Piranha
L’investigatrice assicurativa Maggie McKeown raggiunge la località di Lost River, in cerca di due ragazzi che hanno fatto perdere le loro tracce. Aiutata dal burbero Paul Grogan, Maggie giunge in un laboratorio militare abbandonato dove venivano compiuti misteriosi esperimenti e qui, per errore, libera alcuni piranha geneticamente modificati nel fiume. Dopo aver capito il danno commesso, Maggie cerca di impedire che gli abitanti del luogo siano sterminati dai voraci pesci carnivori.
E’ utile recuperare un classico b-movie come Piranha, soprattutto ora che iniziano a circolare con insistenza le immagini del suo secondo remake (il primo fu realizzato dal produttore Roger Corman nella metà degli anni Novanta), diretto da un Alexandre Aja ormai prigioniero della spietata logica dei rifacimenti. E’ utile perché aiuta a capire molte cose, la natura del talento e quali esigenze agitino il mercato e mi piace pensare che il recente The Hole chiuda un cerchio che il grande Joe Dante aveva iniziato qui, divertendosi a sperimentare i limiti e le possibilità della macchina-cinema.
I retroscena sono noti: Piranha nasce come tentativo cormaniano di porsi in coda all’enorme successo dello Squalo spielberghiano. Che già di per sé è un bel cortocircuito, perché è come se Corman volesse “riportare a casa” quello spirito exploitation che le major stavano iniziando a saccheggiare con la forza dei loro megabudget. Di per sé l’operazione è però interessante soprattutto perché si tratta del tipico caso in cui un regista è messo di fronte, con disarmante sincerità, al fatto che non può mentire. Il basso budget e l’intento meramente esploitativo, infatti, costringono ad adottare soluzioni molto precise e, soprattutto, a mantenere le promesse di emozioni “forti” fatte allo spettatore. Ciò è in particolare paradigmatico per il genere dell’animal horror (o eco-vengeance che dir si voglia), dove in realtà più di una volta si è trasgredito alla programmaticità dei titoli, basti pensare a casi come Frogs o Barracuda o Tintorera, dove l’animale eponimo è quasi del tutto assente nelle pellicole e le promesse di orrori apocalittici si stemperano nella noia di una narrazione immobile.
Joe Dante invece riesce a compiere un piccolo miracolo, rispettando a menadito la programmaticità dell’intento, senza però disperdere una cifra personale che invece emerge in modo molto chiaro, a dimostrare come il suo agire anarchico in realtà sia sempre andato di pari passo con una profonda conoscenza delle regole narrative e una altrettanto grande capacità di adattamento ai formati di volta in volta affrontati. Ecco dunque che Piranha riesce a rispettare le regole canoniche del filone in cui si situa, ma allo stesso tempo riflette la capacità dantesca di riecheggiare un immaginario più composito, dove riferimenti cinematografici e popolari si intrecciano e a volte si incarnano in determinati volti attoriali.
L’operazione è pertanto affine a quella di The Hole nella misura in cui si stempera in una mimesi che rende il film superficialmente indistinguibile da un qualsiasi prodotto exploitation, ma in realtà è attenta a veicolare un’idea di cinema personale. I volti iconici di Kevin McCarthy, Dick Miller e Barbara Steele (a onor del vero l’unica che appare sottoutilizzata) rimandano rispettivamente agli Ultracorpi siegeliani, al mentore Roger Corman e all’amato Mario Bava, come sintesi di una capacità di unire creatività e mezzi ridotti, ma anche come affinità ideologica a un’idea di fantastico vecchio stile che, di fatto, rende Piranha intimamente distante dalla parabola spielberghiana e invece più vicino ai classici film di invasione aliena degli anni Cinquanta, con la minaccia che attacca l’isolata cittadina e comporta l’intervento dei militari, spesso in realtà veri responsabili del disastro che ha creato il mostro.
Non si tratta comunque di un mero capriccio nostalgico: Dante e lo sceneggiatore John Sayles (che due anni dopo regalerà al filone un altro gioiellino come Alligator) comprendono infatti come questi omaggi inseriscano il film all’interno di un sistema di riferimenti che è sia cinefilo che socialmente critico: essi infatti creano l’immaginario ideale, ma allo stesso tempo stabiliscono come gli errori del passato continuino a tornare sotto nuove formule, e come dalla Guerra Fredda si sia passati al Vietnam ma con le ossessioni belliciste ancora intatte. Ecco dunque un videogame dedicato a Lo squalo, un cartoon con un pesce carnivoro, immagini e suggestioni che mantengono viva la forza del film anche laddove i piranha risultano fisicamente assenti e che spesso aprono letteralmente il progetto a svirgolature impreviste, come la bizzarra creatura in stop-motion che fa capolino nel laboratorio militare, autentico gesto di volontà autoriale e fantasy in un contesto estremamente realistico.
Pertanto il film riesce a contraddire i propri intenti superciali, senza però diventare mai auto-sabotaggio del genere. Al contrario l’arguto script affonda la storia in un’ironia “scorretta” che non abdica mai all’intento orrorifico, irride ogni forma d’autorità (in risposta all’eroe spielberghiano che era un poliziotto qui il protagonista è un burbero ubriacone), nega il catartico happy ending e non sfocia nella mera parodia: Dante anzi applica a perfezione una delle regole teorizzate da John Landis secondo la quale l’oggetto della satira deve avere successo e funzionare in sé.
Quando poi i pesci entrano davvero in azione la storia non perde colpi, ma diventa anzi puro artificio di regia, grazie a trucchi di montaggio che conferiscono grande ritmo all’azione (gli attacchi sono girati a otto fotogrammi al secondo per rendere la voracità dei piranha) e a sopperire alle mancanze tecniche di creature realizzate pure con professionalità e in grado perciò di apparire ripugnanti e feroci. Un classico che ha pienamente meritato il suo status!
Piranha
(id.)
Regia: Joe Dante
Sceneggiatura: John Sayles (soggetto di John Sayles e Richard Robinson)
Origine: Usa, 1978
Durata: 90’
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