"C'è chi crede in dio o nel denaro. Io credo nel cinema, nel suo potere. L'ho scoperto da ragazzino, mi ha aiutato a fuggire da una realtà in cui ero infelice. È una delle forme d'arte più alte che l'uomo ha concepito. Credo nel suo futuro."
(John Carpenter)

lunedì 25 gennaio 2010

Avatar

Avatar

Il marine paraplegico Jake Sully accetta di subentrare in una missione che vedeva coinvolto il fratello gemello Tom, scienziato morto prematuramente: la destinazione è il pianeta Pandora, che fa gola ai terrestri a causa del sottosuolo ricco di preziosi minerali. Perché sia possibile sfruttare i giacimenti, però, è necessario far spostare la popolazione indigena dei Na’vi, che considerano quella terra sacra e che vivono in piena armonia con la natura. L’atmosfera irrespirabile per i terrestri rende quindi necessario l’uso degli Avatar, dei corpi Na’vi sintetici utilizzabili attraverso un collegamento mentale: Jake diventa quindi l’ambasciatore di una difficile mediazione, si infiltra fra gli indigeni per impararne la cultura (cara agli scienziati) e riferisce anche all’inflessibile Colonnello Quaritch, che vuole conoscere le difese dei nemici per schiacciarli militarmente. Ciò che nessuno può prevedere è il sentimento che ben presto Jake inizierà a maturare per i Na’vi e per Neytiri, la figlia del capovillaggio.

Ogni passaggio di una storia personale è spesso marcato da momenti che descrivono naturalmente una progressione ma anche una circolarità: nel mostrare la caduta dell’Albero-casa dei Na’vi, James Cameron segna il momento in questione, rielaborando una figura simbolica del proprio immaginario (la rovinosa disfatta del Titanic), ma allo stesso tempo tornando alla figura primaria da cui il suo cinema può dirsi generato: la distruzione della Morte Nera nel primo Guerre stellari (per ammissione del regista canadese un film che gli ha cambiato la vita). Un cerchio dunque si chiude mentre il mondo celebra l’apertura di una possibile nuova fase nell’intrattenimento spettacolare attraverso la legittimazione su larga scala del 3D. L’impressione che dunque se ne ricava è che Cameron abbia naturalmente realizzato un’opera lucasiana per la sua capacità di illustrare un universo, ma che nello stesso tempo abbia forse attuato quell’ultimo passo che la stessa rivoluzione portata avanti dal padre di Star Wars ancora non era riuscita a compiere: nel rifarsi a Lucas, dunque, Cameron lo fa suo e, forte di questo legame, lo completa.

In questo modo Avatar diventa, più che un film, un paradigma di storie già raccontate che però assurgono a una vitalità nuova e che in ogni passaggio, pur riflettendo un bagaglio di immagini e temi già codificati, si presentano sotto una forma che mira non tanto a innovare l’immaginario, quanto a guidare lo spettatore nel mondo posto in essere. Ecco dunque che le accuse di scarsa originalità appaiono decisamente fuori misura e possono essere simpaticamente sintetizzate dal video che compare nello spazio “Visioni dalla Rete” di questa settimana (un divertito e irriverente cross-over fra il film di Cameron e il Pocahontas disneyano):

D’altronde, come il Lucas di ieri, il problema non è tanto fondare quanto rifondare: dare respiro a un’idea di cinema come esperienza sensoriale che permetta di abbattere la dicotomia spettatore-schermo per arrivare a un legame empatico, che si riflette in quello che connette i protagonisti ai loro Avatar: Jake, quindi, non combatte più per le sue gambe (“le vere gambe”, come sente il bisogno di rimarcare il Colonnello Quaritch) quando può lanciarsi in una corsa liberatoria percependo il mondo attraverso i sensi del suo “doppio” Na’vi. Lo scarto che Cameron produce è prima di tutto in questa sequenza, in cui i parametri medici consigliano prudenza, ma che Jake letteralmente sovverte staccandosi i cavi dal corpo, liberandosi e correndo via: lo fa in modo molto naturale, per nulla spaventato dagli eventi che hanno rimodellato la sua percezione dello spazio e del corpo, anzi libero, addirittura euforico, finalmente completo grazie a un upgrade tecnologico che diventa spontaneo prolungamento del sé. Non a caso sono gli altri a essere spaventati da questa sua condotta, a tentare di fermarlo, così come in seguito cercheranno di guidarlo lungo due missioni contrapposte: la prima consiste nel tentare di conquistare la fiducia degli indigeni, la seconda nello spiarli per favorire la loro caduta.

Qui Cameron segna un altro traguardo importante, riverberando e ampliando un altro dei temi fondamentali della propria poetica, ovvero il rapporto duale con la tecnologia: da un lato essa libera, permette a Jake di sentirsi se stesso soprattutto nel mondo dei Na’vi, ma dall’altro produce quell’apparato aggressivo e spietatamente folle incarnato dai militari e anche dagli scienziati: siamo non a caso di fronte a una reiterazione dei temi di Terminator e Aliens, dove l’apparato esoscheletrico dei cyborg e dei montacarichi-armatura creavano un sovrappiù che rischiava di schiacciare l’essenza dell’essere umano, di ricondurlo unicamente a strumento di una missione basata su un tornaconto: pertanto, oggi come ieri, il film si fa letteralmente carico di favorire quei momenti dedicati ai legami empatici, all’amore e al sentimento materno, cui, nel caso di Avatar, si aggiunge la connessione con gli antenati incarnati nel pianeta stesso (Pandora non a caso è un autentico personaggio del film). Si tratta quindi di sovvertire per aprire nuovi varchi, favorendo la capacità di emozionarsi per la bellezza dei luoghi alieni e per la forza d’animo dei Na’vi che si contrappongono alla schiacciante volontà dei terrestri.

Nella parte finale il film gioca dunque la sua carta più forte, esplicitando la propria volontà rifondatrice attraverso la messinscena di una nuova assurda guerra come parafrasi e rielaborazione del genocidio dei nativi d’America: ma stavolta (in maniera più sottile di quanto non accada nel Tarantino di Bastardi senza gloria, ugualmente “revisionista”) l’esito è differente perché l’idea è quella di un cinema che possa superare i limiti della Storia e riscriverla. Qui avviene la sovversione finale, laddove Jake supera il legame empatico con la propria missione e il proprio corpo artificiale per diventare tutt’uno con la leggenda e con la sua identità Na’vi, mentre il Colonnello Quaritch (lo strepitoso Stephen Lang) si libera anch’egli progressivamente del suo armamentario per ricondurre lo scontro a una battaglia personale, un uno-contro-uno, la dicotomia definitiva oltre la quale non può esserci che il superamento degli estremi e quindi la fusione finale con Eiwa. Cameron in questo modo apre l’ultimo varco riconducendo il tutto nell’alveo dell’esperienza visiva, verso quell’”Io ti vedo” che diventa insieme la direttrice programmatica e il principale senso del suo cinema.

Avatar
(id.)
Regia e sceneggiatura: James Cameron
Origine: Usa, 2009
Durata: 162’

Sito ufficiale americano
Sito ufficiale italiano
Intervista a James Cameron
Intervista a Sigourney Weaver
Backstage del film (video)
Il linguaggio dei Na’vi (da Wikipedia)
Il diario di Rolling Stone dal set del film
Un ritratto di Stephen Lang
L’inarrestabile corsa del film (dalle news di Badtaste.it)

Collegato:
AVATAR Day

domenica 17 gennaio 2010

La prima cosa bella

La prima cosa bella

Bruno, quarantenne in crisi, riceve dalla sorella Valeria la notizia che la vita della madre Anna è ormai compromessa da un male incurabile: Bruno, che ha sempre sofferto il rapporto con la donna, è restio ad andarla a trovare e inevitabilmente la visita gli riporta alla mente la sua infanzia. Una stagione di vita minata da un rapporto estremamente conflittuale con una madre protettiva, ma al contempo instabile nei rapporti umani, complice il suo candore e la sua bellezza che la rendevano spesso oggetto di attenzioni e maldicenze. Ora Anna è una donna ancora capace di esprimere allegria e passione per la vita, ma Bruno deve imparare a ricostruire un rapporto che ha rotto da molto tempo, da quando è fuggito da Livorno per rifarsi una vita a Milano.

C’è un momento nello splendido C’eravamo tanto amati di Ettore Scola, in cui il regista ricostruisce il set de La dolce vita di Fellini (con tanto di presenza del Maestro), comunicando allo stesso tempo un’idea di enorme caos e grande vitalità: anche ne La prima cosa bella c’è un set, quello de La moglie del prete, diretto nel 1971 dal compianto Dino Risi e la sensazione è ancora la stessa, un enorme caos e una grande vitalità. A mancare è lui, il grande regista, sostituito abilmente dal figlio Marco, che mantiene inevitabilmente vivo il mito, ma allo stesso tempo segna uno scarto, una mancanza, una differenza nostalgica fra un passato che ai tempi di Scola era ancora perfettamente afferrabile e oggi invece deve inevitabilmente passare per la ricostruzione. Il film di Virzì è inevitabilmente questo, il tentativo di compiere un ultimo (ma non disperato) tentativo di afferrare il passato per traghettarlo in un presente dove i personaggi giocheranno la loro ultima partita e riusciranno, forse, a trovare la quadratura di una vita vissuta in equilibrio fra differenti opposti.

Questo avviene in due modi: innanzitutto in rapporto a una lunga tradizione di cinema italiano, attraverso una struttura da racconto generazionale, magari non priva di un certo sapore autobiografico (la Livorno del film è quella in cui lo stesso Virzì è cresciuto), che al contempo però cerca soluzioni personali. Il doppio registro fra commedia e dramma, e l’equilibrio fra una progressione codificata e un ritmo molto veloce appaiono come una ricerca continua di quello scarto, quel volto, quel gesto che permettano allo schema di cortocircuitarsi per aprire uno slancio inatteso, capace di colorare il film di una spinta vitale. Da Scola si transita quasi verso il Battiato di PerdutoAmor, non per affinità stilistiche (i film non potrebbero essere più diversi), ma soprattutto in virtù di quell’ideale tentativo di fondere un immaginario classico con una formula più moderna, per preservare il ricordo dalla trappola dell’autobiografia spicciola, che possa corrompere la purezza del narrato: un tentativo riuscito e che per questo innalza La prima cosa bella nell’empireo dei migliori film italiani recenti.

Il film è infatti opera di un Virzì maturo e che guida con decisione la storia, affastellando immagini, epoche, mantenendo sempre un ritmo molto alto, quasi rischiando di “bruciare” molte situazioni, ma che invece riesce sempre a mantenere una porosità che permette alle scene e al cast di trovare e creare una propria dimensione. In questo modo, nonostante un lavoro di scrittura molto curato, il film respira di una sua vitalità soprattutto grazie a piccoli dettagli visivi, a un ingresso con due orologi il cui orario non corrisponde, a un momento di festa (quale può essere l’elezione della “Mamma più bella” su cui il racconto si apre) che sfocia naturalmente nello scontro verbale, mentre la risata si soffoca in una lacrima (e viceversa, come accade quando Anna tenta di farsi forza e nascondere ai figli il proprio dolore).

Di qui naturalmente il secondo modo con cui Virzì riesce a riflettere l’idea dell’equilibrio degli opposti, ovvero attraverso il versante squisitamente narrativo, che mette in scena passato e presente, in una vicenda di confronti continui fra i protagonisti e le loro scelte, ma senza indulgere mai al facile sensazionalismo melodrammatico, riflettendo piuttosto il complicato amalgama di sentimenti tipico della vita, al di fuori delle facili tipizzazioni che spesso aprono la porta al grottesco e cozzano con la verosimiglianza. E qui, in effetti, si torna ancora una volta a Scola.

In mezzo ci sono poi loro, gli attori, tutti straordinariamente in parte, che recitano il proprio personaggio di sempre ma riescono a essere al contempo dentro la storia aprendo un ulteriore scarto nel tessuto della storia: l’unica a fare eccezione è Micaela Ramazzotti, in cui si avverte l’esigenza di elaborare una figura coincidente con la se stessa del futuro. Qui si vede l’umiltà della brava attrice che capisce di doversi adeguare allo stile di una Stefania Sandrelli semplicemente gigantesca, che riesce a unire nella sua figura i segni di una vita intensa ma che è ancora capace di regalare levità a una donna attratta dalle emozioni, capace di piangere per un film o di emozionarsi per lo zucchero filato. La Sandrelli, in questo senso, è il vero corpo di sintesi della storia, quello che riassume in sé la formula che Virzì è riuscita a tenere in piedi mirabilmente, unendo dramma e ironia, regalandoci uno dei più bei ritratti umani da molto tempo a questa parte, attraverso questa splendida figura di madre che rifiuta ogni facile pietismo, anche nei momenti più dolorosi, che lascia letteralmente che la storia le scorra attraverso, esattamente come accade al suo personaggio, che a tratti sembra subire gli eventi, a tratti cercarli o provocarli.

E’ un peccato che un tale capolavoro sia stato distribuito a ridosso delle inutili commedie natalizie e di un Verdone ormai esausto, lanciato peraltro allo sbaraglio contro la corazzata Avatar. Il consiglio naturalmente è di non perderlo, perché questo, si può già intuirlo, è il film italiano dell’anno.

La prima cosa bella
Regia: Paolo Virzì
Sceneggiatura: Francesco Bruni, Francesco Piccolo, Paolo Virzì
Origine: Italia, 2010
Durata: 116’

Conferenza stampa con il regista e il cast
Sito italiano
Trailer de La prima cosa bella
Backstage de La prima cosa bella
Il brano eponimo di Nicola Di Bari

venerdì 15 gennaio 2010

AVATAR Day

AVATAR Day

Un Evento è qualcosa che precede, a volte prescinde e sicuramente sopravanza una proiezione cinematografica, e per questo motivo genera di per sé delle immagini, dei ricordi, dei momenti che si stagliano irrimediabilmente nella mente. Per il sottoscritto l’Evento è la visione di una strada talmente piena di persone da lasciare libero unicamente il passaggio (a fatica) delle auto: è un’immagine legata a Titanic, che nel 1997 scatenò un’autentica isteria collettiva fatta di ripetute visioni (la strada, naturalmente, era quella davanti al cinema che programmava il film).

Le stagioni del Cinema vengono spesso enumerate a partire dai vari passaggi tecnici che segnano la sua Storia: il muto che cede il passo al sonoro, il bianconero al colore e via citando. Ma probabilmente bisognerebbe aggiungere a queste tappe anche quella dell’unicità della sala; la particolare caratura dell’evento Titanic, infatti, era tale per un motivo molto semplice: la gente non si limita a vedere e vivere il film, ma correva a rivederlo, riverberando quell’immagine di folla quotidianamente.

Oggi che il film è compresso in un flusso di dati digitali scaricabili comodamente dalla Rete può far sorridere l’idea di dover uscire di casa per tornare a vedere un film che già si conosce, e questo rende davvero Titanic l’ultimo evento possibile… fino a oggi. L’hype planetario generato da un film-scommessa che ha davvero “riportato la gente in sala” promettendo un’esperienza irriproducibile (per il momento) sullo schermo casalingo è ciò che rende l’uscita di Avatar un Evento importante e che rinnova anche l’unicità di James Cameron come straordinario aggregatore di folle, in grado di sopravanzare la sterile definizione di Blockbuster tanto cara all’industria hollywoodiana. Un autore dunque prezioso, che finalmente ritroviamo da quel lontano 1997.

In un certo senso è come se un cerchio si chiudesse: l’evento di massa diventa il ritorno della gente in sala e, forse, anche quello di un passaggio tecnico (il "famigerato" 3D, le cui conseguenze potranno essere valutate soltanto a posteriori), rendendo Avatar, a prescindere dalla sua qualità artistica, un’opera di sintesi.

Mentre scrivo queste righe le proiezioni del film sono già iniziate e ovviamente ora tocca all’Italia dire la sua sul successo dell’anno (o degli anni, se consideriamo il passaggio temporale dal 2009 dell’uscita americana al 2010 di quella nostrana), attraverso la risposta del pubblico e dei critici (già il materiale in rete non manca).

In attesa di accodarci alla folla, ecco dunque un breve video che ripercorre velocemente la straordinaria carriera di James Cameron e un link tributo disponibile su YouTube.

The Prolific Career of James Cameron

James Cameron montage

domenica 10 gennaio 2010

[REC]2

[REC]2

Una squadra di SWAT penetra nel palazzo isolato dopo l’esplosione del contagio, per accompagnare un funzionario del ministero della salute. L’uomo però non è quel che sembra: è un prete consapevole degli esperimenti che si compivano fra quelle mura e che ora vuole ritrovare il sangue della piccola Medeiros, che custodisce il segreto del Male. La provetta viene ritrovata e accidentalmente distrutta, e quindi occorre recuperare il sangue dalla fonte originale. Tutto questo mentre gli infetti continuano a fare capolino e la situazione è complicata anche dall’intrusione di alcuni estranei, giunti attraverso le fogne.

Realizzare un sequel dell’horror più terrorizzante del decennio era impresa da far realmente tremare i polsi, ma Balaguerò e Plaza hanno dimostrato una consapevolezza encomiabile, elaborando ottimamente molti spunti già presenti in nuce nell’idea di partenza, in modo da far risultare il nuovo film complesso e originale pur nella sua filiazione dal modello. Qui chiaramente si situa l’elemento destinato a spaccare in profondità il fandom, ovvero l’approccio più ragionato, esplicitamente anche più teorico, che sebbene tenti di non sacrificare la brutalità della componente più squisitamente orrorifica, fa perdere al film quella compattezza e quella struttura concentrazionaria che rendeva invece il predecessore un autentico tour-de-force emotivo per lo spettatore.

Qui, al contrario, la proliferazione dei punti di vista e il continuo spezzettamento della linearità narrativa, con pause e bruschi spostamenti lungo l’asse temporale (per riprendere gli stessi passaggi da una differente prospettiva), a volte producono anche degli evidenti cali di ritmo, ma Balaguerò e Plaza dimostrano grande capacità di usare le possibili debolezze strutturali a proprio vantaggio, creando un’opera straordinariamente porosa e in grado di muoversi su registri differenti, senza sfaldarsi. Il risultato è un sequel che possiamo racchiudere in tre momenti principali, raccontati da differenti protagonisti e da vari punti di vista: le telecamere degli SWAT, la videocamera portatile dei ragazzi intrufolatisi nella costruzione passando per le fogne (il momento emotivamente più debole del film) e infine mediante la telecamera del cameraman (ormai defunto) che aveva già filmato gli eventi del primo capitolo, a chiudere il cerchio, ma solo per inaugurarne un altro.

Il film in questo modo si apre letteralmente a influenze più ampie rispetto all’originale: l’idea romeriana del contagio viene infatti ripresa e innestata su un sostrato religioso stavolta più evidente, che guarda a L’esorcista, ma che riesce soprattutto a essere al contempo citazione ed elemento qualificante delle poetiche intrecciate dei due autori. I chiaroscuri di una religiosità invasiva, concepita come fattore oscuro (e caro a Plaza), che si manifesta in particolare come elemento corruttore dell’infanzia (pane per i denti di Balaguerò), si iscrivono nel cuore di una società in bilico fra passato e presente, e diventano perciò il fulcro di una narrazione basata proprio sulla coesistenza di tempi e spazi tra loro disarmonici: il modernissimo equipaggiamento degli SWAT si rivela pertanto surclassato dai recuperati monili religiosi (abito talare, crocefissi, benedizioni), usati come autentiche armi contro un nemico che è uno eppure molteplice, mentre lo spazio si moltiplica rivelando nuovi percorsi e un’unica casa-ventre diventa un labirinto da percorrere con il fiato sospeso.

Il tutto viene ancora una volta contestualizzato nell’estetica verité, che fa compiere al cinema “Real” un ulteriore step lungo il percorso teorico di esplorazione della possibile rappresentazione della realtà. Un passo in avanti che però va anch’esso “indietro”, grazie a un’estetica da videogame sparatutto (che surclassa in un sol colpo i Resident Evil del caso) capace di diventare un lungo viaggio verso la radice stessa della rappresentazione cinematografica: la riscoperta del buio come elemento mitopoietico primario della visione. Di qui lo strepitoso showdown finale, dove la macchina da presa letteralmente “crea” gli spazi dell’azione svelando le trappole di una realtà che alla luce si palesa come falsa e soltanto nel buio trova la sua vera essenza.

Perché [REC]2 è un autentico film di inganni, che gioca con un armamentario tecnologico destinato a tratti a cedere il passo a una rappresentazione più squisitamente classica, ricorrendo a espedienti puramente cinematografici (il breve flashback finale che spiega “cosa è successo realmente”), rivelando come la rappresentazione oggettiva di una realtà che si compie sotto lo sguardo dello spettatore sia in realtà un caleidoscopio di verità nascoste che si svelano progressivamente, cortocircuitando le certezze. I ruoli definitivi vengono dunque a capovolgersi, il prete-eroe si rivela non meno ossessivo e spietato del Maligno, e i contaminati si scoprono simulacri vuoti di un’unica entità demiurgica, la cui essenza si trasferisce perennemente altrove. L’unicità dell’originale si trasforma così in un ricettacolo continuo di mondi e sensazioni diverse, sullo sfondo dell’eterna e rinnovata lotta fra il Bene e il Male.

Un film, in definitiva, che nel suo evolvere il modello torna alla sua essenza, rivelandosi capace di unire passato e presente del genere e risultando, perciò, ancora una volta imperdibile.

[REC]2
(id.)
Regia: Jaume Balaguerò e Paco Plaza
Sceneggiatura: Jaume Balaguerò, Manu Diez, Paco Plaza
Origine: Spagna, 2009
Durata: 85’

Sito ufficiale italiano
Sito ufficiale spagnolo
Intervista ai registi
Intervista a Jaume Balaguerò
Splendido teaser trailer del film

Collegato: [REC]