Il rifugio
Dopo la morte del compagno Louis per overdose, Mousse si ritrova sola e in attesa di un figlio: la famiglia del compagno vorrebbe che abortisse, ma lei preferisce ritirarsi in una casa vicino al mare dove affrontare la sua gravidanza in silenzio. Qui la raggiunge Paul, il fratello omosessuale di Louis, per trascorrere alcuni giorni insieme. E’ l’inizio di un impossibile legame di coesistenza/corteggiamento destinato a incidere sul destino del nascituro.
E’ singolare che un cinema designato a dividere estimatori e detrattori, come quello di Francois Ozon, ci parli così spesso di divisioni o di progressivi avvicinamenti fra universi tra loro distanti. Il rifugio del titolo, in fondo, non è soltanto quello di chi decide di astrarsi dal mondo, ma anzi l’unità di misura che marca proprio la distanza fra i mondi. L’intento è dichiarato fin dal doloroso incipit, in cui vediamo Mousse e Louis prostrati dalla tossicodipendenza, ma ancora decisi a iniettarsi l’ultima dose letale: le braccia sono ormai tumefatte, ma l’astinenza è implacabile e il ragazzo decide di iniettarsi la dose direttamente in una vena giugulare, consegnandosi così alla morte. Oltre alla durezza della scena, ritratta peraltro senza compiacimenti sadici, ma allo stesso tempo senza glissare sui dettagli, colpisce la condizione dei due, felici del loro status di rifugiati in un appartamento che sa tanto di prigione dorata: sembra quasi di vedere i Dreamers di Bertolucci, ormai cresciuti e delusi da un mondo che preferiscono continuare a lasciare fuori per abbandonarsi all’estasi fittizia di un sentimento che si sublima nel consumo di droghe. E’ una visione che fa male, ma è necessaria a rimarcare una distanza.
Louis d’altronde è di famiglia ricca e proprio la sua famiglia, dopo la morte, vorrebbe preservare la “purezza” del lignaggio attraverso l’aborto: eliminare quindi il frutto di quella relazione che potrebbe creare un legame, in modo da abbattere così la distanza con Mousse. Ma la ragazza decide di far da sé. Qui il discorso si ispessisce, perché Ozon gioca la sua strategia sul corpo della protagonista: il disagio si estrinseca infatti in una sorta di consapevolezza che Mousse dimostra in quando donna il cui corpo suscita sensazioni in chi le sta vicino, fatto che naturalmente riduce la distanza che lei stessa vorrebbe invece rimarcare attraverso l’isolamento. Il registro espressivo è inoltre doppio perché la dinamica si articola anche nel rapporto fra l’immagine dell’attrice Isabelle Carré (realmente incinta) e lo spettatore: è un’immagine di maternità florida, radiosa che sopravanza le rughe che pure il volto non cela. E’ una bellezza reale e intensa, distante dalla patinatura spesso veicolata dall’industria delle immagini, ma importante a livello espressivo per il desiderio che suscita, tanto negli uomini che nelle donne.
Ecco dunque che, durante il suo isolamento, Mousse pure viene in contatto con una serie di personaggi che la ricercano in quanto donna incinta: una ragazza ammaliata dalla sua immagine radiosa e che le si avvicina con insistenza, un uomo che le chiede un rapporto sessuale poiché eccitato dalla fantasia di possedere una donna gravida… in qualsiasi momento il mondo intorno a Mousse sembra tentare di rompere il velo di isolamento: persino in discoteca un ragazzo con cui la donna tenta un fugace flirt subito le tocca il ventre, suscitando in lei disagio. Il ventre gonfio della vita che sta nascendo è quindi l’autentico tramite di Mousse con il mondo esterno, ma anche l’unità di misura del suo disagio, l’elemento che la caratterizza ma al contempo la rende aliena.
Il rapporto con Paul diventa quindi l’unico possibile, in virtù dell’omosessualità del ragazzo, che allontana qualsiasi possibilità di un coinvolgimento amoroso: l’intesa fra i due è infatti ideale ma non fisica e Paul è l’unico che non vede Mousse come un corpo, tanto che nel momento in cui la sua mano si posa sul suo ventre per spalmare la crema solare, il ragazzo prova disagio. Per la prima volta l’incertezza si manifesta quindi nell’interlocutore e non in Mousse, che anzi si ritrova a dover tranquillizzare Paul. I ruoli si invertono, ma allo stesso tempo questo momento è fondamentale perché finalmente rompe la distanza e rende Mousse non più un personaggio isolato, ma anzi in sinergia con l’esterno.
L’interazione fra Paul e Mousse, connotata come una sorta di corteggiamento asessuato in virtù della forte fisicità che entrambi i personaggi naturalmente manifestano, può dunque rompere il velo del disagio e arrivare a un rapporto fisico che appare più di una espressione di sessualità: è un momento di comunione fra due personaggi che si sono avvicinati. Qui Ozon sembra suggellare la fine della famiglia tradizionale in favore di un modello alternativo che non si basi sulle modalità canoniche, ma esclusivamente sulla capacità dei singoli di costruire un’interazione.
Ma il momento diventa anche un passaggio di consegne, propedeutico al finale in cui Mousse lascerà a Paul suo figlio: il gesto ha il doppio valore di donazione del sé a una persona con cui il legame continua anche a distanza, ma anche come rinnovarsi di quel disagio che rende naturalmente Mousse una persona incapace di normalizzare la sua esistenza e che quindi deve riconsegnarsi all’oblio. D’altronde l’intera gravidanza è vissuta nel segno di una precarietà sintetizzata dalle dosi di metadone che la donna deve assumere per non cadere in crisi d’astinenza (retaggio della sua condizione di tossicodipendente).
Il tema caro al regista viene quindi sviluppato secondo una direttrice più fisica che cerebrale, articolata attraverso una grande sinergia con gli attori, capaci di esprimere più con piccoli gesti che con le parole, tanto da costruire un tono quasi rarefatto e vagamente irreale (che ha attirato al film accuse di freddezza). Il film è stato presentato in anteprima italiana al Torino Film Festival 2009.
Le refuge
Regia: Francois Ozon
Sceneggiatura: Mathieu Hippeau e François Ozon
Origine: Francia, 2009
Durata: 88’
1 commento:
Sinceramente, durante la visione torinese, ho avuto l'impressione di un certo manierismo, in quest'ultimo Ozon, e di un certo schematismo che in molta parte del film limita l'intensità emotiva che forse sarebbe stata maggiormente richiesta in una storia di questo tipo.
Comunque, resta un film di classe, delicato come si conviene, con un finale a suo modo straziante ma "giusto" (cinematograficamente parlando).
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