"C'è chi crede in dio o nel denaro. Io credo nel cinema, nel suo potere. L'ho scoperto da ragazzino, mi ha aiutato a fuggire da una realtà in cui ero infelice. È una delle forme d'arte più alte che l'uomo ha concepito. Credo nel suo futuro."
(John Carpenter)

mercoledì 28 ottobre 2009

Ravenna 2009

Ravenna 2009

E’ iniziata invece martedì, 27 ottobre, la settima edizione del Ravenna Nightmare Film Fest, che centra ancora una volta l’appuntamento di Halloween (si concluderà infatti proprio il 31 ottobre) per regalare un prezioso spaccato dell’horror cinematografico contemporaneo. Certo, a fronte dell’interesse che circonda il genere e che gli fa guadagnare persino ampi spazi sui maggiori quotidiani, va registrato quest’anno la contrazione più forte che l’offerta del festival abbia mai ricevuto: il programma, infatti, si incentra esclusivamente sul concorso lungometraggi e nei primi giorni l’appuntamento con le proiezioni è riservato unicamente alla sera, salvo poi esplodere nell'abbuffata del weekend (con ben 9 titoli su 13 totali). Niente cortometraggi e retrospettive, che pure erano fra gli spazi più gustosi del festival e questo spiace parecchio.

A tentare un coraggioso controbilanciamento c’è il fatto che tutti i film presentati sono in prima visione nazionale e fra i nomi coinvolti c’è persino Catherine Breillat con il suo Barbe Bleue. Ma sulla carta sembrano molto interessanti anche l’olandese The Human Centipede, di Tom Six e, sebbene si presti a molte critiche preventive per l’ardore di tentare una prosecuzione a un titolo che doveva restare unico, sicuramente suscita curiosità anche il Descent 2 di Jon Harris, seguito dell’ottimo capostipite di Neil Marshall. Peccato non aver recuperato a questo punto anche l’altro attesissimo sequel, ovvero il REC 2 della coppia Balaguerò/Plaza, nonostante il passaggio veneziano.

Speriamo insomma che valga la regola del “pochi ma buoni”, di sicuro l’appuntamento resta uno dei più interessanti, a fronte anche del numero sempre più ristretto di festival dedicati all’horror in Italia (quest’anno siamo rimasti orfani anche del PesarHorrorFest) e quindi merita di continuare a essere seguito con affetto e costanza.

Sito del Ravenna Nightmare Film Fest

Collegato:
Ravenna 2008

Lucca 2009

Lucca 2009

Inizia domani, 29 ottobre, l’edizione 2009 di Lucca Comics and Games, fiera del fumetto e dell’animazione: un anno fa la cittadina toscana teatro dell’evento fu letteralmente invasa da un impressionante afflusso di visitatori, creando non pochi problemi di vivibilità. Nel maggio del 2009 una cosa del genere si è ripetuta anche al Napoli Comicon. Il che, da un lato, è un segno evidente di come, a fronte della crisi che colpisce in modo progressivo e inesorabile il settore del cartaceo, appuntamenti come quello di Lucca siano sempre circondati da interesse e dalla forte sensazione che il pubblico ha di uno spazio ormai percepito come parte integrante della propria passione. Un evento che dunque si lega all’immaginario codificato dal fumetto e dall’animazione ma a sua volta se ne distanzia, come fatto autonomo e vivibile di per sé, come unicum destinato a chi presenzia sul posto.

Dall’altro lato, però, questo congestione rappresenta un problema che ormai si palesa e non va sottovalutato, a fronte di una città comunque troppo piccola e mal collegata per contenere un evento diventato ormai il principale in Italia per chi segue fumetto e animazione. Ci sono margini per migliorare la gestione di un appuntamento la cui portata non sembra essere ancora stata compresa da chi lo porta avanti?

In attesa che i fatti diano una risposta, l’edizione 2009 offre fra le tante, la presenza di due ospiti di altissimo rilievo come il grande disegnatore spagnolo Luis Royo (presso lo stand Rizzoli Lizard) e l’illustratrice giapponese Akemi Takada, character designer per serie animate come L’incantevole Creamy, Orange Road e Lamù (presso lo stand Yamato Video). E ancora Vittorio Giardino, i 40 anni di Alan Ford (e i 50 di carriera di Max Bunker), le mostre dedicate, fra gli altri, al gruppo giapponese delle CLAMP e all’illustratore fantasy Donato Granicola e l’evento su Ken il guerriero con la replica italiana del funerale di Raoul, pensato per il lancio del film La leggenda di Raoul, sequel de la Leggenda di Hokuto.

In chiusura segnalo i due esclusivi poster realizzati dagli artisti Rick Berry e Phil Hale, che tornano a lavorare insieme dieci anni dopo e che saranno anche fra gli ospiti della manifestazione. Uno lo potete vedere in questa pagina, per il secondo rimando al sito ufficiale della fiera con il calendario degli eventi.

Sito di Lucca Comics and Games

Collegato:
Lucca 2008

lunedì 26 ottobre 2009

L’invincibile Dendoh

L’invincibile Dendoh
 
La Terra, attaccata dall’impero meccanico dei Gulfer, è protetta dall’organizzazione Gear. Ad affrontare le bestie nemiche è Dendoh, un robot che sceglie come suoi piloti due ragazzini, Hokuto Kusanagi e Ginga Izumo. Il loro compito, oltre ad affrontare le varie battaglie, è anche quello di impadronirsi delle Armi Elettroniche, in grado di diventare le armi di Dendoh. Ben presto la battaglia apre inedite rivelazioni su Vega, vicecomandante della Gear, dietro la cui maschera si nasconde la madre di Hokuto. Non è tutto: la donna è infatti una delle poche superstiti del pianeta Alktos, assoggettato da Gulfer. Dallo stesso mondo proviene anche Arthea, fratello di Vega che l’impero meccanico ha condizionato spingendolo ad affrontare Dendoh con il robot gemello Ogre. I legami affettivi e il rapporto fra la Terra, Gulfer e Alktos diventeranno la posta in gioco e il segreto da comprendere per sconfiggere i nemici.

 
La fissità dei canoni che regolano il genere robotico nell’animazione giapponese sembra permettere una scarsa permeabilità del filone a influenze esterne, ma nell’ultimo decennio stiamo assistendo a interessanti tentativi di ibridazione tra format e storie tra loro differenti. Se ad esempio il remake di Gaiking mostra alcuni riferimenti precisi al clamoroso successo di Dragon Ball, una serie come L’invincibile Dendoh tenta di far proprio il tema delle creature digitali derivate dal filone portato al successo da serie come Pokémon o Digimon.
 
Tale scelta ha provocato alcuni snobismi nei confronti di quest’ottimo prodotto targato Sunrise, ma a una visione priva di pregiudizi il risultato si rivela convincente e geniale per come riesce a governare un elemento apparentemente fuori contesto senza snaturare eccessivamente il genere principale che, anzi, risulta guadagnarne e mostrare così evidenti segni di progressione. La fusione di elementi tra loro difformi avviene nel segno della coesistenza di opposti già rintracciabile nei caratteri dei due protagonisti: Hokuto Kusanagi, calmo e riflessivo, capace di ponderare ogni scelta anche con la giusta dose di freddezza e una maturità che farebbe invidia a ogni coetaneo (ma anche a molti adulti) appare infatti totalmente diverso dall’amico Ginga Izumo, passionale, istintivo e che non a caso dimostra una spiccata predilezione per le arti marziali. Mente e braccio, intelligenza e forza, insomma, per due eroi scelti dal destino e che devono, inevitabilmente imparare a convivere alla guida del robot.
 
Questo canone, peraltro, non è distante dai molti che abbiamo visto negli anni dare forma ai vari piloti dei giganti meccanici dell’animazione giapponese. Imparare a governare una macchina di tali dimensioni per affrontare una dura battaglia è infatti un chiaro racconto di formazione: la lotta è soprattutto contro le proprie debolezze e riecheggia quella molto più concreta che ogni giovane spettatore deve imparare quotidianamente ad affrontare contro le avversità, ma qui si lega a un concetto più ampio che investe direttamente i rapporti affettivi, in particolare l’amicizia, la fratellanza, ma anche il legame fra l’uomo e la natura e, ovviamente, l’amore.
 
Il rapporto che pertanto i due protagonisti stabiliscono con le Armi Elettroniche è di tipo squisitamente empatico, con le bestie virtuali che “cercano” determinate caratteristiche nel cuore dei loro padroni. Si crea pertanto un ponte fra l’idea del legame storicamente codificato fra l’uomo e il robot (con il pilota che “sente” sulla sua pelle i danni inferti al gigante meccanico) e l’empatia fra personaggi e mostri digitali alla base di serie come Pokémon e Digimon. In un certo senso, Dendoh diventa quindi tanto una evoluzione del filone robotico, quanto di quello dei mostri virtuali, ed entrambi i generi si ritrovano sul campo, affiancati nella battaglia.
 
Il resto lo fa una struttura da soap-opera che rimanda ovviamente ai fasti di Gundam, su cui peraltro lavoreranno successivamente i due creatori, ovvero il regista Mitsuo Fukuda e sua moglie, la sceneggiatrice Chiaki Morosawa (con Gundam Seed). Proprio alla saga del Mobile Suit si rifà poi l’uso espressivo dello split-screen, con le inquadrature a “finestra” che si aprono rivelando i piloti durante le scene di battaglia. Scelta espressiva pertinente, poiché riflette la volontà di “aprire” letteralmente un varco nella fissità dei canoni codificati dal genere robotico nella sua accezione più classica, ovvero quella creata da Go Nagai, cui rimanda la storia dei fratelli di Alktos, chiaro riferimento a Ufo Robot Goldrake.
 
In virtù della già evidenziata coesione affettiva fra i personaggi, la Gear finisce quindi per assumere non soltanto il ruolo di base operativa, ma anche quello di famiglia allargata dove si creano legami, sbocciano coppie (ad esempio fra il pilota Kirakuni e l’analista di dati Aiko), nascono nuove amicizie e si rivelano inaspettati segreti che arrivano a coinvolgere fin dentro l’alveo della famiglia reale. Ciò permette ai personaggi di riscattare l’apparente semplicità della storia e di essere sfaccettati e in grado di generare grande coinvolgimento: si resta pertanto catturati dal tormentato destino di Arthea, dal fascino e dal coraggio di Vega, dal triste destino di Subaru e dalla buffa caratterizzazione dei Gulfer pasticcioni Absolute, Gourmei e Witter. Le loro azioni sono calate in un contesto sicuramente scientificamente disinvolto, ma che guarda comunque alla realtà del pubblico contemporaneo, ai problemi e alle passioni dei più giovani (la scuola, Internet, gli idoli musicali), senza eccessiva furbizia.
 
Su tutto poi domina l’azione: incalzante, barocca, in un crescendo narrativo irresistibile che si giova della riconoscibilità iconica dei momenti topici (l’installazione dell’Arma Elettronica, l’Attacco Finale) e reitera gli stessi con convinzione, intercalando molto bene il tutto allo svolgimento della narrazione. Alla fine il risultato è estremamente spettacolare e offre un enorme divertimento con le battaglie, le tecniche e i comandi nuovamente urlati a squarciagola, lasciandoci con la convinzione che una storia semplice e memore del passato è riuscita a rinnovare i furori di un genere aggiornandoli al presente. Una serie molto sottovalutata e assolutamente da recuperare.

 
L’invincibile Dendoh
(Gear Senshi Dendoh/Gear Fighter Dendoh)
Regia generale: Mitsuo Fukuda
Sceneggiatura generale: Chiaki Morosawa
Origine: Giappone, 2000
Durata: 38 episodi
 

venerdì 23 ottobre 2009

Transformers pubblicitari

Transformers pubblicitari

Il video che da ormai due settimane compare nel consueto spazio dedicato alle Visioni dalla Rete, mostra uno spot pubblicitario realizzato per promuovere l’arruolamento nell’esercito di Taiwan. Come si può notare spicca la presenza, all’interno di quello che è un vero e proprio cortometraggio, di alcuni robot chiaramente ispirati ai Transformers del film realizzato nel 2007 da Michael Bay, e tornati quest’anno sul grande schermo con il sequel La vendetta del Caduto (che proprio in questi giorni arriva in DVD e Blu-Ray in America, da noi l’uscita è prevista per il 3 novembre).

L’impatto spettacolare garantito dalla presenza dei giganti meccanici rende il tutto estremamente cinematografico e peraltro è facile rendersi conto di come la scelta dei tempi e delle musiche, nonché di alcuni tagli di inquadrature, fino ad arrivare a palesi citazioni nei movimenti degli stessi robot (basti considerare quello che capriola sul campo di battaglia), riecheggi in maniera precisa gli stilemi visivi dei due film di Bay, con tanto di apparizione finale del bambino che riconduce la guerra a una dimensione di “gioco”, in modo da rendere la carriera militare come una affascinante prospettiva per i più giovani.

In sé questo può apparire, a seconda di quanto spiccato sia il proprio antimilitarismo, come una pericolosa deriva glamour dell’immaginario bellico (componente peraltro presente anche negli stessi film di Bay) oppure come un interessante incrocio di immaginari: a questo proposito, infatti, chiunque abbia avuto mai occasione di vedere uno dei video promozionali che le stesse forze armate italiane usano per propagandare la loro immagine e per motivare i giovani all’arruolamento, si sarà subito reso conto di come essi traggano notevole ispirazione dalle pellicole cinematografiche in cui emerge una componente militarista alquanto spiccata (un esempio possono essere i sequel di Rambo). L’azione è drammatizzata da un uso enfatico delle musiche e l’idea che si restituisce è quella di una macchina efficiente e potente, un organismo perfettamente funzionante del quale è invitante fare parte.

Agganciare dunque la promozione militare alle pellicole dei Transformers non appare un’operazione peregrina e sicuramente l’appassionato può trarne un superficiale divertimento, oltre che una testimonianza del favore che attualmente circonda i robot della Hasbro, di nuovo al culmine della popolarità dopo un periodo di appannamento. Questo passaggio è interessante anche perché ci porta a un successivo incrocio di immaginari, ricordandoci che, in realtà, i robot in questione hanno già sfruttato il veicolo pubblicitario per riverberare la propria fama. Il riferimento è agli spot realizzati per le automobili della Citroen: ricorderete tutti, infatti, il celebre commercial in cui il modello C4 assumeva forma robotica per poi lanciarsi in un divertito ballo, rompendo così la monotonia della sua stasi in un vuoto parcheggio.

Lo spot in questione, risalente al 2004, vanta la regia di Neill Blomkamp, regista sudafricano giunto di recente agli onori della cronaca per la regia dell’interessante ma confuso film fantascientifico District 9. Abbiamo quindi un autentico ribaltamento di segno del percorso sin qui descritto: la seriosità del bellicismo cinematografico di Bay (plaudita dagli stessi generali delle forze armate americane, che hanno vantato un'impennata negli arruolamenti proprio grazie al successo di Transformers) trova un suo controcanto anticipatore nella demistificazione cara a Blomkamp, che sfrutta il robot non per rendere glamour l’estetica militare, ma anzi per evidenziare in maniera ancora più netta la natura ludica dell’idea originale, ovvero quella del veicolo che smette di essere una semplice macchina per assumere invece comportamenti e tic molto più vicini a quelli dell’essere umano. Se poi consideriamo come Blomkamp, con la sua pellicola d’esordio, abbia voluto porre in essere una riflessione metalinguistica sulla distanza fra reale e immaginario e fra gli stilemi di generi diversi, il discorso si ispessisce a apre la strada a riflessioni ancora più profonde e interessanti sui possibili cortocircuiti sensoriali che questo percorso offre.

Restiamo però al fulcro del discorso: lo spot della Citroen C4 (che si vocifera peraltro abbia fornito non poche idee proprio a chi, a Hollywood, avrebbe poi realizzato il primo Transformers) ha dato infatti vita, nel tempo, ad alcuni sequel che accentuano la componente ludica dell’idea, mostrandoci, ad esempio, un Transformer pattinatore o corridore, fatto che di per sé rivendica in ogni caso l’intenzione di collegare il concept estremamente duttile del robot trasformabile a una idea sempre dinamica e vitalistica. In questo senso la distanza con lo spot taiwanese si assottiglia perché, se diversi sono i contesti, simili sono gli intenti, che mirano a smussare possibili derive problematiche per evidenziare esclusivamente gli aspetti positivi e divertenti del “prodotto” che si intende promuovere.

A rimarcare dunque il solco ci pensa l’imprevedibilità degli appassionati, contaminati da questo immaginario che la pubblicità sparge nel presente, e che affrontano la questione attraverso i codici narrativi dei fan-film. Pertanto gli spot Citroen vengono omaggiati da alcune divertenti parodie in cui vediamo autentici rottami travolti dalla foga della trasformazione o persino una enorme coccinella robotica improvvisare il celebre ballo, all’interno di uno spot collegato alla promozione del serial parodistico di MTV Emo Rangers (possibile rimando alle Beast Wars Transformers?). L’ironia e la demistificazione alla fine vincono la partita e rivendicano il proprio diritto a dire l’ultima parola.

Spot per l'arruolamento nell'esercito di Taiwan
Lo spot originale della Citroen C4
Versione estesa dello spot
Sequel con il Transformers pattinatore
Altro sequel con il robot corridore
Parodia 1: Fiat Transformers
Parodia 2: Citroen 2CV Transformer
Parodia 3: Emo Rangers Coccinella robot Transformer
Dietro le quinte dello spot originale (in inglese)
Pagina di Wikipedia su Neill Blomkamp

sabato 17 ottobre 2009

Up

Up
 
Carl Fredricksen ha trascorso una vita felice insieme all’inseparabile moglie Ellie, con cui sognava di raggiungere il Sud e le cascate Paradiso: dopo la morte della compagna di sempre, però, Carl è sprofondato nell’amarezza di un presente dove biechi speculatori edilizi vogliono strapparlo dalla sua casa e riescono a ordinare che sia internato in un ospizio. Carl però si ribella e con una miriade di palloncini solleva la sua abitazione dal terreno per dirigersi verso il sudamerica. Nella sua incredibile avventura trova l’inaspettato aiuto di Russell, un giovane boy scout intento a guadagnarsi la sua ultima medaglia per assistenza agli anziani.

 
La levità con cui i palloncini sollevano la casa dell’anziano signor Fredricksen è la stessa che guida la mano di Pete Docter nel realizzare un capolavoro come Up. La capacità della Pixar d’altronde, sta proprio nel suo essere capace di rivoluzionare le categorie cinematografiche canoniche dando l’impressione di raccontare una storia come tante (e quindi nel realizzare opere che sono già dei classici nel momento in cui escono). Ecco dunque che forse dovremmo cambiare la nostra prospettiva sull’operato della casa di produzione americana, e considerare i suoi registi e tecnici come cantori di un cinema elementale: Up è un film “aereo”, che veleggia fra le nuvole del suo folgorante corto introduttivo (Parzialmente nuvoloso) e guarda dall’alto il passato e il presente. Che sono i tempi dell’anziano protagonista, ma anche quelli del cinema.
 
E’ infatti difficile non vedere nella parabola di Carl e nel confronto transgenerazionale con il giovanissimo boyscout Russel una rilettura di temi al contempo eastwoodiani e spielberghiani. Fredericksen condivide infatti con il Walt Kowalski di Gran Torino l’incapacità di stare in un tempo che si è visto scivolare tra le dita: nel caso specifico ciò è avvenuto attraverso un amore di grandi speranze e di malinconici esiti. Qui il film gioca una delle sue carte più strabilianti, attraverso una parabola di vita raccontata in pochi minuti con delicatezza estrema e profonda empatia verso questo giovane/anziano sognatore che non riesce a diventare, nonostante tutto, totalmente incanaglito come il reduce eastwoodiano: proprio per questo, anzi, egli riesce a produrre quel colpo d’ali che trasporta la sua casa nel cielo regalandoci l’immagine simbolo del film, quasi uscita da un’invenzione chapliniana o dalla Disney del passato, magari presa dalle opere del sottovalutato Robert Stevenson (possibili associazioni potrebbero infatti essere il letto volante di Pomi d’ottone e manici di scopa o le magie di Mary Poppins), senza dimenticare il Maestro Hayao Miyazaki, che in casa Pixar è considerato amico e punto di riferimento.
 
D’altronde la posta in gioco è cercare di ritrovare il proprio posto nello scorrere incessante della vita e per questo l’avventura ha un che di iniziatico e al contempo di risolutivo, con un eroe anziano che tenta di perseguire il sogno perennemente procrastinato e si ritrova a confrontarsi con un giovane compagno, sorta di proiezione moderna del suo giovane io sognatore, e infine con l’idolo d’infanzia, che si rivelerà però un personaggio alquanto gretto e meschino. La dinamica oppositiva fra un’infanzia spensierata corrotta dalla verità pragmatica del mondo adulto rilegge, come specificato in precedenza, i temi del cinema di Steven Spielberg, ma la prospettiva rivoluzionaria è data dal punto di vista di un anziano. In questo senso Up diventa il film della maturità che Spielberg non è ancora riuscito a regalarci, in cui l’amarezza di un passato da superare si trasfigura nella necessità di costruire un futuro anche quando il tempo sembra ormai arrivato al proprio limite: la finalità, d’altronde, sta tutta nella rinnovata immersione all’interno del fluire temporale. 
 
Così Fredricksen non officia il proprio funerale rituale come Kowalski, ma al contrario abbandona suppellettili e memorabilia della sua casa-memoria per lanciarsi in un’impresa che finalmente davvero recupera lo “spirit of adventure” sognato da ragazzo per fermare la grottesca deriva di chi si poneva a modello di intraprendenza e invece è rimasto ossessivamente, quasi conradianamente, ancorato a una missione di velleitario riscatto. Il passaggio è simboleggiato in maniera struggente dalla scoperta delle foto inserite dalla compagna Ellie fra le “cose da fare”, in quella sezione del “Libro delle mie avventure” che immaginiamo Carl non avesse mai sfogliato, convinto com’era che quelle pagine fossero rimaste bianche a causa dei sogni mai avverati e dei risparmi accumulati ma spesi per riparare una gomma sgonfia. Qui Carl scopre che tante “cose da fare” avevano in realtà trovato la loro concretazione in una vita felice della propria normalità (che non vuol medietà, fatto che dribbla qualsiasi sterile accusa di “buonismo”) e che ora è tempo di andare avanti in una nuova avventura.
 
Qui, le sequenze con protagonista il povero “struzzo in technicolor” Kevin, rinnovano il sentore spielberghiano del baluardo di innocenza, come il mai dimenticato E.T. o il Bumblebee del primo Transformers, entrambi vittime della stoltezza umana. Così come il dirigibile fa pensare all’Indiana Jones (anch’egli impegnato in un confronto transgenerazionale) dell’Ultima crociata. Il cinema torna dunque centrale per descrivere la vita e la forza cinetica di un corpo anziano che però combatte, aiutato da improbabili invenzioni che spezzano la verosimiglianza che fino a quel momento ci aveva fatto credere quasi di trovarci di fronte a un possibile Live Action (sensazione acuita da un eccellente e realistico uso del 3D) per ripiombare nella fantasia dell’animazione che ci permette di credere a una bellissima favola di rinascita: ecco dunque l’irresistibile corte dei cani parlanti, con in testa il buffo Doug, anch’egli smanioso di trovare un proprio posto in una comunità.
 
Il finale però è ancora una volta reale, intimista, e permette ai due personaggi principali di dare finalmente compimento a una dinamica rimasta latente per tutta la durata della storia e di accettarsi come legati da un sentimento filiale. Capolavoro.

 
Up
(id.)
Regia e sceneggiatura: Pete Docter, Bob Peterson
Origine: Usa, 2009
Durata: 106’
 

giovedì 15 ottobre 2009

L’Annozero della tv

L’Annozero della tv

Si fa sempre un gran parlare di Annozero, nel bene e, naturalmente, nel male. Chi scrive ne è un estimatore palese da tempo: certo, come la proverbiale ciambella che non riesce sempre con il buco possono capitare puntate più o meno felici, ma ciò che in questo momento interessa è una qualità generale più particolare, percettibile lungo il particolare percorso che le tre puntate della nuova stagione (stasera andrà in onda la quarta) hanno sinora descritto. Un percorso sfaccettato, che si intreccia alla costante mutazione della moderna televisione (e, va da sé, della società tutta).

“Comunque la pensiate, benvenuti”. Con questa frase Michele Santoro apre ogni puntata della sua trasmissione, lasciando sottintendere la voglia di rivolgersi a un pubblico diversificato, stante però il suo punto di vista molto specifico sulle varie questioni che di volta in volta andrà ad affrontare. Si può infatti interpretare questa dichiarazione d’intenti in due modi: come un tentativo di rimarcare la differenza (“anche se la pensate diversamente da me”), ma anche come un’esortazione al confronto (“a prescindere da quale sia il vostro orientamento qui c’è spazio anche per voi”).

E’ una questione di punti di vista, peraltro, che trovano rappresentazione in studio attraverso gli esponenti dei maggiori schieramenti parlamentari, secondo una formula tipica del programma di approfondimento politico: lo spazio quindi diventa luogo di confronto fra due visioni differenti, da parte di contendenti che la pensano diversamente. L’obiettivo, non dichiarato ma palese, è naturalmente far emergere una verità, attraverso una formula narrativa basata su una scrittura “forte”, che tiene conto anche di esigenze puramente spettacolari, attraverso la scansione di singoli momenti e l’inserimento degli spazi pubblicitari (basti pensare al sempre atteso editoriale del giornalista Marco Travaglio).

Per questi motivi Annozero non sfugge ad alcune regole tipiche della Reality tv: piace (o non piace) perché racconta dei fatti, ossequiando allo stesso tempo delle caratteristiche perfettamente riconoscibili, è studiato nella composizione dei suoi casting e nell’atmosfera vagamente noir dello studio a luci soffuse, ben diverso, ad esempio, dalla luminosità esibita di un Porta a Porta o dalla natura vagamente pop delle scenografie di Ballarò, con le sue sedie di cartone, i murales e le sigle in animazione.

L’aspetto inevitabilmente più interessante di questa particolare dinamica reale/finzione si ottiene proprio quando la formula gioca con i suoi codici creando dei cortocircuiti percettivi, spesso inaspettati. Un esempio è la puntata di giovedì 1 ottobre, dedicata al “caso escort”, con la partecipazione dell’ormai nota Patrizia D’Addario. Quello che infatti è andato in onda è un autentico psicodramma collettivo, che ha offerto spunti molto pungenti e inquietanti sul senso delle cose della nostra società e sulla percezione che i protagonisti hanno rispetto al ruolo in cui sono ricondotti dall’attualità.

L’emersione di una verità nascosta, infatti, scontratasi con le resistenze dei singoli, che non vogliono contraddire la morale comune screditandosi agli occhi dello spettatore medio, ha prodotto un autentico rifiuto del sé: il capo di governo che si allieta con giovani donne e prostitute rivendica quindi il suo essere un "conquistatore", mentre il fatto pubblico diventa "gossip"; la prostituta a sua volta muta in una "escort" e grida "con dignità" la sua delusione per un favore che non ha ottenuto; dietro le quinte c’è poi l’ombra di un giornale (La Repubblica) che persegue un'inchiesta (giusta) principalmente perché intercetta i bisogni del suo potentato economico, mentre i giornalisti filoberlusconiani rivendicano invece il diritto di portare a galla il vero scandalo della sanità pugliese per trarre d'impiccio il loro capo.

E ancora: le giovani esponenti del PDL che gridano all'uso della donna e al malcostume del sistema difendendo però a spada tratta quella classe di governo che di quello stesso sistema si bea e che foraggia. La femminista che pure grida all'uso della donna e poi rivendica il modello-velina come esempio di emancipazione femminile.

Questa dinamica di rifiuto del sé, innestata sulla consueta formulazione “scritta” tipica del programma produce un senso di schizofrenia in cui, all’interno della commedia, nessuno recita il ruolo della maschera che pure indossa. I risultati di questo confuso gioco sono due: da un lato una forte sensazione di una realtà che ha completamente smarrito il proprio baricentro e dall’altra la scaltrezza di una trasmissione che riesce a sfruttare questo meccanismo in modo spettacolare radiografando perfettamente il caos. La puntata quindi ottiene uno share altissimo e, soprattutto, si inserisce senza alcuno scossone nel più grande percorso che Santoro aveva costruito a partire dall’appuntamento precedente (dedicato alla libertà di informazione e, quindi, al travisamento della verità) e che poi ha proseguito in quello successivo (la puntata sulla mafia in cui sono emerse altre verità e si è capovolto il ruolo del giudice Borsellino, da eroe al servizio dello Stato a vittima di un gioco delle parti che lo ha costretto nel ruolo dell’incomodo per lo Stato stesso).

Tutto questo naturalmente finisce per produrre una certa inquietudine in chi guarda, fatto che diventa uno degli autentici motivi di fascino del programma. D’altronde che si sia di fronte a uno spazio che ha ben presente l’importante e l’invadenza della finzione è palese sin dal titolo che rimanda al cinema (Germania Anno Zero): ma ora la finzione non è più quella della fiction, bensì quella di una televisione che da tempo ha minato la percezione comune lavorando contro le categorizzazioni canoniche.

L’inquietudine di fondo, naturalmente, sta nel fatto che l’operazione svolta da Santoro non diventa però un’operazione di pulizia del pensiero (non sempre almeno), che restituisca ai singoli i loro ruoli, ma che anzi sfrutta il loro rifiuto del sé per evidenziare il caos. Più che di tv verità, dobbiamo quindi parlare di tv sulla finzione. Una sorta di funerale del presente officiato in diretta.

Il sito di Annozero
Il sito di Michele Santoro
Il caso escort raccontato da Marco Travaglio

venerdì 2 ottobre 2009

The Informant!

The Informant!

Il biochimico Mark Whitacre lavora come manager per la ADM, una multinazionale dell’industria agro-alimentare. Nella speranza di scalare i vertici dell'azienda, Mark decide di rivelare all’FBI i traffici fraudolenti che vendono la stessa ADM e tutte le altre industrie del settore fare cartello per controllare illecitamente i prezzi di mercato. Ma quello che nessuno può sospettare è che Mark è un bugiardo matricolato e che ogni rivelazione nasconde segreti altrettanto compromettenti sulle sue tangenti intascate di nascosto. Una volta emerse, le sue colpe rischiano di minare alle fondamenta non solo la sua reputazione ma anche la stessa indagine dell’FBI.

Il cinema è una questione di bugie: narrare è in fondo mentire, anche quando, per un magnifico paradosso, si mette in scena una verità. Chi da tempo riflette sulle implicazioni sociali della menzogna è sicuramente George Clooney, che sta descrivendo con coerenza registica e produttiva un percorso sulla rappresentazione come elemento rivelatorio della bugia e sulla realtà che da essa scaturisce. Una sorta di parabola sulla perdita del senso delle cose in un mondo che preferisce rivoltare i principi in modo opportunista. Steven Soderbergh fa lo stesso, ma con un piglio differente, più scanzonato, tipico di chi, pur consapevole del perimetro che va a delimitare, si bea dell’artificio che gli permette di farlo e ciò rende il suo cinema più teorico, ma anche capace di trasmettere un divertimento più palpabile.

Non è un caso se l’incredibile vicenda di Mark Whitacre finisce così per assomigliare alle iperboliche truffe della banda di Ocean: stesso piglio glamour e un’attenzione a personaggi e interni che rende luoghi e volti elementi qualificanti della reale bugia che si mette in scena. L’operazione di The Informant! d’altra parte è mimetica, perché il film gioca con le aspettative dello spettatore secondo una dinamica che è quella del thriller, anche se poi il tono è quello della commedia dell’assurdo e il vero “cattivo” della storia è anche quello che attira le maggiori simpatie per una sorta di innocenza che lo porta ad autoconvincersi della sincerità delle proprie bugie.

Allo stesso tempo è palese l’intento di uno spazio scenico che rimanda a momenti storici differenti: l’acconciatura di Ginger (la moglie di Whitacre) e alcuni design sembrano infatti provenire più da un arco temporale che potremmo datare fra gli anni Sessanta e Ottanta, che dai Novanta in cui la storia effettivamente si colloca. L’intento dunque non è quello della verità, ma della verosimiglianza, perché l’operazione di mimesi ponga in primo piano l’empatia delle singole situazioni piuttosto che la precisione della ricostruzione.

D’altronde un altro possibile referente per il film è lo Steven Spielberg di Prova a prendermi, altra storie di truffe che descrivono i particolari umori di un arco storico della società americana: stavolta però l’inquietudine che pure pervadeva Frank Abbagnale viene estroflessa, non è riconducibile unicamente alla prospettiva filiale tanto cara a Spielberg. Certo la dinamica familiare è sempre importante, considerando che in fondo è proprio Ginger a spingere Mark a confessare la prima delle sue tante verità all’FBI e a proteggerlo dagli attacchi di chi è stato raggirato, ma la sensazione è maggiormente panica, poiché più evidente è il gioco al massacro nei confronti di una realtà tutta. Una realtà, per l’appunto, costruita sulla menzogna.

La narrazione si costringe pertanto in uno spazio che è totalmente e felicemente cinematografico: la vicenda di spionaggio industriale viene perciò vista da Mark come una parafrasi degli eventi raccontati nei romanzi di Michael Crichton (viene citato esplicitamente Sol Levante) o in film come Il socio di Sidney Pollack. Il personaggio si ispira a queste opere di finzione per perpetrare i suoi inganni, ma allo stesso tempo per costruire testardamente una versione alternativa della realtà, in cui si vede come l’eroe “dal cappello bianco”, opposto alle nefande dinamiche del sistema capitalista di cui pure si giova (arricchendosi sottobanco). Non a caso si definisce scherzosamente “agente 0014”, come ovvia moltiplicazione dell’iconico 007: una definizione che peraltro già palesa la sua consapevolezza di essere un formidabile doppiogiochista.

E quindi di questa realtà Mark risulta inizialmente il narratore attraverso un uso straniante della voce fuori campo, usata palesemente per piegare le svolte narrative alla sua logica contorta, quasi a contraddire ciò che le immagini raccontano, smontando e rimontando i fatti fino a farli coincidere con i suoi desideri e intenti. E’ lui l’artefice della rappresentazione, dispone in campo gli oggetti (sposta la sedia che copre la telecamera nascosta dall’FBI), sceglie le stanze dei meeting e cerca di estorcere la parola giusta per far chiudere l’indagine. Con levità Soderbergh compone così uno straordinario affresco sul senso delle cose in una realtà che rinnega se stessa e lentamente conduce Mark verso una discesa umana e professionale nella tragedia in cui il fiero manovratore si scoprirà attore in crisi.

La buona fede non basterà a salvarlo, ma comunque gli regalerà infine un insperato lieto fine, perché di fronte a una realtà che ha perso la sua verità anche il peggiore dei bugiardi finisce insperatamente per diventare un eroe.

The Informant!
(id.)
Regia: Steven Soderbergh
Sceneggiatura: Scott Z. Burns (dal libro di Kurt Eichenwald)
Origine: Usa, 2009
Durata: 108’

Steven Soderbergh e Matt Damon alla Mostra di Venezia
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