"C'è chi crede in dio o nel denaro. Io credo nel cinema, nel suo potere. L'ho scoperto da ragazzino, mi ha aiutato a fuggire da una realtà in cui ero infelice. È una delle forme d'arte più alte che l'uomo ha concepito. Credo nel suo futuro."
(John Carpenter)

lunedì 29 dicembre 2008

Last Action Hero

Last Action Hero

Il piccolo Danny Madigan vive con la madre in una realtà difficile e pericolosa, dalla quale tenta di fuggire grazie alla sua fervente passione per il cinema e in particolare per i film d’azione in cui il divo Arnold Schwarzenegger interpreta l’eroe Jack Slater. Una sera Nick, la maschera del cinema, gli offre l’opportunità di assistere in anteprima e in proiezione riservata all’ultimo capitolo della saga, Jack Slater IV, e a tale scopo gli regala un biglietto ricevuto molti anni prima dal mago Houdini. Una volta strappato, però, il biglietto rompe le barriere che separano la realtà dalla finzione, immergendo Danny nell’avventura accanto al suo eroe Slater…

Sebbene realizzato nel 1993, Last Action Hero può essere definito l’ultimo film degli anni Ottanta, per il senso dello spettacolo magniloquente e pieno, al servizio di un’idea di cinema destinata a un grande pubblico che non tema di rinnovare dinanzi allo schermo il piacere della scoperta e della meraviglia: lo sguardo estatico del piccolo Danny Madigan quando assiste alle avventure del suo eroe Jack Slater è in questo senso paradigmatico, così come il dualismo fra una realtà difficile e una mitopoiesi capace di assicurare una vittoria sul Male. Un parallelo può in questo senso essere tracciato con opere come I Goonies o E.T. e in generale con la concezione spielberghiana di avventura e fantasy, che in effetti hanno tracciato la via per tutto il cinema spettacolare americano degli anni Ottanta.

Ma Last Action Hero è al contempo anche il primo blockbuster degli anni Novanta, per la tendenza a una decostruzione critica dell’universo che mette in scena: il regista John McTiernan, nonostante proprio negli eighties si fosse costruito una certa fortuna come autore di action-movies con il primo, fortunato, capitolo di Die Hard, per il resto si è sempre considerato un artista postmoderno e questa sua indole si vede molto bene nella pellicola, che rappresenta allo stesso tempo un omaggio, una parodia e un’analisi dei meccanismi tipici del cinema spettacolare hollywoodiano. E’ perciò assolutamente indovinata la scelta di avvalersi di un attore come Arnold Schwarzenegger, volto e corpo iconici del cinema muscolare del decennio passato ma anche personaggio pubblico capace di mettersi in discussione iniettando all’interno delle sue storie una vena ironica fortemente dissacrante: basti pensare a titoli come Commando, che stemperano la marcata vena exploitation cara al regista Mark Lester (quella che in tempi passati fu definita “proverbiale cattivo gusto”), grazie a un frequente ricorso al risvolto ironico, sia esso una gag visiva o una battuta, tanto da coniare un neologismo, “arnoldismi”, che indica proprio tali espedienti che hanno fatto la fortuna dell’attore austriaco.

Ecco dunque che la scomposizione e dissacrazione dell’action movie moderno appare allo stesso tempo come un corretto tributo al percorso d’attore compiuto dallo stesso Schwarzenegger, il quale si espone in prima persona interpretando se stesso e, in una scena sicuramente molto audace per un divo del suo calibro, lo vediamo mettere a confronto l’ingenuo e idealista Jack Slater con il se stesso uomo di spettacolo dalla vena imprenditoriale e materialista. In questo senso l’eroe “finale” indicato dal titolo è proprio Schwarzenegger, che con il film completa la sua personale parabola all’interno del genere dopo il trionfo di Terminator 2. L’insuccesso di pubblico e le incomprensioni critiche lo spingeranno però a ripeterla in chiave più seria nel successivo True Lies, e lo stesso varrà per McTiernan, che dovrà tornare alla saga di Die Hard con il terzo capitolo.

A parte questo, comunque, il regista, agevolato da un’intelligente sceneggiatura dove spicca il nome di Zak Penn (il futuro autore di Incident at Loch Ness), porta a compimento un’operazione che ha il merito di tradire il patto di tacita sospensione dell’incredulità con lo spettatore, rimarcando anzi come la forza dell’action movie moderno (diversamente, ad esempio dal poliziesco degli anni Settanta dal quale pure deriva) stia proprio nella sua costante ricerca dell’implausibilità e nel gusto spiccato per l’assurdo. Infatti non stupisce notare come, sebbene molto divertente, il film sia anche uno splendido trattato sull’azione cinematografica, che McTiernan dirige con mano sicura, spingendo il tutto alle estreme conseguenze attraverso una serie di complicati stunt che coinvolgono il suo malcapitato eroe Slater. L’azione, insomma, sembra aver bisogno di una iperbole in grado di rivelarne l’essenza più intima di grande spettacolo circense, che cattura l’attenzione e innesca il processo mitopoietico, liberando infine la meraviglia (processo che anni prima veniva peraltro compreso e teorizzato anche da un altro grande artista d’azione e uomo di cinema come Jackie Chan).

Tutto questo anche per prevenire lo scetticismo sempre più radicato in un pubblico ormai smaliziato da anni di visioni spettacolari sullo schermo e pertanto reso più cinico dalla consapevolezza della finzione: quello che dunque si innesca è un gioco di ammiccamenti e deviazioni inattese con le aspettative dello spettatore, che si riconosce nel piglio dissacratore di Danny (che si diverte a sottolineare le varie implausibilità dell’universo di Slater), ma nello stesso tempo gode della familiarità di uno spazio completamente cinematografico, dove ogni angolo nasconde un riferimento extranarrativo che omaggia il cinema nella sua varietà ricchezza: un atteggiamento diverso da quello che qualche anno dopo muoverà Wes Craven per la sua saga horror di Scream (progetto pure abbastanza simile nei presupposti), poiché McTiernan alla fin fine non è interessato a scrivere il capitolo finale del cinema d’azione, ma a realizzare un’operazione di sintesi che unisca fra loro istanze opposte come dissacrazione e omaggio.

Pertanto il finale compie il maggiore dei tradimenti, mostrandoci uno Slater che, in azione nel mondo “reale”, riesce a sconfiggere il suo nemico compiendo gesta “impossibili” e degne del suo universo cinematografico: i mondi si sono quindi intrecciati e la magia del cinema ha raggiunto un compromesso con il cinismo del reale, al punto che l’eroe potrà continuare a essere tale pur sapendo che il trucco è ormai svelato. Il meccanismo non viene messo in crisi davvero e se questo può rappresentare un motivo di incompiutezza del ragionamento fino a quel momento abbozzato, ha comunque il pregio di essere motivato da una passione contagiosa che alla fine accontenta lo spettatore che ha accettato il gioco.

Last Action Hero – L’ultimo grande eroe
(The Last Action Hero)

Regia: John McTiernan
Sceneggiatura: Zak Penn, Adam Leff, Shane Black, David Arnott
Origine: Usa, 1993
Durata: 130’

Official Fan Site italiano di Arnold Schwarzenegger
Pagina di Wikipedia su John McTiernan
Panoramica sui principali film d’azione anni Ottanta

giovedì 25 dicembre 2008

Christmas Carol

Christmas Carol

Più degli aspetti religiosi o consumistici, avendo particolarmente a cuore il concetto di “immaginario”, sono sempre stato affascinato soprattutto dalla forza squisitamente “iconografica” del Natale. Ecco pertanto tre immagini da opere in bilico fra omaggio e dissacrazione:

Buone Feste a tutti!

venerdì 19 dicembre 2008

La frusta e il corpo

La frusta e il corpo
Il barone Kurt Menliff, uomo violento e privo di scrupoli, torna al castello di famiglia per partecipare alle nozze di suo fratello con la giovane Nevenka. Qui viene ucciso da una mano misteriosa. Il suo fantasma sembra però continuare a infestare la casa e si accanisce particolarmente su Nevenka. Anni prima, infatti, la ragazza era stata legata a Kurt da un perverso legame: lui la frustava selvaggiamente procurandole dolore e piacere e istillando in lei odio e desiderio. Intanto nel castello avvengono altri omicidi.

La frusta e il corpo, primo horror a colori di Mario Bava che si firma John M. Old, è anche il primo film del quale l’autore non cura personalmente la fotografia (affidata al suo operatore di fiducia Ubaldo Terzano). La storia ispessisce i termini del rapporto fra l’apparenza e la sostanza che è alla base del cinema del regista sanremese ammantando l’intera vicenda di una forte ambiguità e dando vita a un lavoro raffinatissimo e di grande impatto. Il lavoro sul colore (si potrebbe affermare che l’autore dipinge la scena anziché illuminarla) azzarda accostamenti cromatici che intingono lo spazio scenico in una atmosfera assolutamente antinaturalistica, anticipando molte trovate del successivo Sei donne per l’assassino e il ritmo stesso viene rallentato quasi per concedere all’occhio dello spettatore la possibilità di perdersi nelle atmosfere oniriche che il castello dei Menliff, reinventato dai giochi di luce, finisce per dispiegare a ogni angolo.

Puro piacere della visione, insomma, che si accompagna, però, a una delle pellicole più dolenti del cinema di Bava. Il regista non dimostra ancora quella propensione allo sberleffo nei confronti dei suoi personaggi, paladini di una umanità stupida e condannata alla propria infelicità, ma empatizza con i loro drammi, ossequiando una struttura che rimanda al feilleuton. Certo l’importanza meramente scenica del “corpo” (rievocato sin dal titolo) è fondamentale nella costruzione dell’arazzo visivo caro all’autore, ma coesiste con un latente senso di morte cui Bava condanna i suoi personaggi. La frusta e il corpo assume così i caratteri di un magnifico melò, dove i protagonisti riescono a trovare la loro ragione d’essere esclusivamente nel dolore. Le atmosfere rarefatte si uniscono, in un ossimoro sublime, a una fisicità e a una sensualità malata, dove lo schiocco della frusta diviene il contrappunto sonoro di una tangibile voglia di esserci.

Il legame perverso che unisce Kurt a Nevenka (una splendida Daliah Lavi) diviene così il paradigma di ogni possibile sentimento umano, diventa il più forte fra i possibili modi di donarsi all’altro, il momento in cui l’odio e l’amore si annullano in un desiderio che concepisce se stesso unicamente come aggressione (non risulta casuale, a questo punto, la scelta di Christopher Lee come protagonista, all’epoca celebre interprete del Conte Dracula per la Hammer Films e che torna a collaborare con Bava dopo il precedente Ercole al centro della Terra).

Le musiche importanti e struggenti di Carlo Rustichelli incorniciano a meraviglia questa atmosfera dolente e i momenti in cui Nevenka viene frustata da Kurt finiscono dunque per assumere una caratura lirica che induce naturalmente alla commozione e che conquista lo spettatore, suscitandogli in egual misura inquietudine per l’oggettiva brutalità della situazione e fascinazione per la potenza e l’intimità di un rapporto che non si può razionalizzare, ma accettare in modo soltanto viscerale.

L’ossequio alle regole dell’Horror risulta così scardinato e il film si chiude giustamente senza sciogliere l’ambiguità sull’esistenza del fantasma di Kurt. D’altronde come Bava consideri l’elemento whodunit è chiarissimo nel momento in cui Cristiano e Katia si interrogano su quanto sta accadendo e formulano diverse ipotesi, mentre la mdp concentra la sua attenzione su un vaso posto lontano dai due interlocutori. Un gesto che è anche un’espressione di poetica e libertà, di un modo di concepire il cinema puramente emozionale.

Sottovalutato dal fandom, ostacolato dalla censura a causa della componente erotica insita nel soggetto (negli Stati Uniti ci furono anche dei tagli) La frusta e il corpo è stato riscoperto solo in anni più recenti, dove si segnala l’elogio di registi come Martin Scorsese. Ugualmente questo non ha impedito che per troppo tempo l’unica traccia tangibile della sua presenza nel nostro paese restassero isolate registrazioni delle trasmissioni tv sulla Rai. Prossimo a vedere finalmente la sua prima pubblicazione italiana nel formato DVD per Eagle Pictures (l'uscita è prevista per il 28 gennaio 2009), il film potrà finalmente guadagnarsi la meritata riscoperta, riconsegnando agli appassionati di ieri e di oggi un autentico classico.


La frusta e il corpo
Regia: John M. Old (Mario Bava)
Sceneggiatura: Julian Berry (Ernesto Gastaldi), Robert Hugo (Ugo Guerra), Martin Hardy (Luciano Martino)
Origine: Italia, 1963
Durata: 88’

giovedì 18 dicembre 2008

Lady Snowblood

Lady Snowblood

Giappone, fine del XIX secolo, agli albori dell’era Meiji. Yuki ha trascorso i vent’anni della sua esistenza preparandosi al momento in cui avrebbe vendicato l’assassinio di suo padre, un compito ereditato dalla madre, morta in prigione dandola alla luce. La ricerca dei tre assassini ancora in vita vede la donna, educata alla lotta con la spada, affrontare i nemici con risolutezza, e trovare un complice nel giornalista e scrittore Ryurei Ashio, che fa della sua storia un best-seller.

“Ciò che accade prima della tua nascita può ripercuotersi su di te” afferma la giovane Yuki, interpretata con gelida precisione dall’attrice e cantante Meiko Kaji in questo piccolo classico del chanbara eiga. In effetti la missione della donna, più che animata da un reale sentimento di rivalsa nei confronti dei nemici, appare come preordinata in origine, da una madre che ha dato alla luce la propria erede unicamente per portare a termine quel compito che lei non era riuscita ad assolvere. In questo senso Yuki più che persona è strumento di una volontà altrui e frutto di una decisione presa prima ancora della sua nascita e alla quale non può e non vuole derogare. Il bianco del suo vestito evoca quello della pagina scritta e di una vita che nel suo farsi è comunque già incanalata in un’idea che deve soltanto trovare esplicazione e racconto.

Per questo motivo Lady Snowblood adotta una struttura metanarrativa che evoca l’idea della messinscena attraverso i classici ambienti ricreati in interni, una scansione in capitoli e un narratore che si riflette nel personaggio del romanziere Ashio, il quale sviluppa il racconto e lo organizza in una forma narrativa popolare. D’altronde alle spalle del film c’è un manga di Kazuo Koike, anch’esso evocato nei flashback e nei brevi excursus storici sottoforma di disegni che illustrano allo spettatore i trascorsi della vicenda e aiutano a contestualizzare la stessa. La narrazione diventa paritetica all’azione e, sebbene il film non sia particolarmente ricco di dialoghi, l’evocazione in forma orale, scritta o attraverso l’artificio della messinscena di stampo teatrale e cinematografico assume un’importanza molto specifica per allargare il discorso dal fatto personale ed elevarlo a grandezze più universali. Ecco dunque che la morte del terzo nemico Okono Kitahama è commentata da una evidente calata del sipario, mentre le scene di lotta sono arricchite da esplosioni di sangue anche eccessive, che possono essere viste come lirico controcanto all’inchiostro usato da Ashio per scrivere il suo romanzo.

Il fulcro del racconto diventa quindi il percorso che Yuki deve compiere per riappropriarsi progressivamente della propria umanità, rendendosi conto che il suo agire violento finisce naturalmente per innescare una spirale di confronti incrociati tra consanguinei destinata infine a procurarle una simbolica morte e rinascita. Ma allo stesso tempo la stessa missione si connota come una analisi del mondo nel quale Yuki si ritrova ad agire, al crocevia fra un passato fatto di ritualità precise all’ombra delle quali si consumano efferati delitti, e un presente apparentemente rinnovato e “ripulito” dai conflitti, dove il Giappone esce dall’isolamento culturale aprendosi al mondo. La presenza di Yuki favorisce quindi un confronto con i principi ideali del passato e con le ipocrisie di un presente che ha semplicemente permesso ai criminali di ieri di assumere nuovi posti di comando, accanto alle autorità (la polizia, i diplomatici): ciò che accade prima della nascita, in questo senso, si ripercuote davvero sull’oggi, obbligando a chiudere realmente i conti con il passato per dare vita a un futuro forse nuovo. I figli quindi si trovano nella posizione di dover rimediare agli errori dei padri aiutando Yuki nel suo compito, ma allo stesso tempo il tutto non riesce a evitare l’emergere di rancori mai sopiti, come testimonia il personaggio di Kobue Takemura, figlia di uno dei nemici di Yuki, che in seguito all’uccisione del padre, cerca di vendicarlo.

La vicenda staziona quindi nella scomoda posizione intermedia di chi si trova al centro di istanze fra loro difformi, aprendo gli spazi necessari alla collisione di forze contrapposte e quindi all’insorgere della tragedia, vera forza propulsiva del film. A questo proposito la regia di Fujita Toshiya si dimostra opportunamente capace di ondeggiare anch’essa fra la già citata evocazione della messinscena e un approccio più brutale con camera a mano in scenari realistici e un commento jazz che decontestualizza la storia rispetto al suo tempo per calarci nell’immediatezza della contemporaneità.

Il che naturalmente permette anche di vedere l’intera storia come una critica a una società moderna che non ha ancora chiuso i conti con il proprio passato e si caratterizza pertanto per una forte ambiguità di fondo.

Inedito per anni in Italia, Lady Snowblood è stato recentemente editato in DVD da Keyfilms/Medusa insieme al suo sequel sull’onda della riscoperta conseguente gli omaggi presenti in Kill Bill di Quentin Tarantino, che vanno dalla struttura in capitoli agli scenari nevosi dei duelli con le spade, fino all’idea stessa della vendetta. Da ricordare anche il libero e affascinante remake, Princess Blade, diretto da Shinsuke Sato nel 2001 e disponibile in italiano.

Lady Snowblood
(Shurayuki Hime)

Regia: Fujita Toshiya
Soggetto: dal manga di Kazuo Koike
Sceneggiatura: Kazuo Uemura
Origine: Giappone, 1973
Durata: 97’

Scheda di Meiko Kaji su Wikipedia
Approfondimento su Meiko Kaji (in inglese)
Brano musicale Shura no Hana/Flower of Carnage dalla colonna sonora

martedì 16 dicembre 2008

La morte e la fanciulla

La morte e la fanciulla

Sudamerica. Paulina è sopravvissuta alle torture del regime appena caduto e oggi è la compagna dell’avvocato Gerardo Escobar, cui sta per essere affidato il compito di dirigere i lavori di una commissione che faccia luce sui crimini perpetrati dalle precedenti autorità. Una notte però, la donna riconosce nel dottor Roberto Miranda, che ha offerto un passaggio a Gerardo dopo un temporale, il suo carnefice e perciò lo cattura per vendicarsi. E’ l’inizio di un serrato confronto a tre che vede in campo la forza della ragione contro quella dell’istinto, mentre Mirando continua a proclamarsi innocente.

Realizzato nel 1994, La morte e la fanciulla costituisce il tassello finale di un percorso profondamente lucido e amaro che Roman Polanski ha portato avanti a cavallo fra la fine degli anni Ottanta e i primi Novanta, con il quale ha descritto la progressiva disgregazione dei legami affettivi all’interno dei nuclei che compongono la società contemporanea, ormai priva di reali punti di riferimento. Nel 1987, con lo splendido Frantic, fulcro del racconto era un uomo che si vedeva improvvisamente calato all’interno di una realtà impazzita dove nuclei di potere tra loro contrapposti gli negavano il ruolo di marito all’interno di un rapporto di coppia rodato; successivamente il lacerante Luna di fiele (del 1990) scendeva all’interno dei sentimenti che agitano il rapporto fra i sessi dando vita a una straziante parabola dove l’amore deve cedere inesorabilmente il passo a un impeto distruttivo che dimostra la pochezza dei sentimenti stessi.

Con La morte e la fanciulla si compie un ulteriore passo in avanti, attraverso una struttura da kammerspiel, dove tre protagonisti mettono definitivamente in crisi i concetti assoluti di fiducia e verità facendo ondeggiare il racconto in un limbo di ambiguità dove nessuno è quel che sembra e lo spettatore è continuamente portato a chiedersi quali siano i reali termini del problema, partecipando emotivamente al dramma che si va consumando.

Ciò che dunque importa non è soltanto il dilemma morale che costringe a interrogarsi sulla liceità del comportamento di Paulina, ma soprattutto la sorpresa di fronte a un cambiamento continuo delle prospettive, che vede di volta in volta la donna nel ruolo di vittima e di carnefice: comportamenti fra loro opposti e che si rispecchiano a loro volta nell’enigmatica figura del dottor Miranda, accusato di crimini contro la persona, ma stoico nel rivendicare la sua innocenza.

L’andamento adottato da Polanski per il racconto è quindi quello di una progressiva discesa nella degradazione umana, dove il rimosso torna prepotentemente a galla costringendo ogni singolo personaggio a fare i conti con il passato e a sottostare a una serie di umiliazioni psicologiche (quand’anche non fisiche) nella speranza di trovare un punto fermo che aiuti a dirimere la questione.

Polanski sembra quasi suggerire che la questione morale sia un orpello ormai inutile di fronte a un dramma che si è già consumato: quello che in fondo noi vediamo non è altro che il dietro le quinte di una tragedia sviluppatasi in passato e che adesso necessita di essere elaborata e ineluttabilmente messa in scena. Ecco dunque che il racconto rivendica una messinscena di stampo teatrale che il testo si preoccupa di esplicitare attraverso una cornice che vede i personaggi assistere a teatro a un concerto di musica classica dove si suona la composizione di Franz Schubert che dà il titolo al film e che costituisce anche la chiave per comprendere la posta in gioco e i trascorsi del rapporto fra Paulina e Roberto Miranda. Il tutto è poi a sua volta un preludio per la vera rappresentazione, lo spettacolo della ripristinata legalità, ovvero la commissione che Escobar andrà a presiedere per mondare i crimini della terra in cui abita, ottenendo in questo mondo anche un grande prestigio.

Il resoconto che Polanski fa del film è dunque spietato e non teme di portare alla luce le ipocrisie di un sistema sociale che si preoccupa di mantenere la facciata di rispettabilità, censurando comportamenti mostruosi perché congeniti all’animo umano, come ribadisce la confessione finale dello stesso Miranda, ancora più terribile poiché esposta lucidamente, con il piglio di chi deve raccontare l’ineludibile verità di un vuoto dell’anima che ha caratteristiche universali.

La disgregazione familiare diventa quindi il primo tassello per una lacerazione più ampia, che interessa la società nelle sue figure di maggiore prestigio (un avvocato, un medico) all’interno di una nazione volutamente non definita (l’indicazione di uno stato sudamericano è utilizzata a livello esclusivamente archetipico) e porta linfa a un dramma a tinte forti condotto senza cedimenti, mantenendo sempre molto alta la carica emotiva, tanto da costituire un autentico tour de force per lo spettatore. Merito anche di una profonda empatia che il regista dimostra con i suoi attori: in primis un Ben Kingsley che riesce a sfruttare il suo consueto personaggio inerme rovesciandolo abilmente di segno, e soprattutto una magistrale Sigourney Weaver, che si concede con trasporto al ruolo disegnando una Paulina Escobar al contempo furente e tenera, perfettamente in equlibrio sul doppio registro del desiderio di vendetta e della dolente frustrazione di chi sa che i conti con il passato non possono essere risolti facilmente.

La morte e la fanciulla
(Death and the Maiden)
Regia: Roman Polanski
Sceneggiatura: Ariel Dorfman e Rafael Iglesias, dalla pièce teatrale di Ariel Dorfman
Origine: Usa/Uk/Francia, 1994
Durata: 103’

Articolo su La morte e la fanciulla di Franz Schubert
Sito dedicato a Roman Polanski (in francese e inglese)

domenica 7 dicembre 2008

ComicCult Lecce 2008

ComicCult Lecce 2008

E anche il Salento ha la sua Fiera del Fumetto! E’ iniziata ieri, sabato 6 dicembre, e continuerà fino a domani la prima edizione di ComicCult, per permettere agli appassionati dei comics e dell'animazione di trascorrere un ponte dell’Immacolata diverso dal solito!

Organizzata da “Regno delle Arti” e “Onigiri Group” di Taranto, “Club Giappone” di Brindisi e dalla scuola di fumetto “Lupiae Comix” di Lecce, ComicCult intende diventare un punto di riferimento per il Sud Italia, e per la sua prima edizione propone un programma di tutto rispetto, con ospiti quali il disegnatore Luca Troiano, il sociologo Marco Pellitteri e l’animatrice giapponese Yoshiko Watanabe, già collaboratrice del grande Osamu Tezuka in serie cult come Kimba il leone bianco e La principessa Zaffiro, e poi attiva anche in lungometraggi italiani come La gabbianella e il gatto: una bella occasione per confrontarsi con uno sguardo a cavallo tra Oriente e Occidente!

Presenti anche uno spazio espositivo con gli stand, mostre tematiche, un nuovo evento dedicato ai 30 anni di Goldrake e il concerto finale con il gruppo cover-band dei Raggi Fotonici.

La manifestazione, anticipata da alcuni eventi in giro per il Salento, si tiene al castello di Acaya a pochi minuti da Lecce (è stato approntato anche un servizio navetta dalla stazione).

Sulla carta sembra tutto molto interessante, e conoscendo le difficoltà che caratterizzano la realtà pugliese per le iniziative di carattere culturale, non può mancare un grande in bocca al lupo agli organizzatori per la riuscita di questa bella iniziativa!

UPDATE 11/12/08: Anche stavolta Segnalo il report di Comicsblog.it sull’evento, con galleria fotografica.

Sito di ComicCult
Blog di ComicCult
Sito del “Club Giappone” di Brindisi
Sito della scuola di fumetto di Lecce “Lupiae Comix”
Forum di “Onigiri Group” di Taranto
Sito dell’Associazione “Regno delle Arti” di Taranto

Cinecircolo Casalini 2008/2009

Cinecircolo Casalini 2008/2009

E’ partita venerdì 28 novembre la nuova stagione cinematografica del Cinecircolo Casalini di Taranto, che con i suoi 40 anni di attività costituisce un punto di ritrovo storico per gli appassionati del cinema d’essai e l'associazionismo culturale nel capoluogo jonico. Il programma prevede 13 appuntamenti che copriranno l'arco dell'intero inverno fino a primavera, con proiezioni (ovviamente in pellicola) di alcuni film significativi della passata stagione e omaggi a personalità del mondo del cinema.

Di seguito il programma:

28 novembre – Non pensarci, di Gianni Zanasi
5 dicembre – Un bacio romantico, di Wong Kar-wai
12 dicembre – Pranzo di ferragosto, di Gianni Di Gregorio
9 gennaio - Il matrimonio di Lorna, di Luc e Jean-Pierre Dardenne
23 gennaio – OFFICINEMA: Omaggio ad Anna Magnani
30 gennaio – Grace is Gone, di James C. Strouse
6 febbraio – Juno, di Jason Reitman
13 febbraio – Il falsario: Operazione Bernhard, di Stefan Ruzowitzky
20 febbraio – OFFICINEMA: Omaggio a Sean Penn
27 febbraio – La classe, di Laurent Cantet
6 marzo – Parigi, di Cédric Klapisch
13 marzo – OFFICINEMA: Omaggio a Julian Schnabel
20 marzo – L’innocenza del peccato, di Claude Chabrol

E’ possibile consultare il Blog del Cinecircolo Casalini per le schede critiche dei film, visionare i trailer e scaricare le foto in alta definizione.

Gli spettacoli sono alle ore 17.45 e 21.15, mentre gli incontri di Officinema soltanto alle 17.45.

Appuntamento ogni venerdì presso la Sala Chaplin, in via Plateja 142.

venerdì 5 dicembre 2008

Changeling

Changeling

1928. Christine Collins vive con il figlio Walter in una New York caratterizzata da numerose polemiche nei confronti del corpo di polizia, accusato di violenza e corruzione. Così, quando il piccolo Walter scompare misteriosamente e viene poi ritrovato, la felicità della donna sembra coincidere con la ritrovata autorevolezza dei tutori della legge. Ma quello che è tornato a casa non sembra essere Walter, Christine ne è convinta e si scontra per questo con la polizia, che non intende ammettere l’errore e arriva a internare la donna pur di non far scoppiare uno scandalo. Ma la battaglia avrà un lungo esito.

Il cinema di Clint Eastwood da anni si è concretizzato in un lungo dialogo con la morte, diretto, sincero, asciutto. Eppure, a giudicare dalle ultime pellicole, qualcosa è cambiato e quel discorso che apparentemente pareva denunciare una sorta di status quo con una realtà che aveva cannibalizzato il trapasso proponendosi come spazio fantasmatico, inizia a manifestare dei cenni di protesta, e una voglia di tornare nella carne e nella mente dei personaggi. Non è più dunque tempo di raccontare la fine di un’epica attraverso le gesta di antieroi come Bill Munny (il protagonista de Gli spietati), né tantomeno di dissolvere i propri dubbi nell’annullamento conseguente un doloroso gesto di pietà (si veda il finale di Million Dollar Baby).

Con il nuovo, straordinario, Changeling, infatti, subentra una condizione di resistenza fieramente umana a un dolore vissuto come stasi persistente conto la quale combattere in nome dell’amore filiale. Se Million Dollar Baby in fondo era la storia di un rapporto fra un padre putativo e una giovane ragazza che perdeva la propria integrità fisica, Changeling riparte da quell’annullamento e da quella privazione per cercare una nuova forza, che faccia della protagonista Christine Collins un personaggio in grado di rivendicare il proprio diritto di stare al mondo. Contro gli inganni instillati dalla propaganda storico-sociale (si riveda Flags of Our Fathers) e contro la morte stessa che allunga le sue mani sulla vita del piccolo Walter. Il titolo stesso, non a caso, focalizza l’attenzione proprio sul cambiamento, quello che porta una donna sola a combattere per fare valere le proprie ragioni.

Christine Collins può permetterselo perché in fondo già all’origine la sua condizione è quella di una donna fuori dalle convenzioni del proprio tempo: cresce il figlio da sola in un momento storico certamente poco incline alla condizione della madre single (sebbene questo aspetto non sia particolarmente approfondito dal film), è la prima donna a essere nominata caporeparto nel centralino dove lavora, è, insomma, un personaggio emancipato e indipendente rispetto a una cultura maschilista facilmente identificabile nell’ambiente della polizia. Ma Eastwood dribbla agilmente la trappola della sociologia spicciola per andare al fondo dei sentimenti e di una rabbia che fa appello alla dignità. Ecco dunque che Christine combatte per fare valere il proprio punto di vista e riesce, attraverso una lunga e sofferente opera di sopportazione a svariate umiliazioni, a ottenere infine una legittimazione pubblica delle sue ragioni. Viene dunque rovesciato anche l’inevitabile approdo alla violenza e alla giustizia sommaria come base fondante della cultura e della società americana che caratterizzava il formidabile Mystic River.

Esaurite le formalità giuridiche, la battaglia di Christine diviene quindi intima e personale e riguarda i demoni dell’animo, le paure che la stessa protagonista deve tenere a bada per non recedere dai propri propositi e che si incidono sulla sua figura grazie all’ottima prova d’attrice di una ritrovata Angelina Jolie, che si dona al personaggio con un trasporto davvero commovente e coinvolgente incarnando con la sua esile figura una fisicità sofferta ma indomita. I suoi timori peraltro si riflettono in quelli di più personaggi: dalla polizia che teme per il suo calante prestigio ai bambini che subiscono le violenze del maniaco che li ha rapiti e torturati. Qui il film gioca le sue carte più forti attraverso una regia che senza compiacimenti riesce a trasmettere il senso della violenza, della paura e del dolore mettendo in scena uno spazio cupissimo e puramente noir, che sembra guardare direttamente alla forza espressiva di romanzieri come James Ellroy.

Materiale estremamente ricco in un racconto fluviale che riesce a tenere insieme le sue parti non solo per merito della lucidità e della pienezza del racconto tipicamente eastwoodiana, ma anche grazie anche al lavoro di sceneggiatura del grande J. Michael Straczynski, vero deus ex machina del progetto, da lui inseguito per molto tempo a partire da un fatto reale. Una personalità, quella di Straczynski, eclettica e capace di lavorare, attraverso gli anni, su prodotti di vario genere e formato (cartoni animati televisivi, fumetti, film cinematografici), sempre con grande onestà e capacità. L’incontro con la sensibilità eastwoodiana è stato dunque l’unico approdo possibile per ottenere il risultato migliore.

Sito ufficiale italiano
Sito ufficiale americano
Dichiarazioni di Angelina Jolie

mercoledì 3 dicembre 2008

Lasciami entrare

Lasciami entrare

Stoccolma. Oskar, 12 anni, è un ragazzo introverso che vive in una realtà difficile, caratterizzata dal bullismo dei compagni di scuola. Una notte conosce Eli, una coetanea che si è appena trasferita nell’appartamento accanto al suo e con la quale progressivamente nasce un legame di empatia. La bambina però è una vampira e l’uomo con cui vive le procura le vittime, facendo nascere nel quartiere la sindrome del serial killer. Oskar ben presto scopre la verità, senza che però questo mini nel profondo il legame speciale instauratosi con Eli.

Qualche anno fa la Svezia aveva affrontato il genere vampirico con l’interessante Frostbiten, che però risultava in parte svilito dall’evidente intenzione di realizzare un prodotto d’esportazione. Ora, trasponendo l’omonimo romanzo di John Ajvide Lindqvist (distribuito in Italia da Marsilio), il regista Tomas Alfredson offre invece allo spettatore un esemplare ben più affascinante ed equilibrato di pellicola che riesce a sfruttare in modo molto più opportuno i tempi e i luoghi della realtà e della cinematografia scandinava.

Certo, l’idea di una storia di vampiri ambientata in un contesto nevoso non è originale e, anzi, di recente è stata anche ampiamente saccheggiata dalla saga fumettistica di 30 giorni di notte (dalla quale è stato tratto anche il deludente film 30 giorni di buio), ma in questo caso la capacità del regista sta tutta nell’essere stato capace di sfruttare tale location in senso non esotico, ma sostanziale. Quello che infatti vediamo è un universo raggelato, dove il tempo sembra essersi fermato e dove gli unici personaggi in grado di produrre lo scarto che genera un nuovo e possibile legame sono due dissociati: l’introverso Oskar e la vampira Eli. Respinti da una comunità che vede l’uno vittima del bullismo e l’altra come un mostro sanguinario, i due stabiliscono un legame proprio in virtù della loro capacità di armonizzarsi con l’immoto scorrere del non-tempo in un non-luogo. Alfredson da questo versante lavora proprio sulla cristallizzazione di un immaginario, mostrando una realtà apparentemente immobile in un passato prossimo dove la tecnologia non ha attecchito, dove i ragazzi possono divertirsi con un gioco desueto come il Cubo di Rubik e comunicare con l’arcaico codice morse: la prigionia di Eli, rinchiusa in una eterna pre-adolescenza è inoltre perfettamente coerente con la “gabbia” sociale che blocca i personaggi in ruoli ben definiti.

Il racconto pertanto si prende i suoi tempi, indugiando su piccoli gesti e sulla speciale comunicazione fra i due ragazzi, fatta di pause, silenzi, frasi incomplete, dove il toccarsi attraverso una barriera (sia essa un vetro, una parete o una scatola di cartone) diventa un modo molto personale di stabilire un contatto, simbolo di un legame che travalica le convenzioni comuni e stabilisce un codice intimo ed esclusivo.

L’empatia fra i due ragazzi finisce così per scompaginare i codici prestabiliti e vede Oskar tentare una prima ribellione contro i “bulli” della scuola innescando una catena di rivalse che non faranno altro che cementificare ulteriormente il legame con Eli e con la sua realtà fatta di crisi rabbiose, cui pure la ragazza tenta di resistere per non ferire il compagno. Si evidenzia in questo senso una componente esistenziale e intimista che arricchisce la storia, conferendole una vena particolarmente tenera e in grado di catturare lo spettatore e di conferire al tutto una vena di realismo particolarmente accentuata.

Proprio in virtù della forza espressiva già presente nella descrizione del legame affettivo, spiace però che Alfredson non abbia optato per un approccio ancora più radicale e asciutto, che negasse totalmente la componente fantastica, qui esplicitata sotto forma di alcune superflue scene spettacolari (Eli che si arrampica sui muri a mo’ di ragno ad esempio), anche se non si può negare che la gestione delle atmosfere prettamente orrorifiche risulti comunque indovinata e in grado di offrire un sincero brivido in più di un passaggio. Sicuramente inutile appare invece il subplot incentrato su una donna vampirizzata e sulle sue peripezie prima dell’inevitabile fine.

Il film funziona dunque soprattutto quando in scena sono i due protagonisti, ben interpretati dai giovanissimi Kåre Hedebrant e Lina Leandersson, antitetici nell’aspetto (lui biondo e dalla carnagione chiara, lei bruna e dall’aspetto poco curato, con il viso spesso sporcato dal sangue) e in grado per questo di far risaltare in modo ancora più fulgido la particolare natura di un rapporto basato sulla conciliazione degli opposti. Di fronte a questa particolare forza, per fortuna, le perplessità scivolano facilmente in secondo piano, facendo del film un prodotto molto interessante che riesce a dire la sua nell’inflazionato panorama degli horror vampirici.

Presentato in anteprima al Torino Film Festival 2008 (Fuori concorso), il film sarà distribuito nelle sale italiane da gennaio 2009 dall’etichetta indipendente Bolero Film.

Lasciami entrare
(Låt den rätte komma in/Let the Right One In)
Regia: Tomas Alfredson

Sceneggiatura: John Ajvide Lindqvist, dal suo romanzo
Origine: Svezia, 2008
Durata: 114’

Sito ufficiale svedese
Sito ufficiale inglese
Articolo sul romanzo con intervista a John Lindqvist
Trailer italiano HD

lunedì 1 dicembre 2008

Torino Film Festival: The Day After

Torino Film Festival: The Day After

Nel 1996, in occasione della scomparsa di Lucio Fulci, lo sceneggiatore Dardano Sacchetti ricordava una domanda che, a suo dire, il regista de L’aldilà gli sottoponeva alla presentazione di ogni progetto: “dov’è il Lepre?”. Il Lepre era quello che manzonianamente si potrebbe definire “il sugo della storia”, quell’essenza più intima che tiene insieme un progetto, lo plasma e gli dà un senso e una forma. Mi è capitato più volte in questi giorni trascorsi tra le 11 sale cittadine che hanno ospitato l’edizione 26 del Torino Film Festival di ripensare a questa domanda: dov’è il Lepre? Qual è il senso che questo festival profondamente rinnovato vuole esprimere?

I numeri, si sa, sono sempre quelli che dettano legge e quindi di fronte agli ottimi incassi e al coro unanime di consensi che ha accompagnato in questi due anni l’opera del direttore Nanni Moretti risulta facile mettere da parte le singole perplessità e accettare l’idea rilanciata dalla grancassa mediatica che il festival si sia rinnovato nella continuità con il passato, modernizzandosi senza cambiare pelle. Ma in realtà quello che dovrebbe risultate evidente è che il festival, così come è ora, non riflette più una particolare identità, non è cinefilo come la Mostra di Venezia (era Muller) o glamour come la Festa di Roma (era Veltroni) e il suo perseguire un’idea di rigore sa di immobilismo. Un’opera di moralizzazione cinefila che sa di pura e semplice “morettizzazione”, all’inseguimento del cinema serio che inevitabilmente vuol dire serioso, di un programma che non produce scossoni e si preoccupa principalmente di contingentare gli spazi in percorsi ben definiti e impermeabili a se stessi, ironicamente in contrasto con l’atteggiamento informale e il look “spettinato” del Direttore.

Ecco dunque che le retrospettive non favoriscono una dialettica con il presente (anche perché viene a mancare il controcampo fornito un tempo da sezioni come “Americana”), ma sono corpi immobili in una visione da cineteca, museificatrice, oltre a risultare chiaramente in numero eccessivo - perché usare l’interessante tema della “British Renaissance” come “cuscinetto” fra le due personali quando sarebbe stato molto più interessante rinviarla a una futura edizione in una forma più elaborata?

Lo stesso in larga misura accade anche con le sezioni principali, fautrici di un cinema ben fatto e “corretto”, ma senza particolari scossoni, che non a caso vede diminuire drasticamente la presenza del pubblico giovane per lasciare spazio a un’utenza mediamente più matura, non classicamente festivaliera e per questo poco entusiasta, che dona nuovo senso alla classica espressione “strappare l’applauso”, tanto restìa è la sua risposta alla fine delle pellicole (di ieri e di oggi). Come è possibile continuare a selezionare opere come Non-Dit di Fien Troch quando il tema dell’affetto filiale negato dalla privazione di un figlio viene negli stessi giorni completamente riplasmato dall’immenso Clint Eastwood di Changeling che ne fa un’opera intensissima sulla persistenza del dolore e la necessità di un confronto sullo stesso, senza inutili e forzate patine autorialistiche?

Manca insomma quel piccolo scarto che permetta lo speedball nell’imprevisto, mancano gli eventi, ché tale non si può certo definire l’anteprima di un progetto già fallimentare in partenza come il W. di Oliver Stone. Il che non significa banalmente che manchi lo strumento da gossip (del quale se ne fa anzi volentieri a meno), ma che manca una varietà, un elemento di leggerezza che arrivi a confondere le carte e a dare il giusto legame di continuità fra gli spazi tra loro più diversi.

Non è un caso che le uniche sezioni davvero degne di nota risultino essere, per concezione e per risultati, “La Zona” e la piccola rivelazione “L’amore degli inizi”: la prima infatti è l’unico spazio coerente con il suo tema e capace di mostrare un panorama variegato che nella serietà dei propositi e nella necessità di ricerca si preoccupa anche di disequilibrare i margini per offrire spazio a operazioni tra loro differenti e destinate a pubblici, sicuramente ristretti, ma comunque trasversali. Si vedano in questo senso il sorprendente corto animato Chainsaw di Dennis Tupicoff, lo splendido affresco metropolitano Plot Point di Nicolas Provost, il fluviale Historias Extraordinarias di Mariano Llinás e la bellissima personale dedicata a Kohei Oguri.

Gli esordi del cinema italiano, correlati da dibattiti (molto ben fatti e interessanti) che hanno visto insieme lo stesso Direttore e registi quali Marco Tullio Giordana, Claudio Caligari, Salvatore Piscicelli descrivono invece uno spazio coerente con il ruolo critico che Moretti si è voluto (e potuto) ritagliare da sempre all’interno del panorama italiano e anche una intelligente risposta alle “lezioni di cinema” romane, rilette ovviamente alla luce del taglio rigoroso e storicistico prediletto dalla “piazza” torinese. Un momento per parlare del passato prolungando lo sguardo fino al presente, attraverso i confronti del caso e le parole di chi il cinema di ieri lo ha fatto e continua ancora oggi a confrontarsi con la contemporaneità. E anche un’occasione per vedere all’opera piccoli squarci di vita, di pensieri per immagini che si fanno sostanza di emozioni.

Che è poi ciò che manca ormai all’ombra della Mole, dove quello che è diventato nel tempo uno dei principali poli produttivi e culturali del nuovo cinema italiano ha avuto bisogno dell’autore esterno per fare coagulare le varie anime interne al panorama locale: la Storia in fondo insegna, alla fine il Signore giunge da lontano per sedare i contrasti all’interno del Comune, nella convinzione che tutto continuerà a scorrere come prima, anche se poi, sotto la calma apparenza garantita dalla superficie, c’è una sostanza che viene plasmata nel profondo.

Cosa auspicare dunque per questo festival in deficit di anima? Di aprirsi maggiormente al mondo mettendo però in discussione il successo fin qui così clamorosamente conquistato? Ognuno evidentemente faccia le scelte che ritiene più opportune, e alla fine parlino i risultati: l’affluenza generica dei molti e lo scontento motivato dei pochi, ricordando però che il parallelo è da intendersi anche come la differenza che passa tra un festival di successo e uno realmente indispensabile. Che non sempre sono la stessa cosa.

Galleria fotografica del Torino Film Festival 2008