"C'è chi crede in dio o nel denaro. Io credo nel cinema, nel suo potere. L'ho scoperto da ragazzino, mi ha aiutato a fuggire da una realtà in cui ero infelice. È una delle forme d'arte più alte che l'uomo ha concepito. Credo nel suo futuro."
(John Carpenter)

sabato 30 ottobre 2010

Il resto di Halloween

Il resto di Halloween

Ci siamo, domani si celebra l’annuale “notte delle streghe”! Quest’anno l’appuntamento per il sottoscritto è reso più ghiotto dall’uscita del libro sulla saga e dalla sua presentazione romana.

Per celebrare l’evento multiplo pubblico questa immagine che è fra le poche cose rimaste fuori dal libro: si tratta di una celebre (e ironica) foto di scena del primo film che mostra un “impossibile” bacio fra Michael Myers e Laurie Strode. Un fuoriscena poi citato in Halloween: La resurrezione, quando il bacio finalmente si concretizza “on camera” prima che Laurie esca definitivamente di scena dalla saga.


Buon Halloween a tutti!


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venerdì 29 ottobre 2010

"The Ward" al Torino Film Festival!!!

“The Ward” al Torino Film Festival!!!

E’ diventato un vero giallo quello di The Ward, l’ultimo attesissimo film di John Carpenter: poche notizie, zero trailer, le voci di corridoio che lo volevano alla Mostra di Venezia clamorosamente smentite… ma che fine ha fatto? E soprattutto quando lo si vedrà in Italia?

Bene, finalmente lo sappiamo: il film sarà presentato al prossimo Torino Film Festival, all'interno della sezione “Rapporto confidenziale”, che l’anno scorso aveva presentato tutti i film di Nicolas Winding Refn e che quest’anno è invece dedicata all’horror. Naturalmente The Ward diventa immediatamente il titolo di punta e uno dei Must-See dell’intero festival!

La fonte è “La rivista del cinema”, pubblicata dal Museo di Torino, dove un box (a pagina 5) firmato dalla coordinatrice del festival Emanuela Martini offre la ghiotta rivelazione.

Da sempre attento ai registi di culto e alle tendenze più stimolanti degli ultimi decenni di cinema, il Torino Film Festival 2010 si riconferma dunque un appuntamento immancabile, che quest’anno si svolgerà dal 26 novembre al 4 dicembre. Ci sarà modo di tornare sull’argomento, intanto va un sincero complimento ai realizzatori per il loro lavoro!


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giovedì 28 ottobre 2010

Ritorno al futuro

Ritorno al futuro

1985. Il giovane Marty McFly vive una disordinata esistenza, fra ambizioni musicali frustrate e una famiglia disfunzionale in cui il padre George è vessato dal capoufficio Biff e la madre vive di rimpianti cercando conforto nell’alcool. Poi c’è il dottor “Doc” Brown, di cui Marty è amico e che lo coinvolge sempre in strampalati esperimenti: ora per esempio ha inventato una macchina del tempo, con la quale Marty si ritrova nel 1955. Qui il ragazzo incontra… suo padre George, ancora uno studente ma già vessato da Biff. E come se non bastasse, Marty impedisce inavvertitamente il primo incontro dei suoi genitori. Gli eventi precipitano: oltre a dover trovare il modo per tornare nel 1985, Marty deve fare in modo che suo padre e sua madre si innamorino o la sua stessa esistenza ne risentirà. Particolare non trascurabile: sua madre, invece di innamorarsi di George, ora ha una cotta per lui…

Il ritorno nelle sale di Ritorno al futuro, in occasione dell’uscita Blu-Ray e del 25mo anniversario della realizzazione, permette al pubblico di ieri e di oggi di tornare a confrontarsi con quello che è ormai diventato un autentico cult generazionale in grado di superare davvero le barriere del tempo. La cosa non stupisce: è infatti chiaro ad ogni visione come il regista Robert Zemeckis e lo sceneggiatore Bob Gale siano stati capaci di realizzare un’opera che guarda al di là del proprio presente, immergendo le vicende dello scapestrato Marty McFly in un più grandioso disegno che ci parla della Storia stessa. Ciò che infatti ancora oggi colpisce non è soltanto la perfezione del meccanismo narrativo e il divertimento trasmesso dalle gag, ma l’acutezza di uno sguardo che, similmente a quanto lo stesso Zemeckis tornerà a fare in Forrest Gump, rilegge la storia contemporanea alla luce degli eventi che hanno determinato la stessa nel passato. E lo fa attraverso la prospettiva fornita da un apparente “perdente” che si rivela però migliore delle persone che lo circondano.

In questo approccio naturalmente è agevole vedere in controluce non soltanto un certo piglio alla Frank Capra, da sempre rimarcato nei lavori che hanno analizzato l’opera del regista, quanto l’egida del produttore Steven Spielberg, che marca Ritorno al futuro nel segno di quel positivismo attraverso il quale la New Hollywood degli anni Settanta-Ottanta pretendeva di riappropriarsi del suo tempo, e di forgiare il suo immaginario, ponendosi nel centro dello stesso.

Ecco dunque che il ritratto dei fifties veicolato dalla storia rifugge totalmente ogni cifra nostalgica, ponendosi in perfetta controtendenza a quegli “Happy Days” celebrati dalle varie operazioni dell’epoca. Non è un caso isolato: basterà pensare anche al di poco precedente Christine carpenteriano per rendersi conto di come fosse in atto un autentico sommovimento dell’immaginario, che invitava a non vivere sulle spalle del passato ma a usare lo stesso per una revisione critica dello ieri e dell’oggi, insieme a un aggiornamento degli stilemi narrativi.

Ritorno al futuro, non a caso, è un film retrò nei suoi presupposti, visto come chiama in causa le dinamiche della fantascienza classica con le invasioni aliene, gli scienziati pazzi e il viaggio nel tempo, sembra una scheggia impazzita di un George Pal che al sense of wonder ha opposto il tono slapstick e uno sguardo più acido e irriverente. Così gli anni Cinquanta spesso dipinti come una sorta di golden age americana diventano invece il terreno di coltura dei drammi del presente, dove giovani inetti e incapaci di osare determinano famiglie disfunzionali, in cui l’unico momento di vicinanza è dato dal pasto davanti al televisore; dove le madri di domani sono giovani donne represse che si abbandonano al primo ragazzo che capita. In tutto sembra mancare una consapevolezza del proprio ruolo e della propria esistenza, fatto che determina una sorta di abbandono al flusso degli eventi. Ad aggiustare tutto non può che essere un ragazzo del presente, di quella generazione che pretende la centralità nel nuovo immaginario.

Zemeckis e Gale però sono bravi a non scadere nella facile condanna a tutto campo del passato. Il fulcro del loro discorso non è la critica generazionale (tema pure presente nel film), quanto il cambio di prospettiva funzionale a un ripensamento del sé sia per i protagonisti di ieri, quanto per quelli di oggi. Ecco dunque che l’esperienza negli anni Cinquanta e il confronto con i genitori serve a Marty per superare anche le proprie paure, il timore di cantare davanti al pubblico e di fare le scelte che ritiene più opportune per la propria vita: un tema che il regista e lo sceneggiatore continueranno a sviluppare anche nei due bellissimi seguiti realizzati back-to-back fra il 1989 e il 1990.

Cosa resta oggi di questa splendida lezione di cinema? Innanzitutto un’idea di spettacolo che, pur basandosi sull’accumulo di toni e situazioni riesce a mantenere sempre in primo piano i personaggi e le loro dinamiche interpersonali. Gli effetti speciali rappresentano infatti un elemento che poco aggiunge alla storia (e questa scelta paga oggi che il comparto tecnico rischierebbe obsoleto). E inoltre la grande lezione morale di una fiducia nel domani che non può prescindere da una comprensione critica del passato. Per certi versi Ritorno al futuro non è invecchiato perché è perfettamente consapevole di dove viene e dove è diretto: è questa, in fondo, la sua forza più grande.

Ritorno al futuro
(Back to the Future)
Regia: Robert Zemeckis
Sceneggiatura: Robert Zemeckis & Bob Gale
Origine: Usa, 1985
Durata: 116’

lunedì 25 ottobre 2010

Halloween: un libro nella Rete

Halloween: un libro nella Rete

Ancora un aggiornamento dedicato al libro Halloween - Dietro la maschera di Michael Myers, per segnalare innanzitutto il banner pubblicitario della serata alla scuola di cinema Sentieri Selvaggi del 31 ottobre:


Al libro e alla serata è stata dedicata anche la rubrica Sonatine di Radio Popolare Roma della settimana, condotta da Sergio Sozzo e ascoltabile on line.


Inoltre iniziano a fare la loro comparsa sul web i primi articoli dedicati all’uscita del libro. Chiaramente si tratta ancora di segnalazioni sull’uscita, ma c’è anche una prima e ragionata recensione.

Chi ne ha scritto:
Cinema10

La recensione:
ComunicaMente (a cura di Andrea Favazzo)

Non mancano inoltre le segnalazioni sui forum tematici:

Infine, nel numero 65 della rivista “Duellanti”, attualmente in edicola, è possibile leggere in anteprima il capitolo “Le babysitter e l’Uomo Nero” che introduce il discorso sulla saga (per ripassare l’indice del libro rimando al mio primo post sull’argomento raggiungibile attraverso i collegati in basso).


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venerdì 22 ottobre 2010

Michael Myers is not dead!

Michael Myers is not dead!

E’ finalmente disponibile nelle librerie il libro Halloween. Dietro la maschera di Michael Myers, che ho scritto insieme a Massimo Causo.

Ne approfitto per segnalare che il prossimo 31 ottobre si terrà a Roma una serata tematica con la presentazione del volume presso la scuola di cinema Sentieri Selvaggi, in via Carlo Botta 19. L'inizio è previsto alle ore 20:00.

Un’occasione per spiegare le ragioni che hanno portato alla creazione di questo libro e per incontrare gli appassionati nella data simbolica della notte di Ognissanti, fulcro dell’intera serie cinematografica.

Seguirà proiezione del capolavoro Halloween – La notte delle streghe di John Carpenter, capostipite della saga realizzato nel 1978, e del remake Halloween: The Beginning, firmato da Rob Zombie nel 2007. Fondazione e rifondazione del mito, insomma.


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giovedì 21 ottobre 2010

The Shock Labyrinth 3D

The Shock Labyrinth 3D

Ken torna nella sua città natale dopo essere stato protagonista, dieci anni prima, della misteriosa sparizione dell’amica Yuki. Ora che i compagni di un tempo sono di nuovo riuniti, però, Yuki fa la sua improvvisa ricomparsa. Quando la ragazza sviene, però, gli amici la portano in ospedale, ma solo per ritrovarsi in una struttura vuota che lentamente ridiventa quella casa degli orrori nel luna park dove, dieci anni prima, la stessa Yuki era scomparsa. L’avventura si snoda fra passato e presente e diventa un’occasione di confronto con i fantasmi del tempo e delle colpe nascoste.

Liberatosi dalla morsa opprimente dei continui sequel e remake di The Grudge, Takashi Shimizu non perde però l’interesse per un cinema horror che, nella continua rappresentazione di paure che affondano nell’inconscio e nel passato dei protagonisti, sia anche materia di sperimentazione sugli elementi propri della narrazione. La scelta del 3D va dunque in questa direzione, e permette a Shimizu di cercare una mediazione fra quella cifra più eminentemente ludica (l’ambientazione nel Luna Park) tipica degli horror che sfruttano la stereoscopia e un’applicazione della profondità tridimensionale allo spazio scenico, sempre importante nei suoi lavori per esprimere il disagio dei protagonisti.

Il labirinto evocato dal titolo, però, non è da intendersi soltanto come il tradizionale percorso da cui non si riesce a uscire a causa delle sue svolte intricate o delle false piste: sicuramente è anche questo, poiché i protagonisti si smarriscono in un ambiente che appare inizialmente delimitato e vede progressivamente sfumare i propri confini. Ma c’è di più e Shimizu riprende anche in questo caso un’idea che già era contenuta nei Ju-On (i capitoli giapponesi di The Grudge) ovvero l’applicazione dello smarrimento ai piani temporali del racconto.

In questo modo i protagonisti compiono un doppio viaggio nell’ospedale che diventa casa degli orrori, oscillando fra passato e presente: fra la loro prima visita al complesso, quando erano bambini, e quella che invece compiono ora, dieci anni dopo, per comprendere cosa era realmente accaduto. L’indagine diventa quindi sia la messinscena dei fatti passati che il completamento degli stessi, con le due realtà (i due tempi) che non solo vengono a coincidere, ma si influenzano a vicenda. Ecco dunque che l’esplorazione condotta oggi determina i fatti di dieci anni prima e ne è a sua volta “guidata”: i bambini di un tempo sono spaventati dai se stessi adulti arrivati “dal futuro” e a loro volta determinano il destino dei rispettivi alter ego.

Il principio, dunque, è quello del Nastro di Moebius e questo permette al film di perdersi in un non-tempo/non-luogo in cui gli ambienti confluiscono uno nell’altro e così fanno i protagonisti: ovviamente, poiché la vicenda è presentata come un completamento di fatti avvenuti anni prima e poiché Shimizu preferisce sgretolare la narrazione convenzionale, lo spettatore è stimolato a ricostruire mentalmente il corretto percorso della storia; e allo stesso tempo, i protagonisti adolescenti finiscono di scontare quelle colpe di cui si erano macchiati nel passato.

Come nei Grudge, infatti, Shimizu si diverte a non lasciare impuniti i torti e, di pari passo con lo sfaldamento e il rimescolarsi dei piani narrativi, lascia che l’irrazionale ottenga la sua vittoria sul reale. In questo la lezione del suo horror è a un tempo tradizionale e rinnovatrice dei meccanismi di genere poiché riesce ad affascinare in virtù della sua narrazione a rompicapo, che permette al racconto di fantasmi di rigenerarsi. Certo, resta la constatazione di quanto l’horror di Shimizu sia più contemplativo che realmente panico e capace di avviluppare i personaggi in una autentica trappola narrativa piuttosto che giocare con la tensione. L’idea insomma è che la messinscena sopravanzi le possibilità pienamente orrorifiche e quindi che lo stimolo sia più razionale che realmente viscerale.

Questo apparente limite è però riscattato da un finale visionario, nel quale Shimizu spinge alle estreme conseguenze il suo approccio, affastellando una serie di trovate, con manichini semoventi e giochi cromatici di grande fascino, che rinnovano la capacità dell’orrore di esibirsi come racconto fantasy. Le figure che affollano lo spazio scenico rappresentano dunque una moltiplicazione esponenziale della maschera basica di Kayako (il fantasma di The Grudge), riletta attraverso un’ottica barocca che mira a restituire l’idea dell’accumulo di elementi che il film pone in essere rispetto allo stesso cinema di Shimizu. L’intreccio dei vari elementi (confusione dei piani narrativi, dosaggio espressionista degli spazi e iconografie schiettamente orrorifiche) produce quindi una visione stordente che risulta oltremodo entusiasmante: giusto credito va comunque dato anche all’eccellente lavoro svolto dal direttore della fotografia Tsukasa Tanabe.

In questo modo il regista giapponese riesce a far compiere al suo cinema un passo avanti, realizzando quello che ad oggi appare come il suo film più complesso e completo. La sfida comunque continua perché è già annunciato un nuovo lavoro, Rabbit Hole che, già dai pochi minuti esibiti alla Mostra del Cinema di Venezia 2010, sembra lasciar presagire un ulteriore escalation nello studio delle iconografie di genere. Lì come qui, infatti, risalta l’immagine del coniglio come metafora della morte, sintomo anche questo di come il regista si diverta a coniugare gli opposti.

Senritsu Meikyu 3D/The Shock Labyrinth 3D: Extreme
Regia: Takashi Shimizu
Sceneggiatura: Daisuke Osaka
Origine: Giappone, 2009
Durata: 88’

martedì 12 ottobre 2010

Resident Evil Saga

Resident Evil Saga

Al momento conta quattro lungometraggi per il cinema, ma la saga di Resident Evil è qualcosa in più: è soprattutto un fenomeno molto facile da snobbare o maltrattare (il sottoscritto l’ha anche fatto in passato), ma che alla prova del tempo ha saputo rinnovare la metodologia del racconto transmediale, ormai fondamentale nell’industria dell’intrattenimento. Non perfetta o ramificata come quella di Transformers, l’idea portata sul grande schermo sotto l’egida di Paul W.S. Anderson è in ogni caso parte di un progetto che parte dall’universo dei videogame e passa anche per fumetti, un lungometraggio animato (Resident Evil: Degeneration) e libri.

Tutti tasselli del medesimo mosaico, fatto che rende anche vetusta la polemica sulla presunta “infedeltà” del testo filmico rispetto alla versione videoludica: vetustà accentuata anche dal fatto che si deve considerare come, pur nella sua dimensione transmediale, Resident Evil sia comunque un fenomeno derivativo, germinato nel terreno di coltura approntato da George Romero con la sua irraggiungibile Dead Saga, cui inevitabilmente le pellicole devono pagare pegno. Non a caso è interessante notare l’interscambio che peraltro esiste fra la versione Andersoniana del Mito e quella originale di Romero: la prima attinge a piene mani dalla seconda attraverso citazioni che hanno quasi sempre l’odore della rimasticatura, appiattite come sono sul rifare pedissequamente (la fine del primo Resident Evil ricalca, di fatto, l’inizio de Il giorno degli zombi); ma, allo stesso tempo, è stato grazie al successo del capostipite di Anderson che Romero ha potuto realizzare il suo splendido La terra dei morti viventi, senza dimenticare che allo stesso Romero si era pensato in un primo momento per dirigere l’adattamento del videogame, tanto che in Rete è ancora reperibile la sua sceneggiatura - invero assai modesta e bene è stato che questo cortocircuito assoluto non sia mai diventato realtà lasciando i due universi distinti (esistono comunque due spot del videogame diretti dal grande regista, raggiungibili dai link in calce).

Infatti la visione dello zombie, così come codificata da Anderson, va inserita in un contesto che è differente, prettamente autoreferenziale rispetto alla tradizione di genere e sostanzialmente avulso dalla problematicità romeriana. Fatto che naturalmente apre la porta a critiche assolutamente legittime sullo snaturamento che Resident Evil ha compiuto sull’icona, sulla sua riduzione a feticcio pop che non evoca più paure ancestrali e diventa invece semplicemente “personaggio” da sottomettere alle meccaniche narrative spettacolari. Ben altra cosa rispetto alla riflessione metalinguistica che lo stesso Romero compiva nel suo capolavoro Zombi sull’estetica pop. Ma, inquadrando il problema da una differente prospettiva, è anche vero che Resident Evil è stato capace di codificare un’estetica sci-fi horror abbastanza personale e in grado di fare scuola (pensiamo alla saga di Underworld, che pure non raggiunge la stessa compattezza), tanto di per sé costituisce l’antitesi visiva e, insieme, una possibile evoluzione hi-tech dello stesso modello romeriano (a livello puramente linguistico, s’intende). Non è dunque casuale che l’ultimo Resident Evil: Afterlife abbracci anche la stereoscopia presentandosi come il primo film a fare uso della tecnologia inventata da James Cameron per rendere realistico il 3D di Avatar. Così come non è casuale la diseguaglianza stilistica dei quattro capitoli, che fanno capo di volta in volta a un sottogenere diverso: il thriller in interni per il primo capitolo, l’incubo metropolitano per il secondo (per chi scrive il migliore della serie), il postatomico per il terzo, fino a un quarto che appare meno definito nella sua appartenenza a un filone, più legato alla necessità di sviluppare la storyline, piuttosto che di codificare un universo e un’estetica, ma che pure potremmo apparentare a un vago sottogenere action/sci-fi, con gli interni immersi nel bianco spettrale di derivazione post-Matrix.

Come nel film dei Wachowski, infatti, la sensazione è quella di un progetto in divenire, che riesce a reggere gli scossoni di continui cambiamenti in corsa, e che perciò nella sua tenuta generale risulta più interessante dei singoli film che, nella variazione di stili e registi, spesso lasciano il fianco scoperto a qualche critica e a una generica sensazione di artificiosità, pur risultando sempre godibili.

La capacità transmediale e onnicomprensiva del progetto, dunque, lo rende capace di farsi allo stesso tempo racconto della fine di un mondo, con la lotta fra la protagonista Alice e il Virus T che ha portato all’Apocalisse di un’umanità zombificata, ma anche come reificazione e riscrittura di un universo. In questo senso è interessante notare come, in definitiva, Resident Evil funzioni soprattutto quando riesce a coniugare gli opposti, continuando a produrre cortocircuiti sensoriali. Ecco dunque che un racconto di degradazione umana diventa veicolo per attrici di indubbio fascino (e più che alla protagonista Milla Jovovich penso alla splendida spalla Sienna Guillory vista nei capitoli due e quattro), che risultano esaltate nella bellezza e nell’ero(t)ismo. Ma più di tutto a funzionare e a racchiudere il “sugo della storia” sono i magnifici spot promozionali che giocano sul rapporto realtà/finzione, promozione/racconto del secondo e del terzo capitolo: una pubblicità di un prodotto di bellezza che diventa veicolo per la messinscena dell’apocalisse e un video promozionale di Las Vegas che a un certo punto si “pianta” e inizia a ripetere la stessa scena continuamente. Ecco, quell’attimo in cui il filmato si ferma e rivela la finzione e la pochezza della realtà che non esiste più perché ha lasciato spazio al deserto: in quella frattura che rimescola le carte e apre la porta a svariate possibilità c’è il senso e il cuore più vivo della saga.

lunedì 11 ottobre 2010

The Loved Ones

The Loved Ones

Brian Mitchell è scivolato nell’apatia da quando ha causato suo malgrado la morte del padre con un incidente d’auto. Si avvicina intanto il tradizionale ballo del diploma e Brian viene invitato da Lola, ma rifiuta. La ragazza però non ci sta e, con la complicità del padre, rapisce Brian per poi sottoporlo a continue vessazioni. Nel frattempo Jaime, il miglior amico di Brian, passa anche lui una serata difficile con Mia, ragazza di cui è follemente innamorato, ma che si rivela dotata di un carattere fortemente instabile.

Generalmente snobbato, il cinema australiano a volte produce delle pellicole che riescono a stagliarsi per la forza espressiva e la capacità di indagare le zone d’ombra e le paure ancestrali dell’animo umano. Il punto di partenza quasi sempre è addirittura banale nella sua semplicità. Prendiamo ad esempio il classico rito del “ballo di fine corso”: dal versante generazionale è un momento importante, che soprattutto in alcune società diventa una sorta di consacrazione del proprio status, un momento propedeutico a una sorta di prima affermazione e accettazione sociale, quando si è re e regine per una notte.

Il cinema ha spesso indagato la zona oscura di questi rituali giovanili, pensiamo a pellicole come Non entrate in quella casa o Carrie: bene, cosa sarebbe successo se, invece di subire gli scherzi feroci delle compagne e patire una delle peggiori notti della sua vita, la dolce Carrie avesse deciso di imbracciare lame, trapani e quant’altro per infierire sull’accompagnatore in puro stile Misery? A un interrogativo del genere risponde The Loved Ones, che gioca con divertimento la carta dell’assurdo e del rovesciamento di prospettive rendendo la vittima carnefice (e viceversa). La classica “bruttina” della scuola, dunque, ottiene il suo personale ballo di fine anno con un compagno-vittima che, incatenato a una sedia, è costretto a subire non soltanto i rituali tipici di queste feste (l’elezione del re e della regina, ad esempio), ma anche delle vere e proprie torture fisiche: il tutto in ossequio non tanto alla vena attuale del cosiddetto torture-porn, ma più che altro a quella corrente che vede negli sconfinati paesaggi dell’Outback australiano una sorta di “terra di nessuno” dove vige la sopraffazione reciproca e non è casuale che avvengano misteriose e drammatiche sparizioni (pensiamo al celebre Wolf Creek).

In questo senso Lola, la “cattiva” del film, vive in un sistema di riferimenti che è quello codificato da questa tradizione, incarnata dal padre-complice: il film, con intelligenza, mette in scena una serie di segni che fanno appello a quella forzata “carineria” color confetto tipica dell’universo infantile così come codificato dagli adulti. Un mondo superficiale, che nasconde le zone d’ombra sotto uno strato di sorrisi, dolci di glassa, comportamenti esasperati e tinte tenui, che però altro non è che una aberrazione della realtà. In questo senso bene fa il regista Sean Byrne ad accomunare questa estetica con quella della tortura e del sangue, creando un ponte con la tradizione dell’horror americano anni Settanta (pensiamo all'isteria di toni di un capolavoro come Non aprite quella porta). La scelta va in due direzioni: riscrivere la finta realtà nell’estetica del dolore e del sangue, estrapolando in questo modo la verità della carne martoriata che aumenta il contrasto con la falsità del mondo color confetto; e, di conseguenza, rovesciare la falsa prospettiva “adulta” riconducendola a quell’autentica e continua violazione dell’infanzia (e dell’adolescenza) che il film mette in scena in tutte le sue terminazioni.

Chi esce malconcio dalla vicenda, infatti, non è soltanto Lola, ma anche gli altri personaggi adolescenti che, quando non sono dipinti come semplici pedine di un meccanismo sociale predeterminato (che trova nel ballo di fine anno la sua emblematica evidenza), rivelano traumi nascosti nel passato che riflettono un autentico disagio del vivere. Le torture che dunque Brian subisce rappresentano anche un’esperienza catartica che instillino in lui il desiderio di sopravvivere dopo l’apatia conseguente la morte del padre. Il ragazzo non a caso è stretto fra l’universo fittizio di degradazione morale in cui dominano Lola e il padre, e la decadenza fisica delle vittime nascoste nella cantina e ridotte ormai a uno stadio animale.

In entrambi i casi ciò che emerge è un ritratto di un universo che ha smarrito la propria umanità. La capacità ulteriore di Byrne sta però nel lasciar emergere questa verità con piccoli tocchi, progressivamente, giocando anzi con le aspettative dello spettatore, che è portato a credere che la realtà stia seguendo i meccanismi più classici, salvo poi ritrovarsi a dover riconsiderare tutto secondo la nuova prospettiva. Il riferimento non è soltanto a Brian, ma anche all’arco narrativo parallelo che viene impegnati gli amici Jamie e Mia: una parte che sembra inserita per alleggerire il racconto, per deviare verso mete più facete con le gag che i due mettono in scena. Ma anche qui si scoprirà invece il dolore su cui i comportamenti poggiano, e che andrà a saldarsi con la storyline principale.

Presentato in anteprima al Torino Film Festival 2009, il film è ancora in attesa di una distribuzione italiana.

The Loved Ones
Regia e sceneggiatura: Sean Byrne
Origine: Australia, 2009
Durata: 84

Pagina di IMDB

venerdì 8 ottobre 2010

The Town

The Town

Boston. Doug MacRay è un rapinatore di banche in una realtà dove la criminalità è considerata quasi un mestiere che si tramanda di padre di figlio. Durante uno degli ultimi colpi, la sua banda rapisce Claire Keesey, direttrice della banca, e poi la lascia andare appena raggiunta una zona isolata. Preoccupato che la donna possa comunque aver scoperto l’identità dei suoi rapitori, Doug decide di incontrarla “in borghese”: in questo modo fra i due nasce però una relazione in cui Doug vede la possibilità di affrancarsi dalla vita in cui è prigioniero.

A dispetto della sua linearità narrativa che si rifà alla grande tradizione del gangster-movie americano (non a caso alle spalle c’è ancora la Warner Bros), The Town è un film di contrasti che determinano una realtà magmatica, capace di favorire emozioni tra loro molto diverse. Ecco dunque che Ben Affleck, qui alla sua seconda regia, si permette di chiamare in causa un film apparentemente distantissimo come Gomorra (fra le dichiarate, seppur labili, fonti d’ispirazione) per cercare una chiave di volta che gli permetta di raccontare una storia di uomini che vuole essere innanzitutto ritratto di una città.

La Town del titolo è Boston, che non si limita quindi ad essere semplicemente lo sfondo della vicenda, ma diventa il tramite e la causa delle emozioni che il racconto veicola: segnato da un legame parentale con il crimine (il padre in prigione), Doug MacRay è uno dei principali artefici del clima che si respira in città, ma non è possibile distinguere pienamente il suo ruolo fra quello del criminale puro e quello invece della persona che si ritrova coinvolta in un meccanismo più grande di lui, che finisce perciò per determinarne il destino. L’uomo è infatti un rapinatore speciale, perfettamente a suo agio nel realizzare i colpi, ma è allo stesso tempo attratto dalle altre possibilità offerte da una realtà dove una giovane e affascinante donna come Claire Keesey ricopre il ruolo di direttore di banca.

Seguendo un andamento molto classico, ma declinato rispetto alle contraddizioni del presente, Doug è dunque un uomo stretto tra forze convergenti, fra il bisogno di una microcomunità che dipende dalla sua bravura e ne determina perciò la natura stanziale, e un mondo esterno che chiama con la promessa di vivere una vita differente e più realizzata: il personaggio di Claire, apparentemente strumentale a determinare unicamente la sua “conversione”, è in realtà un’interessante figura salvifica che innesta elementi quasi mitologici nel cuore della vicenda. A tal proposito risulta estremamente intelligente la scena dell’attrice Rebecca Hall, che sta costruendosi un bel percorso come compagna di volta in volta di personalità borderline che in lei trovano la chiave di volta delle proprie vite, l’elemento di salvezza o la testimonianza della loro dannazione (pensiamo a Frost/Nixon o a The Prestige). Doug appare quindi più che altro inserito in un meccanismo inerziale dove il suo agire è dettato dalle circostanze: non in senso morale (dacché egli è sicuramente ben presente rispetto al suo ruolo nella società e alle sue implicazioni), ma emotivo. Rapinare una banca per Doug è onorare un legame affettivo con chi è venuto prima di lui e con chi gli sta affianco.

In questo senso, la realtà si rivela fondata su un sovvertimento delle regole canoniche di convivenza, dove l’amore “ingannevole” fra Doug e Claire è l’unico sentimento reale, in un sistema fondato su continue bugie. Anche il rapporto fra Doug e l’amico/fratello Jam, sebbene meno virtuoso, va in questa direzione: i due infatti sembrano perpetuare le rapine come unico possibile codice condivisibile fra due personalità sicuramente legate, ma intimamente troppo diverse. Nel personaggio di Jam, infatti,  Jeremy Renner lascia rivivere le pulsioni distruttive del sergente James di The Hurt Locker: un agire irruento, spesso assolutamente illogico e amorale che però è sempre ben circoscritto all’interno di un oliato meccanismo sentimentale, dove comunque la cooperazione fraterna è sempre vista come primo motore di tutto.

Di concerto arriva il sistema di riferimenti che il film mette in scena, che chiamano spesso in causa la cultura pop come linguaggio comune fra i personaggi (pensiamo alle maschere che si ispirano dichiaratamente allo Skeletor di Masters of the Universe), ma che spesso giocano anch’essi con le aspettative dello spettatore sovvertendo il concetto di iconografia classicamente inteso. Ecco dunque che i travestimenti dei rapinatori fanno appello anche a figure completamente opposte a quelle comunemente associate al crimine (suore, poliziotti), mentre la polizia agisce nell’ombra, intessendo nuovi inganni, visti come unica possibile soluzione per catturare il ladro.

La città, solcata nelle sue strade, esplorata dall’alto è il teatro di tutto questo, un luogo, come già rimarcato, attivo, solido, concreto nei suoi giochi cromatici, “usato” dalla gente, manipolato e attraversato fisicamente, in un modo che sembra una continua comunione con i suoi spazi, dove vige quasi una logica dei vasi comunicanti per cui il mandante dei colpi è anche l’apparentemente mite fioraio: la regia di Affleck riesce ottimamente a esprimere i continui stati d’animo che personaggi e luoghi vogliono trasmettere e, nonostante una certa preferenza per i risvolti più romantici, riesce a rendere congrui i paragoni che sono stati mossi con il cinema di John Frankenheimer.

Resta più sullo sfondo la monolitica figura dell’agente federale Adam Frawley, che, chiuso nella sua ossessione e incapace di aprirsi alla vita, appare meno combattuto e “poroso” del protagonista e perciò più distaccato dai sentimenti dello spettatore. Il suo personaggio, insomma, si determina proprio in quanto elemento altero rispetto alla città e ai suoi contrasti: una ennesima figura di contrasto, dunque.

The Town
(id.)
Regia: Ben Affleck
Sceneggiatura: Peter Craig, Ben Affleck e Aaron Stockard, dal libro Il principe dei ladri, di Chuck Hogan
Origine: Usa, 2010
Durata: 125’