"C'è chi crede in dio o nel denaro. Io credo nel cinema, nel suo potere. L'ho scoperto da ragazzino, mi ha aiutato a fuggire da una realtà in cui ero infelice. È una delle forme d'arte più alte che l'uomo ha concepito. Credo nel suo futuro."
(John Carpenter)

lunedì 30 marzo 2009

Lecce 2009

Lecce 2009

E anche il festival del cinema Europeo taglia il traguardo delle 10 edizioni! Una tappa che insieme è un punto d’arrivo e un momento di evoluzione, tanto che il programma si presenta consolidato nelle sue articolazioni (concorso, retrospettive, omaggi) ma appare ancora più “grande” del solito per i nomi coinvolti e le iniziative in campo. Stavolta tocca dunque a Ferzan Ozpetek, Margherita Buy, Costantin Costa Gavras, Raoul Bova, mentre i volti del cinema italiano saranno Sonia Bergamasco (con L’amore probabilmente, di Giuseppe Bertolucci) e Andrea Osvart (Il rabdomante, di Fabrizio Cattani). A latere invece le mostre fotografiche dedicate a Michelangelo Antonioni, i ricordi degli ex allievi del Centro Sperimentale di Cinematografia e ancora Margherita Buy.

Certo, il rischio è quello di una certa qual “istituzionalizzazione”, mirata a dare spazio soprattutto a nomi di grosso calibro a scapito di quella ricerca che aveva sempre fatto la fortuna di questo festival, ma i trascorsi lasciano sperare in qualche interessante scoperta, nello spazio sempre imprevedibile offerto dal concorso lungometraggi e magari anche nella settimana del cinema bosniaco. Per il sottoscritto, inoltre, l’onere della prima esperienza come giurato nella sezione “Puglia Show”, dedicata ai lavori dei giovani registi regionali.

Infine l’occasione di assistere alla proiezione di Nostra signora dei turchi di Carmelo Bene nella copia restaurata dalla Cineteca Nazionale è già un motivo sufficiente per raggiungere fiduciosi il Cityplex Santalucia dove la manifestazione avrà luogo da domani, 31 marzo, al prossimo 5 aprile.

Come sempre appuntamento in sala!

Sito ufficiale del Festival

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sabato 28 marzo 2009

Spider-Man: The Animated Series

Spider-Man: The Animated Series
La fortuna editoriale dell’Uomo Ragno è stata per lungo tempo inversamente proporzionale alla qualità dei suoi spin-off animati e Live Action: la cronologia ufficiale riporta ad oggi 7 differenti produzioni animate per il piccolo schermo, che vanno dalla celeberrima serie del 1967 (attualmente visibile nei DVD di Supergulp!) caratterizzata dalla mitica sigla di Paul Francis Webster e Robert Harris, fino al recentissimo The Spectacular Spider-Man (2008), dal taglio adolescenziale, già trasmetto da Nickelodeon e in attesa di approdare su Raidue. Su tutte svetta però la versione realizzata nel 1994, prodotta direttamente dai Marvel Films Animation, sebbene poi realizzata concretamente dalla giapponese Tokyo Movie Shinsa (la casa di Lupin III, Lady Oscar e Detective Conan) e da alcuni studi coreani. Si tratta a oggi della più longeva serie ispirata a un eroe dei Marvel Comics, titolo che peraltro condivide con la di poco precedente Insuperabili X-Men (1992). Non bastasse questo, Spider-Man: The Animated Series fa parte di un insieme più vasto di progetti che durante gli anni Novanta hanno visto gli eroi della Casa delle Idee protagonisti sul piccolo schermo: I Fantastici 4 (1994), Iron Man (1994), L’incredibile Hulk (1996) fino a Silver Surfer (1998), su cui torneremo in futuro.

Passando in rassegna questi progetti (spesso produttivamente slegati tra loro) si può notare come, con tutta probabilità, già in essi risiedesse il seme di quell’invasione che nel decennio successivo avrebbe interessato gli schermi cinematografici: non a caso mente di tutte queste operazioni è stato il produttore Avi Arad, tra i maggiori artefici dell’espansione transmediale dell’universo Marvel dopo i problemi finanziari degli anni Novanta. E Spider-Man: The Animated Series è centrale in questo schema proprio per via della sua capacità di coniugare la storia originale del personaggio (opportunamente aggiornata ai tempi) con la complessità dell’universo creato dalla celebre casa dei fumetti. Ecco dunque che la serie affronta direttamente due punti cardinali della produzione cartacea: la continuity e i cross-over.

Il modo in cui l’operazione viene portata avanti è estremamente sagace: i vari archi narrativi di cui si compone la serie riflettono alcuni tra i più celebri passaggi della saga cartacea, come il costume alieno di Peter Parker (che darà vita al celebre antagonista Venom), lo scontro con i Sinistri Sei (qui ribattezzati “Perfidi Sei”), l’indagine sui genitori del protagonista, le Guerre Segrete, il clone (definito simpaticamente “un fumetto di serie-B”, con ovvio riferimento alle feroci polemiche scatenate dalle scelte editoriali che l’avevano prodotto) e via citando: l’acquisizione dei poteri è invece relegata a un veloce flashback e la serie inizia con l’Uomo Ragno già in azione. Alla fedeltà pedissequa al fumetto, però, si preferisce la ricomposizione attraverso piccole varianti che scompaginano le carte e offrono nuove prospettive sul noto, spesso inserendo gli snodi fondamentali della continuity ragnesca all’interno di saghe più grandi. Il tutto in nome di un’avventura che sia capace di risultare avvincente e originale anche per lo spettatore che già conosce il fumetto. La presenza di una lunga serie di comprimari provenienti dalle saghe parallele dell’universo creato da Stan Lee e soci (Devil, Nick Fury con lo S.H.I.E.L.D., Iron Man, i Fantastici 4, Blade e molti altri) permette inoltre di dare forma a una struttura coerente con la complessità della fonte cartacea, dimostrando la duttilità di una formula in grado di passare in rassegna differenti stadi dell’avventura e del fantastico.

In questo senso la serie opta per cinque brevi stagioni (di circa 13 puntate l’unica) che mantengono una coerenza tematica interna: la prima è di presentazione, la seconda riguarda le mutazioni genetiche, la terza i viaggi interdimensionali, la quarta ha il sapore di un riepilogo che chiude molti archi narrativi, la quinta infine affronta i viaggi nel tempo e nello spazio dando un senso all’intera epopea del Ragno. Tutti questi archi narrativi, poi, si inseriscono all’interno di una continuità più ampia: ecco dunque che non solo i comprimari tornano fra una stagione e l’altra, ma spesso abbiamo dei seguiti incrociati fra gli episodi distanti tra loro anche molte puntate. Il tutto permette all’insieme di costituire un’unica magnifica macro-storia piena di colpi di scena e capace di regalare grande divertimento agli appassionati.
Resta da rendere merito anche allo stile narrativo, che opta per ritmi serrati ma mai frettolosi, capace di restituire anche la complessità psicologica del supereroe con superproblemi (aspetto che invece era spesso trascurato in passato) ed è ben sorretto dalle ottime musiche del veterano Shuki Levy (quello delle prime serie dei Masters of the Universe). Inoltre, per la prima volta, vediamo su schermo un Uomo Ragno nel pieno possesso delle sue eccezionali facoltà fisiche: un personaggio che salta, si muove con disarmante velocità, agilissimo e che nell’affrontare i nemici (con la battuta sempre pronta) si produce in pose da vero aracnide umano, intavolando discussioni mentre è incollato alle mura o al soffitto: può apparire poca cosa, ma è un altro degli aspetti mancanti nelle serie precedenti, dove la sensazione era sempre quella di avere a che fare con un figurante vestito, né più né meno come accadeva nel mediocre telefilm degli anni Settanta con protagonista Nicholas Hammond. La differenza tra Spider-Man: The Animated Series e i suoi precursori, in fondo, è la stessa che passa tra la trilogia cinematografica di Sam Raimi e l’appena citato telefilm.

Certo, non mancano alcuni difetti: prima fra tutti la discutibile scelta di realizzare alcuni sfondi (soprattutto i campi lunghi di New York) con una grafica digitale oggi pionieristica e terribilmente dissonante con il resto dei disegni, dove invece si predilige uno stile dai colori molto accesi e dal design in grado di restituire la bellezza delle figure femminili (pensiamo a Mary Jane Watson o Felicia Hardy) e la robustezza degli eroi. Inoltre, in alcuni momenti si avverte un eccessivo riciclo di inquadrature, spesso a scapito della continuità visiva, difetti imputabili a piccoli problemi di budget. La censura invece non produce grossi danni, se non la trascurabile incongruenza di sostituire tutte le armi da fuoco con microcannoni laser (decisamente un po’ anacronistici, soprattutto se a usarli è la polizia). Una nota anche all’edizione italiana, con un ottimo cast (l’Uomo Ragno è doppiato molto bene da Stefano Onofri), ma dalla scarsa cura: oltre a cambiare spesso le voci di contorno, i curatori non si sono preoccupati di mantenere coerenza con i fumetti, adottando spesso arbitrarie traduzioni dei nomi originali.

Sfortunatamente, sia in patria che in Italia, Spider-Man: The Animated Series non è mai stata editata in DVD, chiunque volesse rivederla tenga d’occhio le programmazioni di Fox Kids dove spesso viene replicata. Un’ottima proposta anche per chi non l’avesse mai vista!

Spider-Man – L’Uomo Ragno
(Spider-Man: The Animated Series)
Regia: Bob Richardson
Sceneggiatura: Mark Hoffmeier, John Semper, Megeen McLaughlin, Stan Berkowitz, James Krieg, Marty Isenberg, Sean Catherine Derek, Larry Brody, Cynthia Harrison, Brooks Wachtel, Doug Booth, Brynne Stephens, Len Wein, Michael Edens, Virginia Roth (personaggio creato da Stan Lee e Steve Ditko)
Origine: Usa, 1994
Durata: 65 episodi (5 stagioni)

giovedì 26 marzo 2009

Che tempo che fa in tv?

Che tempo che fa in tv?

Come ho scritto più volte l’obiettivo di questo blog è dare visibilità al bello che ci circonda, senza abbandonarsi alla facile trappola della nostalgia (che spesso si trasforma in apologia acritica del tempo andato): sebbene non siano mancati (né continueranno a farlo) approfondimenti su opere del passato, l’obiettivo primario sarebbe quello di stare sul presente, convinto come sono che ancora molto di buono venga prodotto in vari settori dell’arte e dell’industria dell’audiovisivo. E che il celeberrimo motto “si stava meglio quando si stava peggio” sia meglio lasciarlo alla convinzione di chi magari a trent’anni ragiona già come se ne avesse settanta (autentico male di parte della mia generazione).

A completamento del percorso che ho intrapreso da poco più di un anno, però, mi rendo conto sempre più della mancanza di un tassello: scorro la colonna delle etichette e non riesco a non notare la sua mancanza. Non c’è la TV. Manca uno spazio dedicato all’approfondimento sui buoni programmi televisivi. Non i Telefilm, che hanno invece il loro angolo e che attualmente vivono un periodo aureo (anzi, casomai dovrei scrivere molto di più sull’argomento). No, intendo proprio i generi del mezzo televisivo: i varietà, i quiz, i programmi d’approfondimento culturale, i talk show…

Finora ho evitato di affrontare l’argomento per non esplicitare qualcosa che porto dentro di me come un informe impasto d’emozioni e di timori, che quindi cerco di evitare, come quando incontri una persona che non ti è gradita e sei indeciso se affrontarla o cambiare strada. E come in quel caso alla fine è meglio andare al nocciolo della questione rompendo ogni indugio: la TV italiana, intesa ovviamente come il sistema televisivo che trasmette in chiaro nel nostro paese, offre un livello qualitativo vergognoso. Restituisce l’idea di un mondo povero e incapace di veicolare un autentico immaginario: o meglio (ed è la cosa senza dubbio peggiore), veicola l’idea che si possa formare un immaginario dalla sottrazione dello stesso. Metti insieme dieci persone a non far nulla in uno spazio chiuso (che sia una casa o una fattoria o un’isola) e hai creato il trend del momento. Che si possa fingere il confronto mettendo in scena la mancanza di dialogo, con urla e strepiti, ma soprattutto delegittimando ogni opinione critica.

Si obietterà: questa è la superficie, scavando qualcosa si trova. Certamente, ma resto dell’opinione che mentre il cinema rechi con sé una condizione congenita per cui la ricerca del titolo più raro è parte integrante della sua forza, per la televisione valga il contrario: la qualità non può essere disgiunta dalla visibilità del prodotto. E quindi un programma trasmesso in un orario improponibile è di per sé un programma castrato e la ricerca affannosa, lo scavo, costituisce un deficit per il bello che si vuole andare a vedere. Il problema, insomma, è sistemico e come tale resta.

Quindi in questo caso avrei dovuto attuare una prospettiva opposta: privilegiare il passato, sia per i meriti qualitatativi di molti programmi “di ieri”, sia per comprendere la deriva catastrofica del presente. Magra prospettiva.

Ci pensavo continuamente fino a quando, in pochi giorni, due programmi di prima serata mi hanno colpito, poiché sembravano essere lì, sullo schermo, proprio per rispondere ai miei dubbi e ai miei timori. Il primo è stato Report, format ormai consolidato e virtuoso, con la trasmissione sul sistema radiotelevisivo, andata in onda domenica 22 marzo (potete vederla in streaming su YouTube al link in calce a questo pezzo). Giornalismo efficace, schietto, ma soprattutto lucido nel rimettere ordine all’interno di una questione nebulosa dove emergono le mancanze della nostra inetta classe politica, lungo gli ultimi trent’anni. Un’operazione di pulizia del pensiero, addirittura, per come riesce a stabilire come i guai del presente nascano nel passato e in comportamenti lottizzatori e clientelari consolidati.

La seconda visione è stata la puntata speciale di Che tempo che fa dedicata a Roberto Saviano di ieri, mercoledì 25 marzo. La trasmissione di Fabio Fazio, sebbene non priva di alcuni difetti strutturali (a iniziare dallo stesso conduttore, spesso non all’altezza del suo compito), è un interessante format che ha saputo rielaborare il classico potere aggregante delle “previsioni del tempo” per diventare a sua volta spazio dove misurare la “temperatura” della società attraverso interessanti e costruttivi confronti con ospiti di rilievo. Con garbo e misura. La puntata in questione però si è discostata alquanto dal classico schema della trasmissione stessa (e quando invece non lo ha fatto ha accusato delle brusche cadute, come nell’inutile siparietto cabarettistico concesso sul finale ad Antonio Albanese) per concretizzarsi in due parti con un lungo monologo di Saviano e un incontro fra lo stesso e i colleghi Paul Auster e David Grossman.

Ora, Roberto Saviano è uno di quei personaggi che fanno discutere, nel bene e nel male (vi consiglio di non perdere l’interessante riflessione di Liberblog presente fra i link). Personalmente non ho – ancora – letto Gomorra e quindi non posso pronunciarmi in merito: il punto comunque è un altro. Con il suo monologo e l’incontro con i colleghi, Saviano ha compiuto un’operazione di “pulizia del pensiero” pari se non superiore a quella di Report, perché è partito dagli strumenti basilari della comunicazione massmediatica: le parole. Analizzando i titoli dei quotidiani locali ha posto lo spettatore nella condizione di capire il modo distorto con cui il messaggio mafioso viene veicolato al pubblico. Dove i valori sono rovesciati, i boss “soffrono” e si preoccupano del territorio, le vittime delle stragi sono “giustiziate” e chi collabora con la giustizia è un “infame”. Le parole, dopotutto, hanno un peso. Accompagnato da un ricco apparato iconografico, lo scrittore ha illustrato vicende che rivelavano in profondità i meccanismi del potere e del pensiero camorristico, insieme alla sua impronta sulla società. Il tutto con la dichiarata intenzione di elevare il fatto di cronaca locale a descrizione di un costume che utilizza dinamiche universali e che per questo rende necessaria la conoscenza degli eventi e la comprensione del loro senso.

Soprattutto, però, Saviano ha dimostrato come spesso quelle parole siano utilizzate in direzione opposta al Bene comune, per delegittimare anzi i punti di vista originali e critici sulla realtà, in modo da annacquare il sentire sociale e far cadere tutto nell’anonimo pastone dell’indifferenza, dove sono “tutti uguali” e in lotta per il proprio tornaconto e quindi anche chi combatte la malavita si vede improvvisamente diventare connivente, pur non essendolo affatto. Praticamente in un’oretta di trasmissione Saviano ha portato all’evidenza di tutti il cancro della televisione stessa, è come se avesse dato forma a quell’agire sbagliato che ha strozzato generi e linguaggi in nome del “popolare”, del “tutto uguale”, dove si decide al vertice ciò che interessa e ciò che invece è inutile. Mi ha fatto pensare alla lucidità dolente del cinema di George Romero e non è poco.

Pertanto oggi penso che forse del buono c’è ancora in questo sistema televisivo. E’ solo un segnale, ma magari possiamo partire da qui.

Video Report 22/3/09: Modulazione di frequenze (1/2)
Video Report 22/3/09: Modulazione di frequenze (2/2)
Testo Report 22/3/09: Modulazione di frequenze
Sito di Report
Video sintesi Roberto Saviano a Che tempo che fa 25/3/09 (1/2)
Video sintesi Roberto Saviano a Che tempo che fa 25/43/09 (2/2)
Saviano a Che tempo che fa: la paura e il potere delle parole
Saviano a Che tempo che fa: riflessioni sparse
Adnkronos: Saviano a Che tempo che fa
La Repubblica: Saviano a Che tempo che fa
Liberblog: Il caso Saviano
Che tempo che fa blog

lunedì 23 marzo 2009

L'innocenza del peccato

L’innocenza del peccato

Il maturo e brillante scrittore Charles Saint-Denis intraprende una relazione extra coniugale con la giovane e bellissima Gabrielle Deneige, star emergente della televisione: la ragazza è contesa anche da Paul Gaudens, instabile rampollo di una nota firma imprenditoriale, che cova da tempo un sordo rancore nei confronti di Saint-Denis. Abbandonata da Charles, Gabrielle accetta di sposare Paul, al quale infine rivela le sordide perversioni cui l’amante l’aveva costretta (con il suo benestare) per lungo tempo. La confessione avrà tragiche conseguenze.

Se per alcuni registi si può affermare che la matrice del loro cinema è sicuramente western (pensiamo a Clint Eastwood o John Carpenter), per Claude Chabrol essa sarà inevitabilmente ricondotta sotto il segno del noir. La sua produzione è infatti intesa al disvelamento costante di quella zona d’ombra che agisce sotterraneamente per minare alle fondamenta i rapporti umani, portando alla luce le contraddizioni dell’anima e le spinte distruttive del desiderio. Anche e soprattutto quando tale zona d’ombra non trova corrispettivo nella rappresentazione: è il caso di questo L’innocenza del peccato, dove il regista francese nega asilo su schermo alle perversioni che portano alla deflagrazione finale, relegandole al fuoricampo, e si concentra invece sulle conseguenze che le stesse producono nella vita e nella psiche dei personaggi.

Il film procede dunque per sottrazione di toni, sebbene il ritmo sia incalzante grazie ai dialoghi serrati e la forza espressiva sia assicurata soprattutto da un accurato lavoro sulla fisicità dei personaggi: d’altronde che fulcro dell’intera storia sia il corpo conteso di Gabrielle è evidente già dal titolo originale La fille coupée en deux (“la ragazza tagliata in due”) che sintetizza la collisione di forze contrapposte e le conseguenze che le stesse avranno sul cuore e sull’anima della sventurata. Qui la scelta della splendida Ludivine Sagnier si dimostra una carta vincente: viso delicato su un fisico prorompente (sebbene mai mostrato apertamente, in ossequio alla poetica autoriale del regista, basata su una messinscena di impeccabile rigore formale), Gabrielle è un corpo che evoca il peccato, in evidente ossimoro con la sua natura di “angelo” (come la chiama Charles) rappresentata dal suo disarmante sorriso, lo stesso che la rende un volto molto amato del piccolo schermo.

Il discorso viene portato avanti attraverso un calibratissimo lavoro di esplorazione dei confini tra realtà e sua rappresentazione. Il continuo rinfacciare la natura pubblica dei personaggi, ad esempio è propedeutico alla loro raffigurazione in quanto elementi di uno schema dove nessuno è se stesso, ma ciascuno recita una parte: Charles è quindi una figura che vive raccontando vite altrui e subissando chiunque conosca di citazioni, al punto da apparire una persona priva di una sua identità. Lo stesso vale per Paul, plasmato da una madre-padrona che lo ha reso un personaggio nevrotico e abituato “ad avere ciò che vuole”. In tutto questo l’unico personaggio davvero reale è l’icona mediatica Gabrielle, contesa come corpo, ma che dimostra un’anima capace d’amare realmente e di soffrire per gli sbagli commessi. Il suo personaggio sintetizza, rovesciandola però di segno, il tema dell’ossessione amorosa femminile già affrontato mirabilmente da Chabrol nel precedente La damigella d’onore. Ma stavolta non c’è reale colpa in lei se non quella di eccesso d’amore: non è un caso infatti che l’unico momento in cui la si veda sottoposta alle umiliazioni volute da Charles sia trattato da Chabrol in modo burlesco e giocoso, come a ribadire l’innocenza del titolo commessa da questo bellissimo personaggio, allo stesso tempo fragile e volitivo, capace di ispirare tenerezza e desiderio.

La natura pubblica dei personaggi si accompagna poi a una serie di momenti topici che evidenziano l’importanza del mettere in scena le azioni: le trasmissioni televisive di Gabrielle, l’intervista di Charles, fino al colpo di scena che vede coinvolto Paul - e che non a caso si svolge durante una serata di gala, su un palco e davanti a un microfono - sono espressione di una necessità di esposizione del rimosso davanti al reale. Ne consegue che anche i momenti d’ombra sembrano caratterizzati dalla stessa tensione: il costume indossato da Gabrielle durante i suoi giochi erotici, così come il suo inerpicarsi sulla scalinata hanno il sapore di una rappresentazione e di una autentica entrata in scena.

Il tutto viene sintetizzato mirabilmente nel finale, dove diventa a questo punto necessario rimettere in scena per l’ultima volta tutto il racconto portandolo alle estreme conseguenze, per garantire, sempre sul palco, la possibilità di redenzione e rinascita alla protagonista: ecco dunque che, attraverso l’espediente metaforico del numero illusionistico, il corpo di Gabrielle viene sottoposto a un catartico taglio fino a una rinascita accompagnata da effetti visivi di natura squisitamente melièsiana (origine e sintesi del cinema). E’ come se l’intero film anelasse a questo finale, lo evocasse e ne costruisse i presupposti per concedere alla giovane vittima (che pure era stata consenziente in nome dell’amore provato per il satiro) una possibilità di espiazione.

In questo senso è evidente come Chabrol riponga grande fiducia nelle possibilità catartiche del cinema, che servono proprio a strappare la zona d’ombra dai suoi nascondigli per portarla alla ribalta di un proscenio che è quello della vita. E’ un cinema profondamente morale il suo, ma non moralista, grazie alla lucidità e al rigore di chi ha compreso le armi a sua disposizione e le ha indirizzate in forma di una creazione di stile, nonché di riflessione sulla natura stessa del racconto per immagini.

La vicenda si ispira alla reale uccisione dell’architetto Stanford White, avvenuta a New York nel 1906, già al centro del film Ragtime di Milos Forman.

L’innocenza del peccato
(La fille coupée en deux)
Regia: Claude Chabrol
Sceneggiatura:
Origine: Francia 2007
Durata: 115’

Sito ufficiale francese
Claude Chabrol sulla sua carriera (1/2)
Claude Chabrol sulla sua carriera (2/2)

venerdì 20 marzo 2009

Gran Torino

Gran Torino

Dopo la morte della moglie, Walt Kowalski è rimasto solo nella sua casa, all’interno di un quartiere ormai totalmente popolato da asiatici. L’uomo trascorre le sue giornate in veranda, bevendo birra, lanciando occhiate di sdegno contro gli “stranieri” che lo circondano e lustrando la sua Ford Gran Torino, gelosamente custodita in garage. Proprio il furto dell’auto diventa però il rito d’iniziazione che il giovane Tao deve superare per entrare nella gang giovanile di suo cugino: scoperto, Tao diventa suo malgrado l’artefice dell’avvicinamento di Walt alla comunità asiatica del quartiere. L’uomo lo prenderà anche sotto la sua ala protettrice instaurando con lui quel rapporto che non era mai riuscito ad avere con i figli.

Gran Torino è un film in perenne oscillazione tra due estremi: la vita e la morte innanzitutto, da sempre centrali nel cinema di Clint Eastwood, con una inevitabile preminenza della seconda. Ma stavolta c’è qualcosa di diverso, una tensione particolare, la stessa che probabilmente rende il film così magnificamente imperfetto, narrativamente disequilibrato, diseguale nel dare spazio a momenti ironici o a gag che raccolgono più spazio di quanto dovrebbero (soprattutto in un confronto diretto con il precedente e più compatto Changeling). La sensazione è che stavolta la morte debba lasciare spazio maggiormente alla vita e per questo i termini del rapporto devono essere riequilibrati, per ricominciare daccapo. Ecco dunque che Walt Kowalski si concretizza come una summa dei personaggi eastwoodiani classici: il duro sergente Gunny, il pistolero essenziale nei gesti, e, inevitabilmente, il cinico Harry Callaghan. Ma il grilletto stavolta non deve essere premuto, la pistola viene formata solo dalle dita che sono puntate contro un nemico più fittizio che reale. Gli estremi che servono al film per perorare il suo continuo oscillamento di toni sono d’altra parte meramente strumentali. Possiamo anche porre in essere la dicotomia tra il “proprio territorio” e il mondo “di fuori” dove vivono gli altri, ma è chiaro come sia solo la prospettiva a dare forma a questi estremi, perché è sufficiente offrire il controcampo allo “straniero” per rendersi conto che l’anziana donna nella sua veranda considera allo stesso tempo Walt il “diverso,” il monstrum che non ha lasciato libera la sua casa in uno spazio ormai totalmente di proprietà dei “gialli”.

In fondo le sfumature tra gli opposti riflettono la contraddizione insita in un americano ultraconservatore di origine polacca, che interagisce con amici di varia nazionalità (il barbiere italiano in primis, poi l’ingegnere irlandese e, inevitabilmente, i vicini asiatici), a dare l’idea di un tessuto che è americano soprattutto in quanto multietnico. Ecco dunque che la tensione interna al film si ritrova nella necessità di superare il bisogno di punti fermi, per produrre una materia in perenne oscillazione che sia capace di ricomprendere i singoli nel tutto. Ma qui si evidenzia il fulcro nodale della storia: la necessità di una comprensione reale che superi il mero ricalco dei codici.

La mimesi di una cultura altrui, infatti, non può condurre a nulla se non passa per la conoscenza e l’attribuzione di senso a ciò che si sta facendo: il ragazzo impacciato che chiama “fratello” un nero imitando un suo ipotetico linguaggio mutuato dalle mode e dalla musica è il simulacro evidente di una normalizzazione delle diversità in un amalgama indistinto che non produce né senso né tantomeno conoscenza. Occorre innanzitutto sapere da dove si viene (e Walt, con il suo carico di dolori e rimpianti, sicuramente è uno che lo sa) per capire dove si sta andando. Il superamento del confine ideale che coincide con il “proprio terreno” è quindi un atto reale che produce gesti fisici (la condivisione del cibo, degli attrezzi da lavoro, fino all’auto), ma anche ideale che deve produrre una conoscenza autentica dell’altro da sé.

Gli estremi più evidenti su cui il film si fonda sono quindi eminentemente fordiani: nel senso di John, autentico nume tutelare della vicenda per la palingenesi come figura retorica su cui articolare un racconto votato alla costituzione di una comunità (concreta e non sottoposta ai fittizi legami imposti da convenzioni e regole). Ma anche nel senso di Henry, non a caso figlio di immigrati e diventato il cantore americano di un progresso che produce benessere soltanto quando diventa condiviso: ecco perché la Gran Torino diventa l’icona del film, di una qualità che stavolta rovescia completamente di segno la disarmante presa di coscienza di Mystic River, dove la vendetta era considerata come l’inevitabile elemento fondante della società statunitense. Stavolta anzi è proprio il ripudio della vendetta a cementare il legame e la morte diventa non più il viatico per una perdizione, né un gesto di pietà estrema (come in Million Dollar Baby), ma l’esempio più diretto che il passato può fornire al presente riguardo alla necessità di capire gli errori e fondare un presente più giusto.

Pertanto diventa necessario che Clint Eastwood debba mettere in scena in modo puramente catartico la sua fine: come ad assumere su di sé quella morte che nel resto del suo cinema era un sentimento estroflesso, che dettava i tempi e caratterizzava la realtà, e che ora può essere strappata al mondo per far trionfare finalmente la vita. Tutto questo con grande passione, concedendosi e concedendoci momenti gustosi, le smorfie tipiche del suo personaggio, in quella che è dichiaratamente la sua ultima performance davanti alla macchina da presa. Speriamo davvero che non sarà così, ma intanto godiamoci l’ennesimo gioiello della sua straordinaria carriera.

Gran Torino
(id.)
Regia: Clint Eastwood
Sceneggiatura: Nick Schenck
Origine: Usa, 2008
Durata: 116’

Sito ufficiale
Sito ufficiale americano
Intervista a Clint Eastwood
“Gran Torino”: tema cantato da Clint Eastwood
La Ford Torino su Wikipedia
La Guerra di Corea su Wikipedia
Henry Ford su Wikipedia

lunedì 16 marzo 2009

1 anno nel Nido

1 anno nel Nido

E’ già trascorso un anno dalla creazione del blog! Era iniziata come un gioco, quasi senza pretese, ma gradualmente (senza che fosse programmato o me lo aspettassi) questa esperienza si è ritagliata nella mia vita uno spazio tutto suo ed è diventata sempre più importante. Ormai il Nido è una valvola di sfogo, è il mio angolo in cui posso rintanarmi per ritrovare il piacere del confronto scritto con tutto quello che amo, ma allo stesso tempo è un qualcosa che mi ha portato regali inaspettati: nuove e interessanti conoscenze, lettori che ringrazio per il loro apporto, confronti molto produttivi con gente interessante e soprattutto quella sottile sensazione di piacere che provi nel buio della sala, quando hai il piacere di restare folgorato da una visione e pensi di voler subito correre a casa per buttare giù i pensieri, dare loro forma in quello che diventerà un nuovo mattone del progetto. Senza l’assillo delle scadenze, delle lunghezze, di tutto quell’apparato che la scrittura professionale naturalmente porta con sé.

Ne è venuto fuori, in un anno, un insieme che è un mosaico variegato di esperienze fissate nell’immaterialità dello spazio virtuale, ma che ancora abbozza soltanto l’idea di partenza. In questo momento, infatti, penso a quanto c’è ancora da fare: nuovi percorsi da aprire, altri da chiudere, titoli da recuperare e nuove scoperte da effettuare in giro per le sale, l’Italia e la Rete. E questo significa che l’entusiasmo, da questa esperienza, ha tratto grande giovamento. E che l’intenzione ora è di continuare e fare sempre meglio. Intanto grazie ancora a chi mi ha seguito fin qui!

venerdì 13 marzo 2009

Rileggendo "Watchmen"

Rileggendo “Watchmen”

Ora che i cinema di tutti il mondo sono stati invasi dall’inerte e didascalica trasposizione ad opera del sopravvalutato Zack Snyder, conviene recuperare l’originale cartaceo di Watchmen per riscoprirne i meriti precipui, in rapporto al genere dei supereroi e alla realtà di ieri e di oggi. Già, perché se esiste una caratteristica capace di sovrastare le tante degne di nota e di riassumere il lavoro di Alan Moore e Dave Gibbons, questa è la capacità di dare forma a un’opera transmediale già all’origine (basti consultare l’esaustiva pagina di Wikipedia inserita tra i link in calce a questo articolo per rendersene conto): costruito come un gioco di rispecchiamenti tra realtà, sua rappresentazione e finzione esibita, Watchmen è un racconto articolato su più livelli espressivi, che sfrutta il formato del fumetto con disarmante matematicità (la griglia visiva accetta poche deroghe a una scansione preordinata in 9 vignette verticali per tavola), ma nello stesso tempo tende a un realismo da sempre caro a Moore: basterà ricordare l’altra grande saga cartacea di From Hell dove l’immaginifica vicenda sui retroscena riguardanti le imprese di Jack lo Squartatore si iscrive nelle pieghe della Storia, indagata e ricostruita con fare certosino. Siamo quindi in una realtà alternativa che si pone come credibile, dove gli eroi mascherati sono vigilantes prima ancora che superuomini (uno solo è dotato di poteri) e il contesto svolge un ruolo fondamentale per rendere plausibile la loro storia.

La sceneggiatura approccia la materia in modo da renderla densa, alta: il dialogo ha una forza predominante, ma il lavoro di Gibbons tiene testa alla penna dello sceneggiatore e crea sequenze che nella loro apparente semplicità hanno una forte impronta cinematografica, lavora con i colori giocando spesso sulla simmetria delle vignette e dando vita a percorsi visivi all’interno delle singole tavole, sfruttando anche le affinità delle forme e degli oggetti in una logica dell’associazione visiva che rende ogni dettaglio importante. Il gioco di sovrapposizioni fra i personaggi, le loro maschere, gli specchi e fra la realtà tutta e il fumetto-nel-fumetto “I racconti del Veliero Nero”, contribuisce a dare forma a un’opera labirintica e stratificata.

Moore però non è soddisfatto e tenta di andare oltre, azzannando la materia direttamente alla gola: quelli che si offrono al lettore sono sì uomini ma anche supereroi, in un gioco che si situa a metà strada fra l’operazione revisionista e la profonda adesione alle regole, esplicitate attraverso un preciso lavoro sull’iconografia e sui cliché di genere (l’esperimento sfuggito di mano che produce il superuomo, il trauma infantile come base della decisione di indossare la maschera del vigilante, il rapporto feticistico con la violenza). L’obiettivo dichiarato è sfruttare al massimo il linguaggio del fumetto per trascenderlo e diventare opera altra: ecco dunque che, accanto alle tavole splendidamente disegnate da Gibbons, fanno la loro comparsa degli apparati iconografici che sono parte integrante della storia, ne analizzano gli aspetti da prospettive parziali ma in grado di far emergere particolari degni di nota e si pongono quindi come elementi di analisi del testo, ma anche come suo naturale prolungamento: l’universo messo in scena diventa così pienamente verosimile, sebbene la natura metacritica del racconto sia parimenti evidente.

Sovrastruttura teorica e struttura di genere quindi si fondono in un abbraccio che è allo stesso tempo intellettuale e profondamente umano, in questo universo in disfacimento, dove gli eroi sono personaggi squallidi che solo grazie alle loro maschere si differenziano da un’umanità sordida di cui si reputano salvatori, ma della quale sono invece specchio. L’eroe, insomma, è nudo e in alcuni passaggi si avverte una malinconia che arriva a spezzare il razionalismo eccessivo di un autore come Moore, che spesso affronta le sue storie con un piglio eccessivamente filosofico e poco umano, rendendo davvero Watchmen un meccanismo che travalica i suoi presupposti (quelli di genere e quelli che fondano la poetica dell’autore).

L’ambientazione nel 1985 di una realtà alternativa dove la tensione fra i blocchi è alle stelle, riflette perciò il presente della narrazione (il graphic novel uscì nel 1986) e compie un’operazione radicalmente volta al rovesciamento di segno dell’immaginario popolare, al tempo soverchiato dalle idee edoniste portate avanti dalla Reaganomics.

Ma tutto questo non avrebbe senso se non fosse accompagnato dal finale catastrofico dove Moore porta a compimento il suo percorso per re-iscrivere i suoi antieroi nello specifico del genere, attraverso un drammatico confronto finale che affonda le sue radici nelle fobie della fantascienza anni Cinquanta e grazie al quale tutti i personaggi, non senza conseguenze, troveranno il compimento della loro missione e accetteranno i loro fallimenti, approfittando della possibilità che viene loro offerta di togliersi quella maschera che hanno sempre vissuto come un peso (tutti tranne il dissociato Rorschach, l’unico che la considera come la sua “vera faccia” e che per questo si dissolverà con lei). E il bello è che, con 16 anni di anticipo, sembra di assistere a una trasfigurazione dell’11 settembre, ma con un esito completamente opposto! Il disastro diventa infatti un momento di re-inizio per un’umanità stanca e piagata dalle guerre (ignara di cosa sia realmente successo): altro interessante rispecchiamento, che stavolta travalica del tutto la pagina per affondare nella Storia contemporanea, sottraendo la vicenda al suo tempo per diventare metafora del nostro.

Ecco perché ha senso rileggere Watchmen oggi. Perché crediamo di leggere un trattato analitico sui supereroi ma invece siamo più vicini a una moderna parafrasi di Ultimatum alla Terra (testo faro della paranoia sociale e non a caso fondativo anche della fantascienza anni Cinquanta). E i protagonisti non sono più gli uomini in costume, ma tutti noi.

Watchmen
(id.)
Scritto da Alan Moore
Disegnato da Dave Gibbons
Pubblicato da Planeta De Agostini
Volume unico (graphic novel)
1985

Watchmen su Wikipedia
Dossier Watchmen
Speciale Alan Moore
Magical Mistery (Alan) Moore
Intervista ad Alan Moore (in inglese)
Malpertuis: Zack Snyder è un deficiente

mercoledì 11 marzo 2009

Omiros (Hostage)

Omiros (Hostage)
 
Grecia. Elion è un immigrato albanese che vuole tornare al suo paese per ricongiungersi alla famiglia. Prima di partire, però, vuole che gli sia restituita quella dignità che gli è stata rubata e perciò sale armato a bordo di un bus e prende in ostaggio tutti i passeggeri. La sua richiesta è perentoria: vuole un milione di euro con i quali fare ritorno in patria e le armi smerciate dal poliziotto che l’ha incastrato. Durante il viaggio emergerà la verità e si svilupperà una forte solidarietà fra i viaggiatori e il loro sfortunato sequestratore.

Ad oggi l’ultimo film di Constantine Giannaris (fattosi notare nel 1999 con Città nuda), Omiros si distingue per l’interessante scelta di innestare un complesso discorso sul senso di appartenenza a una comunità su una struttura di genere che rielabora alcuni stilemi del cinema americano: nel caso specifico quello del gruppo prigioniero di un sequestratore, matrice di tutto il cinema d’azione degli anni Novanta da Die Hard in poi, sebbene la scelta di ambientare tutto il racconto su un bus faccia pensare più che altro al celebre Speed. I paralleli con il bel film di Jan De Bont, però, iniziano e finiscono qui, perché diversi sono i codici espressivi e i temi del racconto, che riesce a evitare l’ossessività performativa attraverso una struttura franta, con ellissi e repentini flashback che svelano la verità in modo progressivo e non lineare. Ne viene fuori un film programmaticamente scritto già nel proprio titolo, ma intenso e capace di respirare di uno slancio emotivo non comune.

Il lavoro sui codici espressivi del cinema d’azione viene restituito da una grande nervosità dello stile visivo, che, dopo un avvio in medias res, racconta quasi tutta la vicenda con camera a spalla e un montaggio molto veloce, capace di dare ritmo alle sequenze più concitate, dove la tensione interna ed esterna al gruppo si fa sentire: Giannaris è bravissimo però nell’iscrivere il tutto sui corpi dei personaggi, a iniziare da quello del protagonista Stathis Papadopoulos: sofferenti, piagati, bagnati dal sudore e capaci anche di esercitare attrazione reciproca, uomini e donne rappresentano tutti insieme il simbolo di una vitalità che scalpita fra le pieghe di un reale altrimenti preordinato in maniera asettica e disumana. D’altronde gli stati d’animo dei singoli sono modulati anche in rapporto all’ambiente, motivo per il quale il bus non diventa soltanto un alveo distaccato dal contesto, ma anche un elemento che interagisce con un esterno che nei colori e nei vari scenari sembra riflettere la bellezza perduta di un mondo dove si agitano personaggi inquieti.

Il senso della storia in fondo è proprio questo: isolare per un intero arco narrativo alcune persone che condividono esperienze in egual misura difficili, per mostrare come esse siano ostaggi non già dell’isolato sequestratore comparso nelle loro vite, ma, al contrario, della vita di tutti i giorni, dove le convenzioni imposte dalla società, dal costume e dalle autorità temporali impongono loro la stasi in una condizione di continua infelicità. L’esterno non è capace di comprendere perché preda della confusione (veicolata dai mass-media, invasivi e caotici) oppure dalla sopraffazione dei più forti sui più deboli, che non lascia scampo e non perdona chi vuole deragliare dal percorso assegnato.

La violenza fisica che vediamo pertanto esercitare (in modo evidentemente ingiusto) su Elion durante i flashback diventa esplicitazione materiale di una pressione psicologica cui tutti i cittadini sono sottoposti, dove eccezioni ed errori vengono durante puniti: il gesto di ribellione che il ragazzo porta avanti permette così ai vari passeggeri di riflettere sulla loro condizione umana. 

Questo non fa altro che cementare la bizzarra unione che si è nel frattempo creata fra sequestratore e sequestrati, che diventano perciò l’unica possibile forma di comunità, all’interno di un mondo esterno dove Elion sarà sempre e soltanto un outsider. Qui Giannaris gioca la sua altra carta vincente, quando rovescia la prospettiva innestata dallo stesso Elion, che dipinge la Grecia come luogo di perdizione, che gli ha sottratto dignità e umanità, e l’Albania come una terra promessa che attende il suo ritorno come quello del biblico figliol prodigo.

Così, se la prima parte della storia insiste strumentalmente sulle differenze etniche e di stato sociale, per lasciare che poi l’interazione con Elion (“diverso” perché straniero) abbatta ogni convenzione, nella seconda nuove forme di solidarietà nasceranno e cementeranno il gruppo dando forma a traiettorie emotive in grado di veicolare l’intera vicenda verso la tragedia, quando Elion arriva a comprendere fino in fondo la sua natura di outsider fra due mondi che ugualmente lo rifiutano: qui i colori diventano più saturi e il genere vira verso il melodramma puro assestando i colpi più duri. Come nell’ultimo atto di una rappresentazione teatrale, tutti i personaggi si ritrovano riuniti per assistere alla conclusione degli eventi e i ruoli vengono ancora una volta ribaditi prima di calare il sipario.

Il film si ispira a un fatto realmente accaduto nel Nord della Grecia nel 1999 ed è inedito in Italia: è stato presentato in concorso al Festival del Cinema Europeo di Lecce nel 2006.


Omiros/Hostage
(Omiros)
Regia e sceneggiatura: Constantine Giannaris
Origine: Grecia, 2005
Durata: 100’

lunedì 9 marzo 2009

Black Christmas

Black Christmas

Mentre si preparano a festeggiare il Natale, le ragazze di una confraternita studentesca sono prese di mira da un maniaco che le perseguita con telefonate oscene. Non visto, il mostro si installa nella soffitta del loro dormitorio e miete la sua prima vittima. Le ricerche da parte di polizia e volontari hanno inizio, mentre la giovane Jess deve confrontarsi con una gravidanza indesiderata e un fidanzato che intende imporle le sue decisioni.

NOTA: contiene importanti rivelazioni sul finale.

Agli albori del sottogenere slasher c’è questo cult-movie, per troppo tempo confinato nel limbo degli introvabili, fino alla sua uscita in DVD da parte di Gargoyle Video (di recente è approdato anche nelle edicole mentre nei cinema è uscito l’immancabile e non richiesto remake). L’aderenza del film ai codici espressivi del filone è sorprendente se consideriamo come il progetto preceda di ben quattro anni il capostipite Halloween e provenga da una cinematografia altra come quella canadese, all’interno della quale costituisce un investimento di una certa consistenza: è sufficiente dare un’occhiata al cast, che unisce l’ex kubrickiano Keir Dullea e il veterano John Saxon a giovani promesse come Olivia Hussey (la futura Maria del Gesù di Nazareth, di Zeffirelli) e Margot Kidder (Superman, Amityville Horror), per rendersene conto.

La scoperta dei topoi che il regista Bob Clark ha inconsapevolmente contribuito a codificare costituisce sicuramente l’aspetto più interessante per gli appassionati dell’horror: il film, infatti, anticipa molte trovate del già citato capolavoro di John Carpenter, con l’inizio in soggettiva, l’assassino sfuggente e dal respiro affannoso, la centralità di un gruppo femminile sotto assedio e la telefonata come momento topico dell’orrore - aspetto quest’ultimo, che sarà ripreso in maniera ancora più centrale dall’egualmente invisibile Quando chiama uno sconosciuto, ancora in attesa di una riscoperta. Manca invece il tema della maschera, ma si narra a questo proposito che l’idea stessa di Halloween sia nata da una conversazione che Carpenter ebbe con Clark a proposito di un ipotetico sequel di Black Christmas. Quale sia la verità poco importa di fronte a due progetti sicuramente comunicanti, ma in grado di conservare distinto valore e che hanno contribuito in egual misura a ridefinire le coordinate della paura su grande schermo.

In questo modo l’aspetto realmente interessante del film di Clark sta tutto nel suo segnare il passaggio a una nuova concezione di thriller che si smarca dalla logica ferrea del whodonit di matrice hitcockiana, in favore di una mera performance della tensione: la classica compattezza narrativa lascia dunque spazio a un incedere frammentario che si contenta degli stati d’animo che mette in campo all’interno dei singoli momenti e che pertanto si barcamena fra risvolti thriller e altri più smaccatamente ironici o dissacranti. Altra grande trovata è non a caso quella del periodo temporale all’interno del quale la vicenda si colloca, che permette all’umore nero della vicenda di fermentare in opposizione alla gaiezza iconica del Natale. In questo senso, anzi, il film sembra voler sviscerare la sostanziale ipocrisia di una festa che inneggia alla felicità all’interno di un quadro sociale profondamente disgregato: tra studentesse indisciplinate, governanti ubriacone e poliziotti incapaci, domina soprattutto un’idea generale di profonda indifferenza reciproca, che apre le porte a un afflato distruttivo del quale il killer è epitome. Tutto questo è comunque immerso all’interno di un preciso momento storico (come sempre accade con i lucidissimi horror di Bob Clark), nel quale gli uomini risultano sconcertati di fronte all’emancipazione delle donne, tema esplicitato sia dall’imbarazzo che l’anziano mr. Harrison prova di fronte alla confraternita dove vive sua figlia, sia (soprattutto) dal violento contrasto che si sviluppa tra Jess e il suo fidanzato Peter per il destino del bambino che la ragazza porta in grembo (e a ripensarci oggi che a manifestare una volontà abortiva sia la futura Maria zeffirelliana appare ancora più dissacrante!).

La struttura narrativa si innesta perciò su una realtà come non mai disgregata e la trovata più radicale (e per questo geniale) del film sta tutta nella sua mancata quadratura finale, che suona come il massimo sberleffo possibile alle regole del giallo classicamente inteso. Il movente dell’assassino e la sua identità non vengono rivelate, lasciando sospendere il finale in una agghiacciante incertezza.

Il film trova dunque compiutezza soltanto nei singoli momenti, dove Clark denota, accanto a una perizia tecnica non comune (impressionanti la soggettiva iniziale “acrobatica” sulla scala che conduce alla soffitta dell’edificio e l’omicidio di Margot Kidder su montaggio alternato) un perfetto studio degli spazi, dei suoni e dei giochi di luce, che conferiscono notevole tensione alle singole sequenze thriller: quasi tutto il film è in presa diretta, ed esalta gli scricchiolii delle pareti in legno, le ombre sui muri fino al massimo dell’elaborazione sonora che avviene sulle telefonate, dove il killer passa in rassegna diversi stati d’animo e toni vocali (le voci registrate erano 5!) creando una cacofonia di grande impatto. Da vedere rigorosamente in lingua originale.

Black Christmas – Un Natale rosso sangue
(Black Christmas)
Regia: Bob Clark
Sceneggiatura: Roy Moore
Origine: Canada, 1974
Durata: 94’

venerdì 6 marzo 2009

"The Wrestler" finalmente al cinema!

“The Wrestler” finalmente al cinema!

Vibrante, lirico e commovente, arriva oggi nelle sale The Wrestler, diretto da Darren Aronofsky e gratificato da un indimenticabile Mickey Rourke, capace di colpire direttamente al cuore lo spettatore (speriamo che la sua gigantesca performance non sia oscurata dal doppiaggio, ovviamente la visione in lingua originale resta un evento da rincorrere!). Il film è stato presentato in anteprima ormai molti mesi fa alla Mostra del Cinema di Venezia ed è distribuito da Lucky Red.

Per l’occasione la recensione già presente da tempo qui sul Nido è stata integrata di nuove immagini e link. Un film da non perdere!

The Wrestler sul Nido

mercoledì 4 marzo 2009

La secchia rapita

La secchia rapita

Torniamo ancora una volta nei confortevoli territori di Supergulp! perché l’uscita del quinto DVD ha riportato alla luce un autentico gioiello in semianimazione, La secchia rapita, realizzato da Pino Zac e trasmesso il 12 ottobre 1972 nella quinta puntata di Gulp! La matrice è ovviamente fornita dal celebre poema eroicomico di Alessandro Tassoni, che racconta in dodici canti la guerra fra Modena e Bologna del 1325, con le debite variazioni utili all’autore per portare avanti il suo intento satirico.

Nell’immaginazione del poeta, infatti, la secchia (un normalissimo secchio di legno) diviene il pretesto per l’inasprirsi del conflitto, dal momento che i modenesi, dopo aver respinto i rivali dentro le loro mura ed essersi dissetati con l’acqua di un pozzo, rubano il contenitore come trofeo e testimonianza del successo. Scritto nel 1615, ma pubblicato nel 1622, La secchia rapita è un racconto gustoso, dove alberga il gusto per il paradosso e per la caratterizzazione caricaturale, simbolo di una concezione artistica che non si riconosce nelle autorità (artistiche, spirituali e temporali).

Per le ovvie ragioni legate alla necessità di contenere i fatti nei soli dieci minuti di durata del “fumetto in Tv”, la versione televisiva opta per una netta compressione degli eventi e si limita al solo primo canto, concludendosi con il ritorno degli “eroi” a Modena dove la secchia resta a ricordo della battaglia. Il racconto segue fedelmente il testo originario, pur sintetizzandolo e facendolo recitare in parte ai protagonisti ma soprattutto a un narratore con tanto di cetra, caricatura dello stesso Tassoni, ispirato per l’occasione da un Apollo che alle ali divine unisce una ben più terrena barbetta incolta!

La recitazione è volutamente esasperata nel tono per rimarcare la natura grottesca dei fatti, ed è sottoposta a un curioso processo di “localizzazione” attraverso cadenze dialettali emiliane: scelta di per sé coraggiosa e che non teme di tagliare fuori una parte di spettatori possibilmente spaventati dall’alterità che la scelta giocoforza mette in campo (facile scommettere quali sarebbero invece le reazioni nella televisione odierna).

I disegni (alla cui realizzazione ha collaborato Giuliano D’Ignazio) riportano il tipico tratto delle opere di Pino Zac e uniscono al tratto sottile un gusto per figure grottesche e rubiconde: domina comunque una essenzialità che trova la sua maggior evidenza nelle scene di massa, dove la confusione dei corpi produce figure dal tratto più incerto e dai colori più evanescenti, dove spesso le masse si confondono in una tinta uniforme e restituiscono l’idea del caos in una battaglia dove a combattere sono degli autentici spiantati e non esiste gloria quanto trambusto. Non mancano scelte stilistiche che riescono ad aggiornare magnificamente l’intento originario di Tassoni al format del tele-fumetto: in particolare la cruenza degli scontri viene ribaltata di segno attraverso immagini comiche in cui le guance o i nasi degli avversari sono affettati come fossero salumi, in una geniale intuizione che sembra rimandare ai capolavori grotteschi del grande collega Benito Jacovitti, ma che è anche fedelissima alle atmosfere evocate da alcuni passaggi del poema (“che gli tagliò quella testaccia riccia / con una pestarola da salciccia”).

L’animazione invece si limita a far recitare il Tassoni e il “Potta” (ovvero il potestà modenese), mentre per il resto si segue la formula del fumetto televisivo, con tanto di baloon, onomatopee e, soprattutto, una regia che isola i dettagli e restituisce il senso del movimento, aiutata naturalmente da un apparato sonoro puntuale e che nella sua essenzialità sa focalizzarsi sui punti principali (lo scorrere d’acqua nella secchia, il rumore della folla che combatte). A rivederlo oggi pare incredibile che la televisione italiana abbia prodotto un simile capolavoro, capace di unire un gusto popolare a una incredibile ricercatezza nella scelta del testo: d’altronde Pino Zac (pseudonimo di Giuseppe Zaccaria) è stato nella sua vita poeta e artista satirico, quindi il suo interesse per l’opera di Tassoni appare comprensibile.

Tra i fautori dell’unione di “alto” e “basso”, contrario al poema epico e invece più incline a una satira di costume, qui evidente nella grottesca figura del potestà, Tassoni era alfiere di un tipo di poesia che si rivolgesse a un pubblico non d’élite ma popolare. Sicuramente avrebbe gradito questa splendida trasposizione del suo lavoro.

Biografia e disegni di Pino Zac
La secchia rapita: il poema su Wikipedia
Alessandro Tassoni su Wikipedia
Il poema originale

lunedì 2 marzo 2009

La classe

La classe

Francois è professore di lettere in una scuola media inferiore alla periferia di Parigi, caratterizzata da una forte matrice multietnica. Il suo approccio è votato all’insegnare attraverso il dialogo, ma ugualmente gli scontri con la terza classe si fanno sempre più aspri e arrivano a metterlo in difficoltà, fra studenti particolarmente refrattari alla vita sociale, ripicche incrociate e consigli disciplinari dove predomina la linea della fermezza. Il film si snoda lungo l’intera durata dell’anno scolastico.

Rivelatosi nel 1999 con Risorse umane, Laurent Cantet si è in breve tempo distinto come un autore dallo sguardo rigoroso, capace di dare corpo a storie che, nell’indagare i meccanismi del reale (in senso economico e sociologico), non perdono mai di vista il precipitato squisitamente umano delle vicende di volta in volta narrate. La classe rientra perfettamente in questo disegno e, sebbene il titolo italiano tenda a circoscriverne i fulcri narrativi e tematici all’interno della micro-comunità formata dagli studenti e dal singolo professore Francois, in realtà il film è molto di più. Il titolo originale Entre le murs (“Fra le mura”) è in questo senso molto più sintomatico dell’operazione compiuta da Cantet, perché a un tempo circoscrive il campo d’azione del film (la scuola e la classe), ma sintetizza anche la natura paradigmatica del racconto, dove gli scontri che avvengono nello spazio delimitato dalle mura riflettono metaforicamente quello della realtà esterna.

“Tra le mura”, dunque, non come tentativo di rinchiudersi in un ambiente sganciato dal contesto, ma per immergersi anzi in uno spazio “poroso” e confinante con un altrove mai inquadrato compiutamente (se non per le poche, fondamentali, scene ambientate in cortile) eppure sempre presente attraverso il bagaglio umano, culturale e familiare che ogni personaggio porta con sé.

La delimitazione dello spazio diventa quindi pretesto per una organizzazione del discorso, sebbene Cantet sia bravissimo ad evitare l’esibizionismo teorico: il film procede a braccio, inanellando una serie di situazioni scaturite a partire da alcuni punti fermi appositamente scalettati, condotti da un protagonista che è il vero insegnante dal cui romanzo la pellicola si dipana, e il tutto è girato in HD, con i fatti costantemente ripresi con macchina a mano. Eppure questa tecnica non esibisce se stessa (come accade invece nel Real Cinema), non restituisce l’idea di un film performativo ma anzi di un interessante ibrido fra documentario e ricostruzione (fiction) degli eventi, lasciando aperti gli spazi che permettano alla struttura stessa del film di catturare ogni slancio di realtà favorita naturalmente dall’interazione di attori non professionisti.

In quest’ottica l’intera storia ritrova e perde se stessa: cerca l’attimo imprevisto, ma nello stesso tempo ha ben chiara la dinamica d’insieme attraverso la posa in essere di varie dicotomie, che vanno da quella – più scontata e per questo minoritaria – tra le etnie a quella generazionale. Ciò che si snoda davanti ai nostri occhi è infatti il ritratto di una società dove adulti e adolescenti risultano diffidenti gli uni verso gli altri e la battaglia di Francois sta tutta nel cercare di ridare senso alle parole, in quanto unico strumento in grado di favorire la comunicazione e appianare i motivi di litigio. Cantet, però, non parteggia per l’insegnante e non affida quindi al dialogo la forza trainante del film, ma piuttosto alla cacofonia di suoni che la classe produce, con spezzoni di frasi che si accavallano tra loro, parole che si intrecciano dando al film una musicalità violenta e che finisce naturalmente per costituire il terreno di coltura dei contrasti stessi. In questo senso la missione di Francois si dimostra fallimentare già in partenza, perché involontariamente aderisce a un modello educativo vetusto, sebbene animato dalle migliori intenzioni (il suo approccio alla materia, basato sul dialogo, è infatti tra i più atipici e moderni dell’istituto): il suo agire mira pertanto a contestualizzare un flusso vitale che non può essere circoscritto “fra le mura” delle regole grammaticali e lessicali e, dunque, delle convenzioni sociali. Il mondo va avanti, i rapporti di forza si modificano, e questo l’insegnante lo imparerà a sue spese quando sarà proprio una sua parola (un epiteto rivolto a due studentesse) a compromettere in modo quasi definitivo il rapporto con gli studenti e a spingerlo per la prima volta a confrontarsi con loro nel cortile, al di fuori delle mura.

L’unico possibile elemento di preservazione che il sistema scolastico può quindi opporre alla propria incapacità di afferrare i sentimenti dei vari personaggi è quello iscritto all’interno dei codici comportamentali che l’istituto si sforza di far osservare, senza che però nemmeno gli insegnanti siano pienamente consapevoli del proprio ruolo: tra colleghi che inneggiano meccanicamente alla punizione, altri che si preoccupano di argomentazioni più futili e altri ancora che rifiutano totalmente di instaurare una qualsiasi dialettica con i ragazzi perché fiaccati dalla loro endemica tendenza al contrasto, ne emerge un ritratto molto amaro, che denuncia la necessità di un ripensamento del ruolo educativo all’interno di una società diventata molto più complessa. Il libro Cuore è ormai un lontano ricordo e una sua possibile attualizzazione deve quindi tenere conto della nuova realtà: ciò che in tutto questo realmente interessa a Cantet è quindi il susseguirsi di eventi singoli che siano in grado di restituire, insieme alla fragilità dei rapporti umani, anche la loro complessità e ricchezza, tanto che non è infrequente imbattersi in momenti ironici e emotivamente intensi. Sono questi ultimi a costituire la caratura autoriale di un film che intende porsi come atto di resistenza al degrado che pure illustra. I contrasti trovano così un possibile termine solo nell’inquadratura finale delle mura ormai vuote, mentre insegnanti e studenti giocano a palla nel cortile, dimenticando per un attimo i ruoli e condividendo il piacere dell’essere parte dello stesso universo.

La classe
(Entre les murs)
Regia: Laurent Cantet
Sceneggiatura: Laurent Cantet, Robin Campillo, Francois Bégaudeau (dal romanzo di Francois Bégaudeau)
Origine: Francia, 2008
Durata: 128’

Intervista a Laurent Cantet
Sito ufficiale francese
Breve biografia di Francois Bégaudeau
Approfondimento sul romanzo originale
Excursus critico su Laurent Cantet