto al reale. Majin come Godzilla o Gamera (creatura della stessa casa, la Daiei) non pretende infatti di apparire necessariamente credibile all'occhio di chi guarda, ma chiede invece allo spettatore un patto di riconoscimento, che diventa atto di fede verso un ordine capace di porre fine al Caos. La dinamica che dunque si va a instaurare riflette naturalmente quella della sospensione d’incredulità che è presupposto stesso della visione cinematografica.

Tutto questo allinea quindi l’impresa di Majin a quelle decisamente più catastrofiche e inquiete di Godzilla, dal quale il Dio di pietra si distanzia naturalmente per la sua natura positiva sebbene ugualmente incontrollabile. Gli abitanti del villaggio si prodigano infatti in rituali che impediscano al gigante di risvegliarsi dal suo sonno e quindi il rapporto che si viene ad instaurare è al contempo di venerazione e terrore, di convivenza con un pericolo che è riconosciuto come tale, ma non giudicato quanto compreso nella sua essenza. Un rapporto che ricorda quello che lega le genti del Giappone alla pericolosità vulcanica della loro terra. In effetti Majin non può essere pensato senza la sacra montagna che lo custodisce e al contempo lo immobilizza e della quale egli è propaggine e al contempo essenza: ecco dunque che la sua figura è anticipata da continue scosse telluriche che legano il suo risveglio al dolore di una terra vittima dei soprusi, anche se poi a sciogliere il suo cuore è soprattutto la purezza di un pianto femminile, in ossequio ancora una volta al Mito e alla fiaba.

Dal versante narrativo la storia indugia il più possibile prima di mostrare la rinascita del gigante, giocando anche con le aspettative dello spettatore, pienamente ripagate dallo splendido lavoro di composizione dell’immagine che mostra con incredibile coerenza la presenza di Majin all’interno delle scene di massa con i civili in fuga e i cattivi, preda della sua furia. Da questo versante la Daiei dimostra una precisione nell’uso degli effetti speciali che la pone almeno un decennio avanti rispetto agli esempi coevi e che si sposa alla cura del versante scenografico. La pesantezza dei passi del gigante, che anticipano e sanciscono la sua possanza mitica, si sposa poi al mito del gigantismo presente tanto nel cinema quanto nel manga e nell’animazione giapponese (pensiamo a Mazinger Z o Giant Robot) e che riflette il senso di impotenza rispetto a forze più grandi in grado di decidere il destino degli uomini e che nella fierezza ieratica dei propri gesti non ammettono repliche: la grandezza di Majin, in fondo, sta anche nel suo costituire un elemento sì incontrollabile, estremamente concreto nella minaccia che rappresenta, ma animato da dinamiche elementari e perfettamente immediate, forza punitiva ma anche capace di magnanimità. Questo, più della sua incredibile forza, ne costituisce il fascino maggiore.

Realizzato nel 1966, Daimajin ha dato il via a una trilogia, con due seguiti realizzati nello stesso anno: più di recente il progetto di una nuova versione affidata al grande Takashi Miike è purtroppo naufragato; al suo posto è stata varata una serie televisiva di ambientazione contemporanea (Daimajin Kanon) attualmente in programmazione in Giappone.

Daimajin
Regia: Kimiyoshi Yasuda
Sceneggiatura: Tetsuro Yoshida
Origine: Giappone, 1966
Durata: 84’