"C'è chi crede in dio o nel denaro. Io credo nel cinema, nel suo potere. L'ho scoperto da ragazzino, mi ha aiutato a fuggire da una realtà in cui ero infelice. È una delle forme d'arte più alte che l'uomo ha concepito. Credo nel suo futuro."
(John Carpenter)

giovedì 27 ottobre 2011

Lucca 2011

Lucca 2011

L'immagine del manifesto esplica in modo molto chiaro il tema salgariano del Lucca Comics & Games 2011, dedicata appunto alla “Grande Avventura”. L'occasione per il rinnovo è proprio il centenario della morte dello stesso Emilio Salgari, che per una macabra coincidenza si va a sovrapporre alla recente scomparsa di un altro grande cantore del genere come Sergio Bonelli, cui sarà pure dedicato un appuntamento.

E' la grande contraddizione insita in un genere di per sé vitalistico, eppure relegato a figure che ormai appartengono a un pur glorioso passato, in cui si rispecchia anche quel “doppio passo” tipico del fumetto tutto, perennemente in crisi eppure capace di produrre una forza aggregante non comune e di fondersi in linguaggi altri che determinano l'immaginario contemporaneo (pensiamo al recente boom dei film sui supereroi).

L'appuntamento annuale con la fiera di Lucca, dunque, si presenta in sé stimolante nel suo riverberare il doppio tempo di un'arte antica e pure presente e porta con sé ospiti quali il grandissimo Jiro Taniguchi, appuntamenti dedicati a David Lloyd, le anteprime del nuovo lungometraggio di Full Metal Alchemist e pure la prima convention italiana sui Transformers!

Sarà anche per “contenere” la mole di eventi e il gran numero di appassionati che come ogni anno invaderanno il centro storico della città, che stavolta la manifestazione si “allunga”, e invece dei soliti quattro giorni arriva a spalmarsi su cinque, con una partenza programmata per domani, 28 ottobre, fino alla data conclusiva dell'1 novembre.

Ci si vede in zona!



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venerdì 21 ottobre 2011

Arrietty

Arrietty

Alla periferia di Tokyo, sotto una grande casa immersa nel verde, vive Arrietty, una “Prendimprestito”: è alta circa 10 centimetri e con il padre e la madre trascorre le sue giornate nella loro abitazione dalla quale escono soltanto per “prendere in prestito” il necessario per vivere, senza palesare mai la propria presenza agli umani. Arrietty però si trova ormai nell'età in cui può avventurarsi all'esterno per le sue prime prese in prestito e in questo modo si imbatte in Sho, un giovane malato che si è trasferito nella grande casa per trascorrere in tranquillità i giorni che precedono l'operazione al cuore. Essendo stati scoperti, i Prendimprestito devono abbandonare il loro rifugio, ma il legame che si va formando fra Arrietty e Sho diventa sempre più intenso, tanto che il ragazzo difenderà l'amica dagli altri adulti, aiutandola a fuggire.


Ultima fatica dello Studio Ghibli, Arrietty è un film costruito su due dimensioni contrapposte: da un lato il mondo “piccolo” dei Prendimprestito, dall'altro quello “grande” degli umani. Due sono di conseguenza anche le velocità del film: i piccoli personaggi si muovono infatti con agilità negli spazi enormi della casa, scivolano sulle pareti e si arrampicano fra i fili d'erba come quei roditori e quegli insetti che pure devono evitare lungo i loro percorsi; al contrario, gli umani sono lenti, il loro corpo diventa una gigantesca massa uniforme che si muove in modo magmatico, e che a tratti sembra rimandare alla tradizione tipicamente giapponese del “gigantismo”, che molti spettatori hanno iniziato a conoscere attraverso filoni come quello dei grandi robot: i passi producono scossoni, gli arti si muovono pesanti, e persino il cuore è costretto dalla malattia rendendo perciò il movimento faticoso, tanto da connotare il pur giovane Sho come personaggio statico, in perfetta contrapposizione alla vitalità incontrollabile di Arrietty.

E ancora due sono le articolazioni degli spazi lungo i quali si dipana la vicenda: la realtà dei Prendimprestito è quella di una minuscola casa nascosta nel terreno sotto quella degli uomini, grande al più come una cassa di frutta o una dimora di bambole; eppure quale e quanta ricchezza di dettagli connotano ogni angolo, frutto di una capacità di economizzare il rapporto con lo spazio, ma anche di vivere lo stesso esclusivamente se riempito di elementi in grado di realizzare la vita in un continuo e proficuo rapporto con le cose. Il film si bea letteralmente del piacere del dettaglio, dalle spighe di grano sparse nella stanza in senso ornamentale, agli attrezzi da cucina, agli oggetti del mondo “grande” che diventano riserve di cibo di lungo periodo. Una “geografia domestica” che, si badi, è cosa ben diversa dal lezioso esercizio di replica del grande nel piccolo, tipico della vera casa di bambole, che non a caso i Prendimprestito non riconoscono come propria, nonostante sia stata costruita per loro.

Al contrario, anche in questo caso, il mondo degli adulti appare vuoto nella sua enormità, quasi che solo nel molto piccolo si possa trovare la chiave di un rapporto con lo spazio che gli umani invece disperdono in ambienti che ci appaiono sconfinati e spogli. Ecco dunque che Arrietty e familiari compiono un'autentica reinvenzione dello spazio, ponendo lo spettatore nella condizione di ripensare e riscoprire, attraverso una diversa prospettiva, quegli elementi del mondo umano che sembravano così familiari. Scale fatte di chiodi, nodi del legno che forniscono appigli per le corde da scalata, fazzoletti che assumono il valore di sipari dietro cui nascondersi: tutto è orientato al piacere della riscoperta della visione, in un esercizio che palesa la sua natura teorica quando Arrietty diventa soltanto una sagoma dietro un drappo o un vetro, un'ombra che rimanda agli artifici originari della visione, al cosiddetto pre-cinema.

Ma doppio è anche il tono che il racconto persegue, perché questa tensione alla scoperta, che connota perfettamente il personaggio di Arrietty, è molto distante da quel piacere quasi fanciullesco dell'agire che anima invece le opere del mentore Hayao Miyazaki. Il sense of wonder è certamente presente e stimolato dai caratteristici tratti morbidi e dalle tinte calde tipiche della factory ghibliana, ma è comunque mitigato da un sentire più guardingo e non privo di una certa cifra inquieta e malinconica, che se non arriva agli eccessi problematici dei Racconti di Terramare di Goro Miyazaki, comunque testimonia di una cifra stilistica precisa e particolare da parte del nuovo regista Hiromasa Yonebayashi. Sembra quasi che il regista sposi non tanto il punto di vista goloso e gioioso di Arrietty, quanto quello dei genitori, la loro perenne sfiducia in una possibilità di convivenza con gli umani, che rende ogni esplorazione nel mondo di fuori non una grande avventura, ma un viaggio pieno di pericoli dove è possibile cadere, essere attaccati dai topi, e dove prendere in prestito è un'operazione rischiosa e passibile di fallimento.

In ragione di ciò, il rapporto che si viene a instaurare – in modo peraltro non preordinato e quasi “istintivo” - fra Arrietty e Sho diventa la metafora di un possibile percorso alternativo che leghi due specie altrimenti destinate a non potersi incontrare mai, e senza che si metta in dubbio la difficoltà e l'inopportunità di una possibile convivenza, come prova il tentativo della governante umana di rapire i Prendimprestito e di nuocere alla loro specie. Il rapporto fra i due protagonisti, pertanto, è tarato su un'empatia crescente ma discreta, basata più sul non detto e sulle possibilità che sulle certezze: anche per questo, la relazione impossibile fra i due è tutta costruita sull'avverarsi di una separazione, sull'aiuto che l'umano fornisce alla sua piccola amica perché possa abbandonarlo e fuggire. Il finale, in questo senso, è tanto malinconico quanto connotato di una possibile speranza, e lascia allo spettatore il piacere di trarre le proprie conclusioni.


Arrietty – Il mondo segreto sotto il pavimento
(Karigurashi no Arrietty)
Regia: Hiromasa Yonebayashi
Sceneggiatura: Hayao Miyazaki e Keiko Niwa, ispirata al ciclo letterario Gli Sgraffignoli, di Mary Norton
Origine: Giappone, 2010
Durata: 94'

mercoledì 12 ottobre 2011

A Dangerous Method

A Dangerous Method

Svizzera, 1904. Il dottor Carl Jung è un pioniere nel campo della psicanalisi, così come teorizzata dal collega austriaco Freud. L'occasione per mettere in pratica le rivoluzionarie teorie gli si presenta quando, nell'ospedale in cui opera, viene ricoverata Sabina Spielrein, una donna affetta da violente crisi. Grazie alle sedute con Jung, Sabina ripercorre i traumi infantili che la vedevano vittima delle violenze paterne, in un perverso gioco di attrazione/repulsione che ha letteralmente modificato la sua sfera sessuale. Negli anni successivi, Jung ha modo di incontrare direttamente Freud, che pone alla sua attenzione il caso del collega Otto Gross: quest'ultimo riesce a vincere le resistenze di Jung e a convincerlo a iniziare una relazione extraconiugale con Sabina.


Pochi fra i registi contemporanei possono vantare un percorso autoriale coerente come quello di David Cronenberg: a ogni visione sembra di vederlo lì, dietro la macchina da presa, mentre cesella il suo disegno artistico e tematico, rielaborando le proprie ossessioni in direzioni che possono apparire inedite o spiazzanti, ma che in realtà sono il frutto di un agire maturo e di un modulo narrativo che ha saputo evolvere le proprie forme. Così, siano le pulsioni materiali che negli anni Ottanta lo posero come un alfiere del body-horror e un teorizzatore della “nuova carne”, o quelle più manifestamente legate alle condizioni della psiche, in tutti i casi abbiamo a che fare con una dimensione interiore che nel rapporto con l'esteriorità e il mondo “di fuori” lascia deflagrare la propria umanità.

Umanità e non debolezza, sì badi, ché nel cinema cronenberghiano l'empatia verso le ossessioni che agitano i protagonisti è assoluta e ogni componente morale è puramente bandita: il tono algido e sempre più minimale della messinscena non impedisce infatti allo sguardo di essere sempre al servizio della storia e dei protagonisti. Da questo punto di vista l'evidenza del lavoro compiuto con A Dangerous Method è esemplare: tirare in ballo direttamente i padri fondatori della psicanalisi sembra quasi un abile escamotage per andare al cuore del problema, esplicitando in modo magari didascalico la propria visione dell'umanità. Invece il film spiazza ancora una volta, prediligendo un approccio non convenzionale. Più che alla correttezza o meno delle teorizzazioni freudiane, infatti, Cronenberg è interessato ancora una volta alle pulsioni che sottendono l'uso delle pratiche psicanalitiche e sfronda anzi le figure di Freud e Jung della loro aura puramente storico-medica, in favore di una umanità che gratta sotto la superficie.

Da questo punto di vista, tanto Jung che Freud vengono visti come due personaggi percorsi dall'inquieta ricerca di un principio unificante che riesca a imbrigliare e spiegare le forze che muovono l'uomo nel proprio agire, secondo una direttrice che è, prima ancora che medica, puramente filosofica. Cronenberg si adegua a questo agire e filtra la messinscena attraverso un approccio che è astratto e mentale prima ancora che concreto e fisico, si affida più alle parole che ai gesti, ma l'approdo è ugualmente implacabile nella sua lucidità: il confronto con queste forze rivela la velleità del proposito e si risolve in una presa d'atto dell'impotenza del raziocinio rispetto alla complessità della posta in gioco. Il rapporto con l'oggetto delle attenzioni dei due è comunque differente: per Freud esso si esplicita in un tentativo molto rigido di ricondurre tutto a dinamiche elementari, in modo prettamente logico; per Jung, al contrario, l'approccio non esclude lo studio di possibilità inedite, come il ricorso a elementi extra-logici - si cita esplicitamente la possibilità di ricorrere al paranormale.

L'immersione nella sfera dell'irrazionale finisce naturalmente per lasciare deflagrare le pulsioni che corrono all'interno dell'animo di Jung, che in questo modo si allinea a personaggi tormentati e squisitamente cronenberghiani come il Seth Brundle/Jeff Goldblum de La mosca e il René Gallimard/Jeremy Irons del capolavoro M. Butterfly. In tutti questi casi, infatti, l'interesse del protagonista, filtrato attraverso le pulsioni manifestate dal corpo e dal desiderio amoroso, finisce naturalmente per precipitare l'animo nella potenza di una dinamica che non si riesce più ad arrestare. A permettere l'innesco sono due figure antitetiche eppure affini come Sabina e Otto, entrambe sostanzialmente oltre il disagio causato dall'incapacità di circoscrivere la spinta delle proprie pulsioni e capaci perciò di incarnare una natura impulsiva e tentatrice.

Il che naturalmente spezza il possibile isolazionismo dei due principali protagonisti, e permette al film di utilizzare la loro vicenda personale come paradigma di una situazione sociale più ampia. L'agire non compromissorio di Freud, infatti, è costantemente motivato da ragioni eminentemente “politiche”, che il medico austriaco esplicita direttamente al collega (e allo spettatore): il senso di accerchiamento rispetto alla portata rivoluzionaria delle proprie teorie, e il costante antisemitismo che lo coinvolge in quanto ebreo. Sottotraccia già si avverte una pulsione caotica che di lì a pochi anni travolgerà l'Europa con due guerre mondiali.

A Dangerous Method, dunque, si dimostra un punto di vista privilegiato per scoperchiare ciò che si trova al di sotto della superficie, attraverso la giustapposizione di elementi (raziocinio e istinto) che si vorrebbero distinti e governabili ma che si rivelano al contrario pericolosamente esplosivi se avvicinati e che non fanno altro che amplificare proprio quella forza che si vorrebbe poter controllare, in un esaltante gioco di confronto fra gli opposti che apre il film a un dinamismo molto teso nel suo apparente autocontrollo.

Per questo, al di là dei possibili sottotesti storici, esattamente come nei già citati La mosca e M. Butterfly, il nuovo A Dangerous Method resta comunque un intenso melodramma di non secondaria sensualità, capace per questo di far parteggiare lo spettatore per le ossessioni che agitano l'animo dei protagonisti e di fargli comprendere lo strazio di anime divise fra opposti, schiacciate da forze incontrollabili e per questo destinate a rimanere in uno stato di necessaria infelicità.


A Dangerous Method
(id.)
Regia: David Cronenberg
Sceneggiatura: Christopher Hampton, dalla sua pièce teatrale, basata sul libro Un metodo molto pericoloso, di John Kerr
Origine: Francia/UK/Canada/Germania/Svizzera, 2011
Durata: 99

lunedì 3 ottobre 2011

Drive

Drive


E' uno stuntman per l'industria hollywoodiana, ma nelle notti di Los Angeles è anche il miglior autista possibile per compiere una rapina. Un giorno però qualcosa cambia, quando conosce la famiglia che vive nell'appartamento accanto al suo: Standard, il padre, è in prigione e a casa lo aspettano sua moglie Irene e il piccolo Benicio. Una volta uscito, Standard viene ricattato dalle persone cui deve dei soldi, che minacciano di far del male ai suoi cari. Così lui li aiuta, mette a disposizione il suo talento per una rapina a un banco di pegni che dovrebbe saldare ogni debito, ma l'imprevisto è in agguato: Standard viene ucciso, era tutta una trappola, e Irene e Benicio sono i prossimi sulla lista. L'unica possibilità di garantire la loro salvezza è saldare i conti con la forza.


C'è una costante evoluzione in atto nel cinema di Nicolas Winding Refn, bastano le prime battute a precipitarci infatti in un universo dove le ossessioni che corrono sottotraccia sono ancora le stesse, ma la superficie è differente, ormai lontana dagli umori che deflagravano potenti nella trilogia di Pusher, punta di diamante della prima fase della sua produzione. Così, ci si aspetterebbe di trovare dietro il volante ancora una volta il volto iconico del magnifico Mads Mikkelsen, espressione dei tanti animi inquieti che hanno abitato le storie di Refn, ma invece lo sguardo è quello non meno ieratico di un Ryan Gosling che gioca comunque con le pulsioni trattenute dei suoi predecessori, come il Lenny di Bleeder o il One Eye di Valhalla Rising, in un gioco di distanze e avvicinamenti che più di ogni altra cosa ci dice dell'operazione in atto.

Il regista danese tende infatti a mutare la forma del suo cinema tanto più quanto i suoi temi, i suoi feticci e il suo stile si intrecciano con la tradizione di una cultura altra e di un genere codificato quale può essere, in questo caso, il noir americano: Refn dimostra di conoscere perfettamente le opere dei maestri, le varie articolazioni e dinamiche di queste storie, le ossequia ma allo stesso tempo tenta di aggirarle e superarle attraverso una dimensione personale che permetta a Drive di andare oltre il semplice ricalco stilistico, innescando un gioco di riconoscibilità e differenze con il passato (proprio e altrui).

Sono dunque cambiati i volti, ed è cambiato anche lo spazio, immersi come siamo in una realtà magmatica che scivola senza soluzione di continuità fra le tonalità vagamente psichedeliche delle notti losangeline e gli esterni soleggiati dove si svolge la vita quotidiana. Qui sta l'altro elemento significativo, quello che permette al film di creare lo scarto necessario a non mettere in scena una dicotomia fra le sue due personalità, che poi sono le due del protagonista, ma una coesistenza delle stesse. Non, dunque, notte contro giorno, ma una sorta di interregno di luci e ombre dove il “Driver” può essere stuntman, meccanico e rapinatore in pieno giorno, rompendo in questo modo il presupposto che pure le battute iniziali della storia sembravano porre in essere attraverso la contrapposizione fra un'attività notturna e una diurna.

Così, al pari sempre del One Eye di Valhalla Rising, ma con una consapevolezza teorica che discende direttamente da esperimenti come quello di Fear X, l'autista stabilisce il tono della vicenda, conferendogli quell'andamento a metà fra sonnambulismo e fiaba, in un alternarsi di lontananza e vicinanza che piega la stessa forma del racconto agli stati d'animo di volta in volta messi in campo. Non a caso, rispetto al romanzo originale di James Sallis, Refn opera per una ricomposizione del racconto, rompendo l'alternanza fra passato e presente, e riconducendo l'intera storia a un tempo unico, pur sfruttando il montaggio parallelo per creare punti di contatto fra momenti comunque distanti. Si crea in questo modo una zona intermedia, in cui i tempi sono continuamente riscritti, le luci cambiano come in un noir di Edgar Ulmer e il personaggio può passare dal ruolo di criminale a quello di figura protettiva e comprensiva nei confronti di una famiglia con cui instaura comunque un rapporto sempre a distanza, quasi come un intruso che – a parte l'inevitabile resa dei conti finale – finisce per istillare più dubbi che sicurezze: si veda a tal proposito la bella sequenza sul pianerottolo, dove si percepisce una latente forma di nervosismo fra il personaggio e Standard, intento a gettare l'immondizia.

La tensione per un qualcosa che ribolle sotto la superficie è in definitiva l'autentica sostanza nascosta del film, che riesce a sfruttare uno stile sinuoso, con movimenti di macchina morbidi e personaggi che sembrano scivolare fra spazi di volta in volta dilatati pur nella minima distanza che li separano (i due appartamenti adiacenti): tutto questo rende pertanto pleonastico il ricorso alla “figura retorica” dell'inseguimento automobilistico, qui negato e spesso “congelato”, quando non ridotto a pochi momenti dove comunque non viene trasmessa l'impressione della velocità, ma al contrario tutto si riduce non a caso a un mascheramento con gli elementi architettonici e gli interstizi offerti dalla città, in una continua frammentazione dell'azione. Al pari del mascheramento finale dello stesso autista, della sua natura ibrida suggerita anche dalla professione di body-double per l'industria cinematografica, siamo nel pieno regno di una figura fantasmatica, che non a caso trova nella concretezza degli affetti familiari (da cui però è escluso) la sua ragione d'essere, quella che gli fa scivolare una goccia di sudore sulla fronte o gli fa brandire il martello con un nervosismo che tradisce una forma di incertezza, una tendenza a non lasciar esplodere fino in fondo la sua furia repressa.

Il risultato di questa forza espressiva che Refn governa con incredibile attenzione è quello di un film ossessivo eppure poroso, fondato sulla figura retorica dell'ossimoro, ma capace di mantenere una latente tensione per l'intera sua durata, e di permettere al citazionismo da sempre presente nell'opera dell'autore danese di esprimersi con più forza che in passato. Il tutto con un formidabile lavoro sui volti (straordinario nella sua “inattualità” quello di Carey Mulligan) e l'approdo ad una violenza parossistica, ma stavolta più stilizzata che reale, e che forse permette di chiudere i riferimenti interni al corpus d'opera del regista attraverso il parallelo con la più imprendibile delle sue pellicole, quel Bronson che a distanza di tempo – e pur con le riserve del caso – rimane l'autentico manifesto teorico della sua filmografia.


Drive
(id.)
Regia: Nicolas Winding Refn
Sceneggiatura: Hossein Amini (dal romanzo di James Sallis)
Origine: Usa, 2011
Durata: 95'



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