"C'è chi crede in dio o nel denaro. Io credo nel cinema, nel suo potere. L'ho scoperto da ragazzino, mi ha aiutato a fuggire da una realtà in cui ero infelice. È una delle forme d'arte più alte che l'uomo ha concepito. Credo nel suo futuro."
(John Carpenter)

giovedì 31 ottobre 2013

Halloween 2013

Halloween 2013

Quando ero piccolo invidiavo gli americani perché avevano Halloween e aspettavo la mattina dell'1 novembre per vedere i servizi al telegiornale sulla parata di New York. Non mi sono mai piaciute le feste comandate: il Natale? Sì ok i regali, però poi parenti e tanta noia. Pasqua? Lasciamo perdere... invece Halloween era la festa dell'horror, pazzerella, colorata e piena di mostri, era quella giusta per me insomma!

Il che va, per inciso, di pari passo con la mia preferenza per un horror giocoso e fantastico, capace cioè di esaltare il gusto per le creature, l'invenzione, il volo pindarico nell'assurdo, quello che negli anni ha creato maschere irresistibili (da Frankenstein a Fred Krueger), che in effetti non mi hanno fatto mai realmente “paura”, perché il punto non era quello: era piuttosto che mi affascinavano, meravigliavano, mi aiutavano a coltivare il piacere dell'immaginazione. Per questo ancora adesso li contrappongo all'horror "realista" a base di serial killer che oggi va per la maggiore (e che non a caso mi ha fatto allontanare un po' dal genere, insieme all'eccesso di remake).

Così, quando Halloween è arrivata in Italia (o meglio quando ce la siamo ripresa, vista la matrice mitteleuropea e i vari culti localistici nostrani dedicati ai morti e pieni di zucche e folklore) è stata una soddisfazione. A ciascuno la propria festa, com'è giusto, e Halloween è certamente la mia, da sempre. E tanto basta!

Buon Halloween a tutti!

giovedì 17 ottobre 2013

Venezia 70: i film (4/4)

Venezia 70: i film (4/4)

Palo Alto, di Gia Coppola (Orizzonti)

Quella dei Coppola sta ormai diventano una famiglia (cinematografica) molto allargata: dopo il patriarca Francis e i suoi due figli Sofia e Roman (senza dimenticare il nipote Nicola, ovvero Nicolas Cage), ecco farsi avanti la giovane nipote Gia (sta per Giancarla), ex modella, che qui scrive e dirige un ritratto adolescenziale nella classica cittadina di provincia in cui il male di vivere si manifesta con maggiore evidenza. Che l'argomento sia quello è evidente sin dall'accesa metafora della scena iniziale, in cui due adolescenti in auto si schiantano contro il muro che si trova a pochi centimetri da loro (l'auto infatti era parcheggiata); da lì si prosegue principalmente seguendo l'impresa di April, studentessa delle superiori che subisce (e in un certo senso anche cerca) le attenzioni del suo professore di educazione fisica, interpretato da James Franco, sempre a suo agio con ruoli borderline. L'influenza di zia Sofia è evidente, la giovane Gia si circonda di tutto ciò che può aiutarla a sentirsi a suo agio (Francis ha un cameo vocale, mentre in un piccolo ruolo compare l'altra zia, Talia Shire), ma lo sguardo è sincero e il racconto si snoda in modo lineare, ma affascinante, creando un'atmosfera rarefatta e a tratti poetica. Merito anche del volto imbronciato di Emma Roberts, una bella mappa su cui iscrivere le emozioni che le singole storie vogliono portare avanti.



Ukraina ne Bordel/Ukraine is not a Brothel, di Kitty Green (Fuori Concorso)

Titolo annunciato tra i più “forti” della Mostra, anche se più che altro per le pruriginose ragioni che possono spingere il pubblico ad assistere alle imprese poco vestite delle “Femen”, le (bellissime) ragazze ucraine che usano il proprio corpo nudo come atto di protesta verso una società maschilista capace di rendere il paese una mera tappa per il turismo sessuale (da cui il grido, e il titolo, “L'Ucraina non è un bordello”). Ci si accosta pertanto con un certo scetticismo, al limite mitigato dalla speranza che il film sia quantomeno informativo: per fortuna è molto di più. La regista australiana Kitty Green, infatti, ha vissuto a contatto con le ragazze seguendone l'escalation mediatica e non fa sconti alla realtà che il suo occhio si trova a dover radiografare. Così, oltre a capire chi sono le persone dietro le icone mediatiche, capiamo anche il tipo di organizzazione che muove il gruppo, ideata da... un uomo, con buona pace della lotta al maschilismo. Il corto circuito generato da questo paradosso è la crepa che permette al documentario di aprirsi alla realtà denudando (letteralmente) i difficili equilibri di un mondo che ha totalmente smarrito ogni direttrice morale e non si preoccupa di farsi scudo del proprio contrario pur di dare vita a un “brand”: la protesta è quindi inglobata dal sistema come sua naturale appendice (mi viene in mente quanto avevano già mostrato i Wachowski in Matrix Reloaded, con buona pace dei detrattori...). La documentazione di un fenomeno mediatico rompe in questo modo il velo di una sovrastruttura tutta basata sul “vedere” e sulla superficialità dell'apparire, fino a una chiusa che lascia suggerire (o quantomeno sperare) un possibile futuro in cui queste ragazze saranno davvero capaci di prendere in mano la propria vita, affrancandosi dall'iconografia da modelle per riappropriarsi della propria identità di persone. Un film intelligente e in grado di suscitare emozioni variegate.

UPDATE: uscito nei cinema italiani il 12 Giugno 2014 con il titolo Femen - L'Ucraina non è in vendita.



Mahi va Gorben (Fish & Cat), di Shahram Mokri (Orizzonti)

L'idea di girare un film con un intero piano-sequenza ha avuto più di un seguace alla Mostra (si pensi a Ana Arabia, di Amos Gitai), ma nessuno ha portato questa pratica a un livello di radicalità e sperimentazione paragonabile a quello toccato da Shahram Mokri, che con questo suo Fish & Cat ci regala uno dei capolavori del festival. Sebbene limitato dalla bassa definizione con cui è girato (tanto che a tratti emergono anche delle “sporcature” sotto forma di sciami di pixel che rompono la stabilità del quadro), il film è un'intelligentissima ricognizione sugli stilemi del thriller: seguiamo infatti un gruppo di persone accampate in riva a un lago, presso un bosco dove alcuni minacciosi macellai degni di uno slasher all'americana compiono i loro delitti. Senza mollare mai l'unitarietà del movimento di macchina, Mokri salta da una situazione all'altra, spesso tornando sulle azioni già viste per riprenderle da una differente prospettiva, giocando spesso con le aspettative dello spettatore, ammaliato dalla confezione thriller, mai realmente appagata, ma sempre tenuta viva da una tensione che non perde un colpo. In questo modo, la progressione lineare del racconto e la sua destrutturazione temporale si sovrappongono generando una vertigine potentissima, che rende il film stimolante e straniante allo stesso tempo. Il racconto si crea e si disfa sotto i nostri occhi e i vari piani narrativi, temporali e di realtà si mescolano in un unico che è anche un mosaico sfaccettato: vivi e morti, azioni nuove e altre già viste coesistono con naturalezza, lasciando allo spettatore il piacere di ricostruire l'intera dinamica di questa giornata - da cui l'idea del “gatto e del pesce” enunciata dal titolo, peraltro leggibile anche su un piano metaforico, visto il ricorrente tema della sopraffazione degli adulti nei confronti dei giovani. Un film che mostra il cinema nella sua forma al contempo più ludica ma anche più consapevole delle possibilità espressive offerte dal mezzo. Il “mostro” di turno è interpretato dal grande Babak Karimi, artista poliedrico e già montatore per Scimeca, Kiarostami, Olmi, Loach, oltre che attore per Asgar Farhadi.


martedì 1 ottobre 2013

Locke

Locke

Ivan Locke è il miglior uomo d'Inghilterra: padre felice, uomo realizzato e lavoratore animato da grande senso del dovere (è responsabile per i cantieri di una azienda edile), è insomma la classica persona su cui si può sempre fare affidamento. Ma non oggi. Ora Ivan Locke è in auto, in viaggio verso Londra, lasciandosi tutto alle spalle per assistere alla nascita di un figlio che ha avuto da un'avventura di una notte. L'unico atto irrazionale della sua vita, ma di cui vuole comunque assumersi tutte le responsabilità. Durante il tragitto cerca di risolvere per telefono le situazioni che ha lasciato indietro: spiegare alla moglie cosa è successo e gestire tutti i preparativi per una colossale colata di calcestruzzo per il nuovo cantiere che sta per aprire. La posta in gioco è la sua famiglia e il suo lavoro: ovvero tutta la sua vita. In tutto questo, Ivan deve fare conti con l'ombra di suo padre, un fallito da cui ha sempre cercato di distinguersi e in cui ora rischia di specchiarsi a causa dell'unico errore che ha commesso.


Un uomo, una strada e l'abitacolo della sua auto: tre elementi che bastano a Steven Knight per realizzare un gioiello cinematografico, senza far calare mai la tensione e affidandosi a pochi, ma solidi elementi. In primis il magnifico corpo attoriale di Tom Hardy, sempre più autentico camaleonte del cinema contemporaneo, capace perciò di rendere a meraviglia la figura duale di Ivan Locke: un vincente, per la posizione che è riuscito a ritagliarsi con le sue sole forze, ma anche un uomo gravato da un'ombra oscura, da quella figura paterna che solo lui vede riflessa nello specchietto retrovisore e che sta lì a ricordargli come la mela non cada mai lontano dall'albero. La performance di Hardy è tanto più straordinaria quanto alimentata da elementi quasi impercettibili: va infatti considerato come l'attore sia solo e in una posizione che consente ben poco movimento (è al volante della sua auto e comunica via telefono in viva voce). Il lavoro è principalmente sulla voce, dal tono basso, calmo, capace in tal modo di restituire il senso di solidità e affidabilità di Locke, la sua calma destinata apparentemente a non incrinarsi mai, stolida così come il suo senso del dovere che lo porta a correre da una donna che non ama, ma verso cui si sente responsabile, affinché suo figlio non nasca senza vedere il volto del padre.

Hardy lavora sui toni bassi della voce (il film non va assolutamente visto doppiato, qualora fosse distribuito) e in questo modo stabilisce il ritmo calmo del racconto, scandito dal continuo incalzare delle telefonate, mentre il personaggio cerca di ricondurre sempre tutto alla logica. La discrasia che si crea fra la calma apparente dell'uomo e il progressivo franare degli eventi crea il conflitto del film, con mille problemi che si accumulano tra i due fronti – quello familiare e quello lavorativo – su cui si trova sballottato Locke. Pur potendo contare su un lavoro di scrittura precisissimo e capace di dare ai dialoghi lo spessore drammaturgico necessario a esprimere la forza della storia, Knight ci mette comunque anche uno sguardo capace di massimizzare i risultati. La recitazione di Hardy è infatti enfatizzata da un uso espressivo della fotografia che crea uno scenario impressionista fuori dall'abitacolo dell'auto: le luci dei veicoli e le geometrie descritte dall'autostrada creano infatti una gabbia in cui chiudere l'uomo. Quello che vediamo è Locke fuori dal mondo ma dentro tutto il suo universo, così concreto nelle questioni che affronta, ma così evanescente nella distanza che lo separa dai fatti reali su cui tenta di avere il controllo. Lo stile visivo, pertanto, esteriorizza i conflitti portati avanti dalla vicenda immergendo totalmente lo spettatore su questo set tanto reale quanto mentale, dove, non a caso, la posta in gioco è sia costituita da eventi concreti (la calata del calcestruzzo) che squisitamente etici e ideali (il senso del dovere, la fiducia tradita verso la moglie e l'azienda).

Il resto lo fa un lavoro di scelta delle inquadrature che a tratti ritaglia spazi precisi sul volto di Hardy: quando, ad esempio, vediamo soltanto i suoi occhi incastonati nella superficie ristretta dello specchio retrovisore, l'espressione è differente; davanti a noi non c'è più il barbuto e corpulento padre di famiglia dall'aspetto così tradizionale e amichevole, ma cogliamo invece lampi di quella forza animale che era propria del Bronson di Nicolas Winding Refn. In questi momenti Knight dimostra come la scelta di Hardy sia una vera e propria dichiarazione d'intenti per esprimere un coacervo di emozioni che il volto così duttile dell'attore naturalmente è in grado di evidenziare e portare in dono al suo personaggio.

La metafora stessa del calcestruzzo, che nei dialoghi Locke individua quasi come un paradigma della realtà, diventa pertanto folgorante: duttile, morbido, eppure così essenziale per la solidità delle costruzioni che il personaggio innalza con il proprio lavoro, il calcestruzzo è la vita stessa di Locke, il tramite con quella realtà che l'uomo cerca di gestire nel migliore dei modi, salvo poi cedere nell'attimo in cui non usa più la logica e si abbandona all'istinto. La logica peraltro è anche quella che deve regolare la calata nel cantiere e che collide con i problemi creati dalla realtà con fare quasi sadico e “scientifico”.

Già sceneggiatore per Frears e Cronenberg (suo La promessa dell'assassino), Steven Knight è qui al secondo lavoro da regista (il primo, Redemption, è in questo periodo nelle nostre sale) e si è già ritagliato un posto d'onore per la coerenza dei suoi temi e la sicurezza dello stile: le sue sono storie di uomini che cercano di fare la cosa giusta, in un mondo governato da un caos che per questo tende a soverchiarli. Ivan Locke, in una sola notte, distrugge ciò che aveva costruito in un'intera vita per rispondere unicamente al suo senso di responsabilità, mentre invita parenti e amici a essere logici, salvo accorgersi del loro voltargli le spalle. E' un racconto morale, ma anche una parabola su un uomo che anela alla perfezione, ma non può che prendere atto della propria fallibilità: proprio in questa umanità sta il valore di un progetto che non cede alle facili lusinghe del moralismo astratto, ma è sempre, invece, iscritto in drammi che lo spettatore sente come profondamente veri. Un film folgorante, che si spera sia presto distribuito in Italia.

EDIT: uscito nei cinema italiani il 30 Aprile 2014.

Locke
Regia e sceneggiatura: Steven Knight
Origine: Usa/UK, 2013
Durata: 85'