"C'è chi crede in dio o nel denaro. Io credo nel cinema, nel suo potere. L'ho scoperto da ragazzino, mi ha aiutato a fuggire da una realtà in cui ero infelice. È una delle forme d'arte più alte che l'uomo ha concepito. Credo nel suo futuro."
(John Carpenter)

lunedì 23 gennaio 2012

The Cell

The Cell

Catherine Deane è un'assistente sociale e lavora in un laboratorio dove si sperimenta una tecnica innovativa: grazie a una particolare tecnologia è infatti possibile entrare nei sogni dei pazienti autistici, per cercare di entrare in relazione con essi e permettere così il loro ritorno nel mondo. Nel frattempo, l'FBI è alle prese con un serial killer che rapisce giovani donne per poi ucciderle in un secondo momento attraverso un meccanismo a tempo. Grazie alla pervicacia dell'agente Peter Novak, il killer, Carl Rudolph Stagher, viene catturato, ma è in stato di incoscienza a causa della mancata assunzione dei farmaci necessari a tenere sotto controllo la sua rara malattia genetica. L'FBI ha poco tempo a disposizione per capire dove si trovi la ragazza che la trappola di Carl rischia di uccidere: perciò Novak si rivolge a Catherine, affinché entri nella mente del killer.


A volte conviene posporre la valutazione di un film per recuperarlo in un secondo momento. Non soltanto perché una seconda visione permette di relazionarsi a un'opera con più serenità – ancor più se si tratta di un lavoro controverso – ma anche e soprattutto perché è possibile constatare quanto il film stesso abbia nel frattempo seminato. All'epoca dell'uscita nelle sale, molti – compreso il sottoscritto – trovarono The Cell irrisolto e derivativo rispetto ai canoni di certo thriller/horror che aveva tenuto banco negli anni Novanta (con particolare riferimento a Il silenzio degli innocenti di Jonathan Demme).

Invece, a rivederlo oggi, il film di Tarsem Singh appare innanzitutto come un evidente anticipatore di certe dinamiche dell'horror alla Saw, per il rapporto quasi feticistico con il tema del corpo vilipeso e martoriato e per le trappole tecnologiche dell'assassino; non va inoltre sottovalutata l'influenza (o quantomeno l'osmosi) del film rispetto a una certa concezione del poliziesco televisivo codificato da alcune serie (l'attrice Marianne Jean-Baptiste, peraltro, è poi passata a Senza traccia). Già qui, dunque, il lavoro di detection passa necessariamente per una spettacolarizzazione dei metodi utilizzati, che finiscono per diventare strumento avulso e autosufficiente rispetto al caso di turno.

Pertanto, non dobbiamo recriminare nulla a Tarsem, che per sua stessa ammissione è poco interessato al caso poliziesco in quanto tale (sebbene, a una nuova visione, la parte puramente poliziesca si integri abbastanza bene a quella onirica) e preferisce sfruttare invece la componente fantastica insita nell'esperimento e nel viaggio nel mondo dei sogni per dare corpo alle sue visioni.

Sotto questo aspetto il film già offre spunti interessanti: l'universo onirico immaginato dal regista è infatti coerente con la solennità che ritroviamo poi in Immortals e si basa sulla messinscena scenograficamente accurata, con figure poco mobili e movimenti di macchina non elaborati che evocano una certa teatralità degli spazi, a metà fra  il recupero di un certo coté filmico da peplum del muto e l'installazione artistica. Si rimanda in questo senso all'articolo linkato in calce che analizza le influenze artistiche dirette della pellicola. Quello che qui ci interessa piuttosto sottolineare è la capacità di tenere insieme la fissità dei “quadri” di volta in volta creati o ricreati, con una fisicità prepotente che finisce per rendere estremamente materico il film, creando una vertigine sensoriale non comune.

Risulta di grande merito anche il lavoro compiuto sugli attori, scelti secondo una logica che appare quasi del miscasting: a un primo approccio Jennifer Lopez sembra infatti un'attrice decisamente poco indicata per il ruolo dell'assistente sociale fragile e dagli istinti materni. In realtà Tarsem mira a coniugare ancora una volta sensazioni opposte e per fare ciò ha bisogno di attori fisicamente molto presenti, ma capaci di abbandonarsi a personaggi deboli e segnati da ferite. Che sono fisiche, come quelle che si autoinfligge Car/Vincent D'Onofrio, o interiori, come quelle di Novak/Vince Vaugh o della stessa Lopez. Non a caso poi la discesa nella realtà onirica diventa anche un momento di confronto con le proprie pulsioni interiori e di rovesciamenti di ruoli e sensazioni, in cui Catherine può assumere il ruolo di una inquietante virago e Carl diventare invece una vittima delle esperienze pregresse.

La logica che anima il film è dunque duplice: da un lato c'è lo spazio scenico su cui l'autore si muove con grande libertà, mettendo in scena le immagini che compongono il suo immaginario e che risultano pertanto codificate, rigide. Dall'altro c'è un continuo movimento degli elementi che rende il film particolarmente sfuggente e magmatico. In virtù di questa scioltezza, The Cell si dimostra anche un film ludico e divertito, pur nella serietà dei drammi che mette in scena, che si diverte a giocare con i ruoli, sovvertendoli e falsando le aspettative dello spettatore sin dalle primissime inquadrature.

La struttura è dunque a strati, e stupisce che i livelli percettivi (realtà e sogno) restino comunque sempre distinti a livello narrativo: soltanto in un momento (quando Catherine si risveglia sul letto della clinica non rendendosi conto di essere già nel sogno) si sfrutta la possibilità di intrecciarli, ma poi il film preferisce lasciar perdere per continuare a mettere in scena le sue ossessioni attraverso la dinamica dell'opposizione e del ribaltamento.


The Cell – La cellula
(The Cell)
Regia: Tarsem Singh
Sceneggiatura: Mark Protosevich
Origine: Usa, 2000
Durata: 107'

Trailer originale

mercoledì 18 gennaio 2012

Armageddon

Armageddon

Un asteroide di proporzioni colossali è diretto verso la Terra, per un impatto previsto in 18 giorni. Il direttore della NASA decide di mettere velocemente in piedi una disperata missione, inviando sulla roccia un team di estrattori petroliferi, che possano seppellirvi una testata nucleare. L'uomo con le credenziali migliori sulla piazza è Harry Stemper, ma la sua squadra sembra composta da un gruppo di uomini indisciplinati e poco inclini a ricoprire il ruolo di salvatori del pianeta. Harry comunque accetta e insieme al suo team si sottopone all'addestramento necessario. La missione si rivelerà comunque durissima e complicata da mille imprevisti. Nel frattempo Harry deve anche fare i conti con l'amore sbocciato fra sua figlia Grace e il suo aiutante A.J.


Il capolavoro di Michael Bay. Il regista americano è infatti l'uomo giusto alla guida di quello che ancora oggi risalta come il progetto a lui più congeniale, capace cioè di trarre il massimo dalle sue capacità e di minimizzare i difetti trasformandoli in cifra stilistica. Di fronte alle potenzialità colossali insite nell'idea della catastrofe definitiva, il piglio eccessivo caro al regista americano diventa infatti l'unica direttrice possibile per mettere in scena uno spettacolo che vada oltre le coordinate codificate. Basta un confronto con il contestuale Deep Impact o con il classico Meteor (entrambi, sia ribadito, assolutamente mediocri) per rendersi conto della differenza che passa fra il semplice raccontare un evento catastrofico, e l'intento bayano di immergere lo spettatore in un'esperienza filmica estrema, attraverso un autentico bombardamento sensoriale.

Fin dalle primissime battute, il film trova perciò il suo equilibrio nell'eccesso più sfrenato. Eccesso che – si badi – non è soltanto quello garantito dalle spettacolari ed esplosive scene d'azione, ma anche dagli innesti comici demenziali, dal romanticismo sparso a piene mani, dalle difficoltà senza sosta cui va incontro la missione, dal ritmo sempre al massimo dei giri e da una grossolanità pacchiana fatta di elementi su cui l'attenzione è calcata in modo quasi ossessivo, in nome di una narrazione che per essere epica vuole soprattutto risultare semplice e basata su immagini e emozioni immediate: amore, odio, sacrificio, patria e famiglia. Da questo versante la struttura riesce ad assorbire anche le più infantili futilità – come accade nella frecciatina al coevo Godzilla di Roland Emmerich, nella scena in cui un frammento del meteorite colpisce un venditore di pupazzi ispirati al Re dei mostri.

Lo sbilanciamento eccessivo dei singoli elementi finisce per determinare un mirabile auto-equilibrio, in virtù del quale il film si compatta e funziona, dimostrandosi capace di emozionare genuinamente, facendo letteralmente innamorare dei suoi personaggi: per questo si gode del fatto che la sorte dell'umanità sia nelle mani non dei militari (che – risvolto inedito per Bay – rimediano anzi una ben magra figura) ma di un gruppo disarmonico formato da cowboy, geni erotomani e ragazzi dall'entusiasmo facile, che riassumono una certa tendenza anabolizzata tipica dei personaggi larger than life cari tanto al regista, quanto a un tradizione americana basata sull'apologesi dei singoli e sull'iconografia esasperata.

Il casting in questo senso è assolutamente perfetto: il gruppo trova infatti il suo equilibrio nell'assoluta disarmonia delle parti, fra l'enorme massa muscolare di un Michael Clarke Duncan, e lo sguardo spiritato del minuto Steve Buscemi, fino alla rassicurante normalità di Billy Bob Thornton. Su tutti però svetta un fantastico Bruce Willis che sembra farsi garante di una tradizione eroica capace di intercettare anche l'iconografia dell'americano medio. Il suo Harry Stemper non è una figura muscolare e aliena alla Schwarzenegger, ma una persona che interagisce con la materia, sporcandosi di petrolio, ferendosi ma mantenendo sempre un piede nella realtà attraverso il contatto con il prossimo. Siamo, insomma, fra Quella sporca dozzina e il John Wayne di Uomini d'amianto contro l'Inferno.

Il film smette perciò di essere un semplice disaster-movie e diventa un oggetto quasi avanguardista, capace di dilatare la semplicissima idea di base, offrendosi come un'avventura visionaria, in cui la distruzione di palazzi e città diventa un'apocalisse capace di generare l'Inferno, mentre gli scontri fra i singoli determinano dinamiche che mettono in gioco implicazioni gigantesche come la salvezza di un intero pianeta. Anche l'asteroide è lontanissimo dalle rocce compatte e semisferiche tipiche dell'immaginario codificato: è una sorta di enorme bocca dentata che si dirige verso il nostro mondo per sbranarlo e che descrive al suo interno geometrie e paesaggi che sembrano una sorta di viraggio al negativo dei grandi spazi americani. E' in definitiva una sorta di gigantesco organismo che spinge l'umanità al confronto con la propria essenza. Di qui la necessità della storia – semplice ma funzionale – di articolare la missione lungo una serie di opposizioni fra singoli e di dinamiche lavorative e sentimentali.

In definitiva Armageddon è un film riuscito, autentico spartiacque fra la tipica indole fracassona del blockbuster e una autentica estetica del fracasso. Il tempo ha poi dimostrato che Michael Bay non è capace di variare il suo stile adeguandolo a progetti diversi e alcuni dei suoi lavori successivi sono parsi pertanto mediocri o malamente definiti: questo film però dimostra che ci sono progetti in grado di farne risaltare i meriti.


Armageddon – Giudizio finale
(Armageddon)
Regia: Michael Bay
Sceneggiatura: Jonathan Hensleigh e J.J. Abrams, adattata da Tony Gilroy e Shane Salerno (storia di Robert Roy Pool e Jonathan Hensleigh)
Origine: Usa, 1998
Durata: 145'

lunedì 16 gennaio 2012

Batman Begins

Batman Begins

Bruce Wayne torna a Gotham City dopo averla abbandonata in seguito all'assassino dei genitori. Nei sette anni trascorsi all'estero ha imparato i costumi della criminalità e i metodi con cui combatterla. La sua ultima meta è stata il maniero di Ra's al Ghul, che lo aveva iniziato alle tecniche dei ninja per fare di lui il distruttore di Gotham. Bruce però non vuole vendetta, ma giustizia e per questo ora può diventare un eroe la cui maschera ricorderà a tutti quell'animale che fin dall'infanzia lo aveva terrorizzato: un pipistrello. Le vie di Gotham diventano così il teatro delle gesta di Batman, che però si troverà ben presto di fronte a una grande impresa. Il folle dottor Jonathan Crane intende infatti diffondere il panico con una tossina di sua invenzione, preparando in questo modo l'avvento del suo padrone. Ben presto Bruce dovrà concludere una partita lasciata da molto tempo in sospeso.


Ora che il sequel lo ha un po' messo in ombra e che l'attenzione di tutti si concentra sull'imminente terzo capitolo, conviene riscoprire un film come Batman Begins, all'epoca accolto da un favore non privo di una certa circospezione. Colpa forse della percezione spesso distorta che accompagna i cinefumetti, degli ingombranti precedenti di Tim Burton, ma anche della classica struttura da racconto delle origini, che per certi versi costringe la storia in una direzione obbligata. Certo, si apprezzava allora la capacità di far evolvere un concept che si era finalmente lasciato alle spalle tanto le derive camp degli anni Sessanta quanto gli sterili tentativi di revival delle stesse portati avanti da Joel Schumacher. Ma, al netto di tutto ciò, Batman Begins resta qualcosa in più di una buona trasposizione: è la visione di un autore capace di mantenere vivo il legame con la fonte andando però anche oltre, cercandosi gli spazi d'azione necessari a dare vita a un film capace di parlare una lingua propria.

Ciò che infatti colpisce oggi è la capacità di tenere insieme i riferimenti più disparati all'interno di una struttura capace di essere porosa quel tanto che basta da creare risonanza con elementi di un immaginario più grande, esattamente come sarebbe avvenuto anni dopo con il celebrato Inception. Ogni figura è infatti utilizzata in funzione non solo del ruolo che ricopre, ma anche delle possibilità che la sua profondità mitica mette in scena. Così il mentore interpretato da Liam Neeson rimanda al Qui Gon Jinn di Star Wars Episodio I rovesciato di segno, mentre le visioni evocate dai fumi di Cillian Murphy fanno tornare alla mente i contaminati di 28 giorni dopo, film che non casualmente lo aveva rivelato al grande pubblico.

Siamo dunque già oltre il personalismo burtoniano che aveva fatto completamente sua l'icona, di fatto annettendola all'immaginario dark dell'autore. Nolan al contrario opera all'interno di un recinto ben delimitato e frutto di immagini sedimentate nell'inconscio collettivo, ma in tutto questo riesce ancora a trovare degli spazi tutti suoi, in cui spiazza tutti, giocando con alcune delle iconografie. I veterani come Rutger Hauer, Michael Caine e Morgan Freeman restano dunque sullo sfondo, confinati in ruoli di contorno – seppur molto significativi – mentre la ribalta è concessa a giovani promesse come Katie Holmes, completamente reinventata rispetto alla ragazzina di Dawson's Creek o Schegge di April. Tutti segnali di una materia che è capace di risultare estremamente dinamica, pur nella definizione specifica delle sue parti.

Non bisogna comunque stupirsi di questo, perché il concept stesso del giustiziere mascherato ammanta l'intera storia di una doppiezza che rende ogni identità mutevole e cangiante. Non a caso il training di Bruce Wayne affonda nella mitologia dei ninja, perché si tratta di dare vita a un processo di metamorfosi che porterà il personaggio a scindere la sua apparenza dalla sostanza, creando peraltro sia la sua mitologia che il suo dramma umano di uomo costretto a recitare di giorno la parte del buffone e di notte quella dell'eroe, pure inviso alle forze dell'ordine che lo ritengono un vigilante senza legittimazione.

I piani narrativi dunque si confondono, e la struttura si dimostra a cerchi concentrici, che convergono tutti verso un unico centro, fino a chiudere la partita del protagonista, saldando il finale al lungo prologo: qui il lavoro più interessante diventa anche quello compiuto nei confronti dello spazio, che è poi l'altro elemento (insieme alla maschera) che ribadisce la natura proteiforme di Batman. Ecco dunque il trionfo di passaggi segreti, caverne nascoste, pozzi in cui si cade, ma soprattutto una città che è un incredibile agglomerato urbano che unisce i vasti spazi di una New York alle architetture ammassate e i vicoli stretti della vecchia Shanghai. E poi una struttura a scatole cinesi, con l'isola nel cuore della metropoli che diventa teatro di una storia a sé, un preludio a ciò che solo in seconda battuta coinvolgerà il fuori.

Nolan comprende perfettamente il rapporto fra eroi mascherati e architetture cittadine, ma non lo rende pedissequo: per questo la sua Gotham è uno spazio concreto ma cangiante, la cui solidità è garantita da una incredibile e certosina ricostruzione in studio, ma che non riflette nessuna città reale, quanto un ideale set da ricombinare sfruttando esterni di Chicago e dell'Inghilterra. D'altronde anche il lavoro di casting va in questo senso: nessuno ha notato che l'americano Bruce Wayne, il suo mentore asiatico Ra's Al Ghul e il pure americano commissario Gordon sono interpretati tutti da attori britannici? Un altro motivo di merito per un'operazione intelligente che merita di essere riconsiderata appieno e possiede una sua specificità anche rispetto al bellissimo sequel.


Batman Begins
(id.)
Regia: Christopher Nolan
Sceneggiatura: David S. Goyer e Christopher Nolan (personaggio creato da Bob Kane)
Origine: Usa, 2005
Durata: 134'


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domenica 1 gennaio 2012

Buon Anno!

Buon Anno!

Auguri per il nuovo anno a tutti gli amici, colleghi e lettori del Nido di Rodan e non lasciate che l'immagine apocalittica vi affligga o desti perplessità: a parte la necessaria ironia sull'ammorbante tormentone delle profezie Maya, la foto rievoca il magnetico incipit di quel Melancholia che è già uno dei film più potenti della stagione cinematografica in corso. D'altronde, lo sapete, qui l'immaginario ha sempre un ruolo centrale!

Ci aspetta un'annata di cinefumetti (Il cavaliere oscuro: Il ritorno, I Vendicatori, il nuovo Spider-Man che finora desta più ansie che speranze), film di grandi registi (i nuovi Eastwood, Scorsese, Spielberg) e inattesi ritorni (Lo Hobbit, Prometheus, ma anche La minaccia fantasma e Titanic in 3D), ma come sempre la speranza maggiore riguarda le scoperte; oltre naturalmente ai consueti recuperi della stagione in corso o degli anni passati.

Un altro anno da vivere insieme, insomma: buon 2012 a tutti!