"C'è chi crede in dio o nel denaro. Io credo nel cinema, nel suo potere. L'ho scoperto da ragazzino, mi ha aiutato a fuggire da una realtà in cui ero infelice. È una delle forme d'arte più alte che l'uomo ha concepito. Credo nel suo futuro."
(John Carpenter)

giovedì 25 settembre 2008

Appunti sulla saga di Spider-Man

Appunti sulla saga di Spider-Man

Chiunque avesse l'occasione di leggere una classica storia dell’Uomo Ragno si renderebbe subito conto del clima scanzonato che Stan Lee e i suoi collaboratori hanno fin dall’inizio impresso alle avventure di Peter Parker, ma senza che questo abbia mai fatto venir meno una componente anche drammatica circa i problemi e i disagi (interiori e non) che affliggono e connotano il protagonista. D’altronde Spider-Man è per antonomasia un fumetto dal taglio più solare, antitetico a eroi noir come Daredevil o Batman e in questa dicotomia vediamo riflessa la voglia di sognare di un’America che pure non può non fare i conti con una realtà ogni giorno più difficile e poco incline a far nascere gli eroi (che quindi diventano “con superproblemi”). La perfetta sovrapponibilità fra l’icona supereroistica e l’ambiente in cui vive è uno dei temi che la saga cinematografica di Spider-Man affronta sin dai titoli dei testa del primo film, dove le linee che compongono la tela dell’Uomo Ragno si confondono con quelle del suo costume e anche con le finestre che campeggiano sui grattacieli di New York. Un rapporto che sfocia poi nella splendida sequenza di Spider-Man 2 in cui alcuni cittadini in un treno diventano depositari del segreto dell’identità dell’eroe e si stringono attorno a lui in un simbolico abbraccio.

Quello dell’iconicità di Spider-Man, simbolo amato e rispettato dai suoi cittadini, costituisce in realtà il più grande tradimento che Sam Raimi perpetra rispetto al fumetto originale, dove l’Uomo Ragno è invece un personaggio solitario e relativamente osteggiato dalla massa (in maniera esattamente opposta a quanto accade con alcune celebrità supereoristiche come I Fantastici 4 o i Vendicatori): non si può in effetti tacere del fatto che il primo Spider-Man arrivi all’indomani di quell’11 settembre che nei migliori esempi cinematografici ha spinto gli artisti di turno a interrogarsi sul senso dell’identità propria dell’essere americani e sulla distanza esistente fra i concetti di potere e responsabilità, sul dovere di agire e sulla necessità di farlo (ed è giusto ricordare che al triste giorno è stato dedicato proprio un albo speciale dell’Uomo Ragno, sul quale eventualmente si tornerà in seguito). Sam Raimi è bravo a giocare con questa distanza in contrappunto a una serie di dicotomie che la saga mette in piedi: quella fra le due anime di Norman Osborn/Goblin e fra le due identità di Peter Parker/Spider-Man. Il tutto calato in un ambiente multietnico (in ogni film non mancano siparietti anche fulminei sugli abitanti di New York) dove convivono pure personaggi di differente estrazione sociale, dal ricchissimo Harry Osborn alla sottoproletaria Mary Jane Watson, in un difficile ma stabile equilibrio.

D’altronde la dicotomia più grande è quella che vede Raimi allo stesso tempo rispettare e rinnegare il fumetto originale, attraverso una serie di piccole variazioni molto interessanti, che vanno dal personaggio della già citata Mary Jane (che in realtà fonde il carisma della controparte fumettistica con una malinconia tipica di altre celebri compagne di Parker, come il primo amore Betty Brant) al carattere meno brillante e più goffo dello stesso Peter, quasi a farci capire che siamo immersi in una contemporaneità più problematica di quella degli anni Sessanta, tale da rendere anche i cattivi dotati di maggiore spessore tragico (spiccano particolarmente il formidabile Dottor Octopus di Alfred Molina e il malinconico Uomo Sabbia del grande Thomas Hayden Church). Il percorso è attuato attraverso un andamento progressivo che da un primo film più scanzonato passa a un secondo più problematico e un terzo più cupo, dove si adombra la possibilità della fagocitazione dell’eroe da parte della sua “metà oscura” e viene esplorata la necessità del perdono come unica via di uscita dalla spirale della vendetta.

E poi c’è la regia, che si confronta anch’essa con la forma del fumetto, attraverso una fotografia dalle tinte accese, che schiaccia le figure dotandole di poco spessore per riprodurre la bidimensionalità del disegno originale, ma che deve inevitabilmente scendere a compromessi con l’esigenza del realismo e per questo reinventa graficamente i personaggi (se l’Uomo Ragno è identico al fumetto i cattivi sono rielaborati in maniera abbastanza evidente). L’uso del digitale per gli effetti speciali, poi, amplifica quella “cartoonizzazione” dei personaggi che peraltro Raimi ha perseguito sin dai tempi della trilogia de La casa e dello splendido Darkman.

Il percorso umano ed eroico di Peter Parker diventa quindi una metafora del suo essere parte di un mondo, ma anche della sua crescita (nel primo film la natura organica delle ragnatele e i cambiamenti che avvengono sul suo corpo mutato per il morso dell’aracnide sono una chiara metafora del passaggio dall’infanzia all’adolescenza): nel diventare uomo quindi Peter impara ad assumersi le sue responsabilità e a comprendere i confini del suo essere eroico, in un percorso a tappe attraverso le sue debolezze e i suoi affetti. In particolare è Spider-Man 2 a intessere con maggior cura il discorso, anticipando quella decostruzione dell’icona che poi verrà ripresa da Christopher Nolan con Il cavaliere oscuro. Raimi però compie la sua operazione dall’interno del genere, cercando di rispettare la natura iconica dei personaggi e la natura fumettistica dell’universo che pone in essere: quella fra il fantasy e il reale diventa così la più grande distanza sulla quale l’autore si trova ad agire.

Spider-Man sito italiano
Spider-Man 2 sito italiano
Spider-Man 3 sito italiano
Intervista a Sam Raimi, Tobey Maguire e Kirsten Dunst
Sito ufficiale della saga cinematografica (in inglese)
Spider-Man Italia, il portale sull’Uomo Ragno

lunedì 22 settembre 2008

$E11 OU7! (Sell Out!)

$E11 OU7! (Sell Out!)
 
Rafflesia Pong lavora per gli studi televisivi della Fony Corporation ed è in cerca dell’idea giusta per avere uno spazio nel palinsesto gestito da due nevrotici e dispotici capi. Nello stesso tempo il giovane idealista Eric Tan, che ha costruito una macchina in grado di produrre latte di soia in 12 modi diversi, si scontra sempre con i due feroci datori di lavoro che non accettano la sua ingenuità e rifiutano di produrre la sua invenzione. Dopo aver incontrato ed essersi innamorato, non corrisposto, di Rafflesia, Eric decide di officiare il rito funebre della sua metà idealista consegnandola al programma appena creato dalla ragazza, dove vengono intervistate persone in punto di morte e viene documentato il momento del loro decesso. Il rito sarà anche l’occasione per reclamizzare la macchina del latte di soia.

Bello essere testimoni della nascita di un culto! E’ uno dei motivi più perfetti che spingono a varcare ogni volta la soglia della sala cinematografica e ad attendere con trepidazione lo spegnersi della luce. Nel caso specifico la fascinazione è iniziata in anticipo, quando il regista malese Yeo Joon Han ha introdotto il suo primo lungometraggio (ma alle spalle aveva già un apprezzato corto, Adults Only) al pubblico della Settimana della Critica 2008, durante la Mostra di Venezia, catturando l’attenzione di ogni astante con lieve ironia e suscitando immediatamente quella benevolenza che ti fa capire di trovarti di fronte a un film facile da amare. In effetti ciò che subito colpisce di Sell Out! è la sua capacità di instaurare un dialogo con lo spettatore, attraverso le forme del racconto popolare. Che non sono soltanto, si badi, quella immediata e palese del musical o dell’artificio che produce naturalmente l’effetto comico, ma anche quella del linguaggio televisivo. 

Il rapporto fra la realtà e la sua rappresentazione in video è infatti ciò che stabilisce la natura merceologica di ogni elemento che compare nello spazio ristretto dell’inquadratura e che afferma come ogni cosa e persona esiste in quanto prodotto vendibile, come ben sintetizzano i personaggi dei due boss (prima e migliore coppia comica del film). I minuti iniziali officiano quindi la morte del classico cinema autoriale attraverso la parodizzazione del format fatto di pause e silenzi (tipici del prodotto d’essai) che ha vinto un premio minore in una competizione di scarsa rilevanza ma ottiene per questo grande risalto televisivo. Il sorriso per Yeo Joonhan si accompagna sempre a un risvolto amaro e quindi ogni gag è facilmente rovesciabile di senso attraverso una malinconia e un’amarezza di fondo che costituisce la grande ricchezza di un film profondamente intelligente e dissacrante.

Pertanto, al grande entusiasmo che si prova dinanzi al ritmo indiavolato, mai contento della singola gag e sempre pronto a intavolarne di nuove al punto di riciclare sketch ormai consunti dal tempo (come le bizzarre telefonate che perseguitano Eric), si accompagna una analisi dei meccanismi dell’universo mediatico mai così lucida e puntuale. Yeo Joonhan riesce a dribblare la trappola del didascalismo attraverso una perfetta conoscenza dei tempi, una fotografia colorata e accattivante e una serie di geniali trovate che sfruttano la forza trascinante dei brani musicali (scritti dallo stesso regista), che infiammano giustamente la platea e rendono il film appassionante: è da antologia a questo proposito la scena che vede una intera sequenza commentata da un brano musicale privo di cantato e con un karaoke che corre sovraimpresso alle immagini! Il chiamare in causa lo spettatore diventa palese e quindi anche la struttura stessa del film si adegua attraverso una struttura che dal singolo arriva progressivamente a interessare la comunità.

Ecco dunque che gli intrecci fra i personaggi tendono ad allargare progressivamente le maglie del racconto per mettere in scena non soltanto le tragiche avventure di due tipici personaggi da commedia vessati dal destino, ma il paradigma di un intero universo dove ogni personaggio è protagonista. In questo senso il programma di Rafflesia, dove i parenti del morto di turno si beano della possibilità di apparire in televisione è un efficace rappresentazione della televisione come morte al lavoro, che desacralizza il momento del trapasso per farlo diventare colpo di scena in una programmazione sonnambulica e che ha continuamente bisogno di essere foraggiata di momenti “forti” (curioso notare a questo proposito il parallelo con un altro titolo presentato alla Mostra di Venezia, ma terribilmente meno efficace e più didascalico, il filippino Jay, di Francis Xavier Pasion).

Il finale dunque vede quindi le varie forze che hanno percorso il racconto incontrarsi in un momento che di per sé rappresenta l’epitome della forza trascinante del musical, la realizzazione della grande puntata televisiva cara a Rafflesia e la morte umana (coincidente con la vittoria professionale) di Eric: la sua metà idealista viene infatti condannata a morte in via plebiscitaria come in un reality show e il rito vede gli spettatori partecipi grazie alla forma estremamente accattivante utilizzata dal regista. Il che porta inevitabilmente a provare un sentimento di grande partecipazione emotiva, equamente distinto fra la gioia per la potenza espressiva dell’opera e di dolore per la grande amarezza che il racconto sbatte letteralmente in faccia a ogni fruitore. E far commuovere e divertire contemporaneamente non è impresa da poco!

Il passo successivo non può che essere la completa fagocitazione dell’universo nella fiction e quindi i due capi ripetono il copione dell’iniziale cortometraggio d’essai, a stabilire la circolarità di questo straordinario racconto, per il quale auspichiamo una immediata distribuzione. In ogni caso si consiglia la visione in lingua originale per poter godere delle varie gag che Yeo Joonhan costruisce partendo dal perfetto accento inglese di Eric, che contrasta con quello malese (il cosiddetto “manglish”).


$E11 OU7! (Sell Out!)
Regia e sceneggiatura: Yeo Joon Han
Origine: Malesia, 2008
Durata: 108’

sabato 20 settembre 2008

Hancock

Hancock

Los Angeles. John Hancock è un supereroe, dotato di poteri incredibili messi al servizio della lotta contro il crimine. Proposito lodevole, ma l’aspetto rozzo, insieme ai grossi danni che ogni super-impresa infligge alla città hanno reso il Nostro inviso alla grande maggioranza della popolazione. C’è però una persona che crede in lui, è Ray Embrey, un PR che decide di curare l’immagine di Hancock per renderlo un eroe amato dalla gente: la “redenzione” passa per un breve periodo di detenzione in carcere, durante il quale Hancock dovrà anche imparare a relazionarsi con il prossimo, in modo che il suo ritorno sulle scene si riveli un successo. L’operazione riesce e Hancock vede la sua vita cambiare, ma un imprevisto è in agguato: anche Mary, la moglie di Ray, all’insaputa del marito, è infatti dotata di superpoteri!

Il piacere migliore spesso non è quello trasmesso dai film perfettamente riusciti, ma quello che si prova di fronte a film imperfetti che pure riescono a smuovere un immaginario e a favorire riflessioni non banali. Hancock è uno di questi titoli. Imperfetto, certamente, e forse irrisolto ma comunque attraversato da una certa qual vitalità e dalla capacità di fornire una base al genere di riferimento e all’interprete principale. Già, quel Will Smith che viene ormai associato solo alla facile formula dell’incasso, ma che in realtà è stato capace nel tempo di dare forma a un personaggio al di fuori della facili categorizzazioni, in grado di fare presa su pubblici trasversali, dimostrando anche ottime capacità interpretative. Liberatosi in fretta del facile cliché dell’”attore nero”, Smith ha infatti dato forma a un’icona dai tratti universali, che riesce a rinnovare l’idea dell’uomo in grado di perseguire con caparbietà il suo successo per diventare simbolo di una filosofia positiva. Ma lo ha fatto in un modo intelligente, non ponendosi semplicemente come un classico eroe vincente e carismatico (sebbene i primi ruoli della sua carriera andassero semplicemente in questo senso) ma anche come un carattere problematico nello scendere a compromessi con la propria grandezza. Hancock in questo senso crea un cross-over con il genere dei supereroi che permette al personaggio tipico di Smith di arricchirsi di sfaccettature interessanti, anticipando anche la cronaca (è notizia di pochi giorni fa - poi smentita - che la Marvel avesse pensato all’attore per il ruolo ultra-iconico di Capitan America). Hancock è Will Smith e ne riflette il travaglio del personaggio pubblico la cui personalità e il cui bisogno di trovare un posto nel mondo vanno di pari passo con il bisogno di costruirsi un’immagine pubblica lontana da quella iniziale del barbone asociale e più vicina all’ideale supereroico del quale il pubblico ha bisogno (paradigmatica e spassosissima in questo senso la scena in cui Ray mostra a Hancock le copertine di alcuni fumetti di supereroi).

Il processo di scomposizione e ricomposizione del personaggio Hancock si sovrappone dunque a un catartico percorso di analisi che Will Smith compie sul suo stesso personaggio, secondo una linea tematica che finora era stata affrontata compiutamente soltanto in Alì di Michael Mann (che costituisce il capolavoro della filmografia di Smith e il film fondativo della sua “mitologia”). Ed è perciò un lavoro che viene avviato a livello epidermico e sensoriale, attraverso l’elaborazione della fisicità dello stesso Smith, che nell’arco di poche inquadrature deve essere capace di passare da una sensazione di estrema pesantezza a una di grande leggiadria: ecco dunque che lo vediamo rozzo, sporco e buono solo a far danni, ma anche capace di sfrecciare velocissimo nel cielo. L’immersione in soggettiva lungo le disordinate volute che l’eroe descrive nell’aria diventa quindi una forma di empatizzazione con un corpo “larger than life” che vede il mondo da una differente prospettiva e davvero pochi film sono stati capaci di trasmettere la sensazione del volo in maniera così immediata e potente!

Ciò che si cerca è la corrispondenza emotiva con le sensazioni provate da un eroe il cui volo e le cui imprese non devono essere semplicemente descritte per provocare lo stato di meraviglia nello spettatore (come accade nel classico esempio del supereroe alla Superman), ma comprese per avvicinarsi al suo status di personaggio straordinario. Che è poi il tema del film, quello di protagonisti fra i quali esiste una distanza da colmare. Peter Berg in questo senso è bravo a giocare con gli spazi fra i caratteri, mostrandoci un Hancock prima solitario ed evitato da tutti e poi progressivamente sempre più in simbiosi con il mondo che lo circonda: gli scarti a volte sono espressi attraverso piccoli gesti, come il pallone da basket che a un certo punto non cade più nel canestro, in altri casi abbiamo invece brusche accelerazioni: ad esempio la rivelazione sullo status supereroico di Mary (interpretata non a caso da un’altra attrice carismatica e dalla straordinaria fisicità come Charlize Theron), non solo permette a Hancock di capire da dove viene e chi è, ma colloca immediatamente Ray e il piccolo Aaron nella schiera dei “diversi” rispetto al nuovo ordine familiare rappresentato dai due super-umani. La regia in questo caso isola i due “normali” in inquadrature singole, distanziate attraverso il montaggio dalla super-coppia.

La deriva melodrammatica del finale, da molti interpretata come una caduta di stile nella retorica, si inserisce perfettamente in questo schema perché ribadisce la natura sacrificale dell’eroe (che si autocostringe all’esilio), insieme al suo necessario e definitivo adeguarsi ai canoni classici, con tanto di trasferimento a New York (città simbolo del supereroe americano, da Spider-Man ai Fantastici 4, fino al già citato Capitan America). Senza contare che la regia di Berg riesce a colorare questi momenti di una intensità emotiva che non lascia indifferenti.

Hancock
(id.)
Regia: Peter Berg
Sceneggiatura: Vincent Ngo, Vince Gilligan
Origine: Usa, 2008
Durata: 92’

Video intervista a Will Smith (sottotitolata in italiano)
Video intervista a Charlize Theron (sottotitolata in italiano)
Sito ufficiale italiano
Sito ufficiale americano
Ritratto di Will Smith
Sito ufficiale di Will Smith

mercoledì 17 settembre 2008

Warner 85

Warner 85

A pensarci pare quasi straniante, abituati come siamo a considerare il film come “proprietà” dell’autore, ma negli States la classica formula cinefila che si è utilizzata lungamente per indicare una pellicola comprendeva “titolo + interpreti + Studio di produzione + anno di produzione”. Per fare un singolo esempio, se prendiamo in considerazione Il mucchio selvaggio la formula da usare sarebbe: “Il mucchio selvaggio; William Holden, Ernest Borgnine; Warner Bros; 1969”. E il povero Sam Peckinpah? Non pervenuto! (un ottimo esempio dell’uso di questa formula si può sentire nel telefilm Remington Steele – Mai dire si, nel quale l’eponimo protagonista, interpretato da un giovane Pierce Brosnan, è un fervente cinefilo e la utilizza in ogni puntata).

E’ un chiaro retaggio del fatto che negli States per anni lo Studio e i divi sono stati sicuramente gli elementi maggiormente caratterizzanti di una pellicola e se per qualsiasi spettatore odierno può essere logico che in fondo i volti e i corpi risultino qualificanti, molto meno dovrebbe risultarlo anche il marchio produttivo. In fondo lo Studio System è qualcosa di lontano nel tempo, oggi il panorama è mutato non solo perché alcuni marchi sono scomparsi (come la RKO) o sono fortemente ridimensionati (pensiamo alla United Artists), ma anche perché manca l’idea di una identità che lo Studio riesce a imprimere ai propri lavori. La logica è sempre più commerciale, come i grandi registi indipendenti non mancano mai di ricordare: dove ieri c’erano i produttori (certamente interessati all’incasso, ma anche alla possibilità di realizzare pellicole in grado di resistere al tempo) oggi ci sono degli executive che hanno più l’aspetto di agenti di borsa e guardano principalmente all’industria come a una possibile fonte di guadagno, gli stessi stabilimenti passano per continue acquisizioni e fusioni con altre realtà e tracciare delle linee di demarcazione fra arte e commercio risulta sempre più difficile.

Il pensiero di questa mutazione torna prepotentemente alla mente se pensiamo come, in esatta controtendenza a questo andazzo, molte major continuano imperterrite a festeggiare gli anniversari della loro fondazione: il che da un lato è interessante poiché spesso si traduce nella possibilità di rivivere, attraverso le loro proposte, un interessante excursus lungo la storia del cinema, dall’altro perché dimostra come la memoria sia ancora tenuta in considerazione laddove si guarda unicamente all’incasso dell’ultimo weekend e la tradizione e l’esperienza vengano poste come elementi in grado di fare la differenza. L’idea che si vuole trasmettere, insomma, è quella di una solidità produttiva, che vuol dire certamente sicurezza per gli investitori, ma anche continuità cinefila.

Dati quindi per acquisiti tutti i distinguo di cui sopra, fra i marchi che maggiormente continuano a coltivare l’idea di una tradizione cui guardare per affrontare il presente, spicca la Warner Bros, che pare collocarsi un gradino più in alto dei concorrenti e riesce ancora oggi a porsi come realtà attenta al prestigio del proprio catalogo e alla coltivazione del concetto di “autore” tanto caro a noi cinefili. Basterebbe pensare che sotto la sua caratteristica “WB” ha lavorato per tanti anni un outsider come Stanley Kubrick e che attualmente è Clint Eastwood con la sua Malpaso a trovare nello Studio un interlocutore credibile, per lasciarci tirare un sospiro di sollievo e farci sperare che forse il buon cinema hollywoodiano è ancora possibile. Oppure rendersi conto di come un autore emergente quale M. Night Shyamalan, transfuga dalla Disney, abbia trovato proprio nella Warner il luogo adatto per realizzare il suo Lady in the Water per rinfocolare quella speranza.

Il che inevitabilmente ci riporta al passato, quando fu proprio la Warner a ridefinire i confini della violenza su schermo distribuendo due classici come Gangster Story (1967) di Arthur Penn (dove era possibile vedere i corpi devastati dalla violenza delle pallottole, cinque anni prima della terribile morte di James Caan ne Il padrino) e il già citato Il mucchio selvaggio. E che dire dell’indispensabile contributo fornito alla causa del cartoon attraverso le avventure dei Looney Tunes, dove hanno germinato talenti come Fritz Freleng, Chuck Jones e il magnifico Tex Avery, fornendo una credibile e irriverente alternativa al monopolio della Disney?

Attraverso ogni decennio, insomma, i Warner Studios hanno lasciato un’impronta significativa: i Cinquanta con Gioventù bruciata di Nicholas Ray; i sessanta con i già citati titoli di Penn e Peckinpah; nei Settanta lo Studio è stato capace di radiografare la nuova società metropolitana, in prospettiva critica attraverso l’ispettore Callaghan di Don Siegel (Dirty Harry, 1971) o Mean Street (1973) di Martin Scorsese, e cavalcare l’onda dei nuovi generi, come il kung fu con il classico I tre dell’Operazione Drago con Bruce Lee.

Fondato nel 1923 dai fratelli Harry, Albert, Jack e Sam Warner, oggi lo Studio si barcamena fra un progetto di Tim Burton e un capitolo della saga di Harry Potter, offre ai fratelli Wachowski la possibilità di dare forma agli universi di Matrix e Speed Racer e con l’acquisizione della New Line si assicura anche la distribuzione del prossimo The Hobbit (previsto per il 2010). Meno ondivago di Universal e Fox, lontano dalla volgarità fracassona della Sony/Columbia, insomma, lo Studio taglia il traguardo degli 85 anni in un modo che appare come qualcosa in più del semplice momento celebrativo: si spera sia invece un punto di partenza per rinnovare una tradizione molto felice.

Sito ufficiale della Warner Bros
Pagina della Warner Bros su Wikipedia Italia
Sito Warner Bros Italia

lunedì 15 settembre 2008

Vegas: Based on a True Story

Vegas: Based on a True Story

Las Vegas: una famiglia che vive ai margini della metropoli riceva la visita di un ragazzo che si spaccia per un ex abitante del posto, intenzionato a ricomprare il terreno per motivi affettivi. Successivamente il giovane rivela invece di essere interessato all’appezzamento di terra perché al suo interno sarebbe nascosto un favoloso tesoro, retaggio di una vecchia rapina il cui bottino non fu mai ritrovato. Eddie, il padre di famiglia, smanioso di trovare questa fortuna, inizia uno scavo ossessivo che lo porterà a devastare completamente casa e a dissipare ogni affetto familiare.

Il percorso artistico di Amir Naderi, formidabile regista iraniano da anni emigrato in America, non si esaurisce mai nella singola storia narrata in un film, ma fa della stessa il fulcro di un’odissea fisica e psicologica che coinvolge interamente il cast e la troupe. Per riuscire a restituire allo spettatore la sensazione reale dell’ossessione fisica e mentale nella quale sono avvolti i suoi protagonisti, Naderi si imbarca personalmente in autentici tour-de-force che coinvolgono ogni fase della lavorazione. Per questo motivo il suo ultimo Vegas ha alle spalle una “true story” non meno coinvolgente di quella raccontata sullo schermo, che ha visto il regista racimolare il denaro necessario a terminare la riprese scommettendo giornalmente ai casinò della città del gioco, per poi vivere insieme ai suoi collaboratori nella casa devastata progressivamente per le esigenze sceniche. Rarissimo caso di cineasta limite, che si immerge fisicamente nel proprio lavoro, Naderi è stato capace negli anni di fornire degli affreschi di rara potenza lirica (come gli splendidi Manhattan by Numbers e ABC Manhattan), ma negli ultimi tempi, nonostante nessuna sua opera possa lasciare indifferente, sembrava essersi ripiegato in un’ossessività meno aperta agli stimoli dell’esterno, troppo concentrata sulla follia dei suoi protagonisti.

Vegas ce lo restituisce nella forma migliore, nonostante il budget ridottissimo lo abbia costretto a girare con un digitale di cattiva qualità, che agli spettatori meno accorti in più punti può far nascere il sospetto di un prodotto visivamente piatto e televisivo. Al contrario Vegas è una parabola potente che, partendo dalla follia del singolo, diventa metafora di una ossessione universale, capace di scardinare alla radice molti miti dell’America come terra dei sogni. La collocazione ai margini di Las Vegas è per questo paradigmatica e esplicita subito l’enorme contraddizione di una città-casinò, simbolo di lusso e fortuna, costruita in mezzo al nulla del deserto americano. L’esatto opposto della New York baricentro del lavoro e qui, come lì, l’approdo sarà inevitabilmente quello di un emblematico Ground Zero.

La famiglia protagonista è immersa in questo nulla, ai margini della metropoli, proprio nel pieno di quel deserto che sembra peraltro rimandare ai lavori iraniani di Naderi (basti pensare ad Acqua, vento, sabbia). Nonostante la vicinanza della città spinga Eddie a fare spesso delle puntate al casinò nella speranza di guadagnare un po’ di denaro, il gruppo sembra aver comunque trovato un suo equilibrio e fuori dalla casa spicca un colorato giardino che sembra respingere il deserto per dare l’illusione di un alveo all’interno del quale è possibile coltivare i valori fordiani della palingenesi, della creazione di una comunità coesa, dove c’è anche spazio per momenti più gustosamente ironici.

L’innesto dell’elemento irrazionale, fornito dalla notizia che forse nel terreno si nasconde del denaro, innesca però una reazione a catena che sovverte completamente il tono del racconto e non solo sprofonda la famiglia nel caos, ma fa sì che il deserto torni a prendere possesso del giardino: Naderi ha uno sguardo quasi tenero nel ritrarre il progressivo accumularsi di polvere e rifiuti nella casa, la mancanza dell’acqua, lo sporcarsi di tutto, dimostra una profonda pietà nei confronti dei luoghi abbandonati, e allo stesso tempo non nasconde la precarietà dell’equilibrio sul quale si fonda la civiltà (americana e non solo), la quale vive nell’illusione delle proprie certezze codificate, destinate però a essere immediatamente sovvertite dall’avidità e dal desiderio di possesso e fortuna materiale. L’inarrestabile discesa nella follia di Eddie è quindi condotta con precisione tale da costituire un’esperienza fisicamente insostenibile, totalmente priva di quella grandeur maledetta che aveva comunque reso epici personaggi come il Daniel Plainview de Il petroliere. In questo caso l’asciuttezza e l’apparente ripetitività del plot diventano quindi un giusto espediente per far sì che lo spettatore sia esso stesso sfidato dall’insostenibilità di un evento la cui assurdità è pari solo alla sua tragica plausibilità. A ben guardare, infatti, la regia è estremamente precisa nel tratteggiare un universo totalmente mentale, dove l’audio gioca un ruolo fondamentale, attraverso una cacofonia di suoni che vedono il motore della escavatrice sovrapporsi al costante e delicato tintinnare di un campanello in perenne sottofondo. Ma è un universo non chiuso, bensì poroso, che riesce a riflettersi nelle paure radicate nell’animo dello spettatore e a esorcizzare i demoni del regista stesso.

L’ossessione del protagonista restituisce pertanto l’idea di un’umanità miserabile, amplificata dal fatto che il tesoro con tutta probabilità non esiste, ma è solo il frutto di una scommessa-inganno, condotta da chi ha puntato i suoi averi sul fatto che l’uomo continuerà lo scavo all’infinito. In tutto questo un possibile punto di fuga è fornito dal personaggio del figlio di Eddie, il quale, pur non condividendo affatto la follia del padre, non riesce ad abbandonarlo al suo destino e gli rimane accanto, diventando testimone di una desolazione esteriore che diventa anche interiore: un personaggio che non a caso ha fatto pensare agli adolescenti inquieti di Gus Van Sant, un altro che di cinema come esperienza da vivere non solo razionalmente, ma anche emotivamente e “sensorialmente” ne sa qualcosa.

Vegas: Based on a True Story
Regia e sceneggiatura: Amir Naderi
Origine: Usa, 2008
Durata: 102

Incontro con Amir Naderi alla Mostra di Venezia 2008
Ritratto di Amir Naderi
Altro ritratto di Naderi

giovedì 11 settembre 2008

David Lloyd a Lecce

David Lloyd a Lecce

Per tutti il suo nome è legato a V for Vendetta, lo splendido graphic novel di cui ha realizzato i disegni (su sceneggiatura di un autentico gigante del fumetto come Alan Moore), trasposto anche in film pochi anni fa. Sarebbe di per sé già sufficiente a rendere il suo nome come significativo, per la straordinaria potenza dei nebbiosi disegni, che scontornano i visi e le figure al punto da restituire una realtà malinconica e decadente, e risultano comunque estremamente curati nei particolari, perfetti per ritrarre tanto il martirio dei corpi quanto l’alienazione delle menti in un regime totalitario che ha prodotto il suo vendicatore sfuggente (e per questo motivo si consiglia soprattutto la lettura della versione in bianco e nero, dall’impatto intenso e poetico, piuttosto che di quella, più nota, a colori – entrambe sono disponibili per Magic Press). Peraltro fu proprio di Lloyd l’idea di far indossare a “V” una maschera che riproducesse le fattezze di Guy Fawkes, cospiratore inglese che il 5 novembre 1605 tentò di far saltare in aria il Parlamento inglese (sull’opera in questione ci sarà tempo di ritornare più approfonditamente in futuro).

Ma David Lloyd è un universo più vasto, un grande autore e disegnatore, che ha lavorato con altri celebri nomi quali Garth Ennis, Grant Morrison, Warren Ellis, Jamie Delano e che ha al suo attivo anche un lavoro completamente proprio, il racconto noir Kickback (disponibile ancora per Magic Press).

Attivo dagli anni Settanta (è nato in Inghilterra nel 1950), David Lloyd è ora in visita in Italia per un tour (frutto di una collaborazione tra Magic Press, Associazione Fumetterie Italiane e Narnia Fumetto) che domani, venerdì 12 settembre, toccherà anche Lecce, nella fumetteria Mondi Sommersi (in Via Milizia 56/a). L’evento avrà inizio alle ore 16.30 e per tutte le informazioni del caso rimando al sito della fumetteria, con il regolamento della giornata, il forum di discussione e le recensioni delle principali opere dell’autore.

Update 14/09/2008: Segnalo il bel report di Comicsblog.it sull’evento, con estratti dalle dichiarazioni di Lloyd, una ricca galleria fotografica e un breve filmato con l’artista mentre realizza un disegno.

Il sito di Mondi Sommersi – La fumetteria a Lecce
Il sito ufficiale di David Lloyd (in inglese e spagnolo)
Il sito di Associazione Fumetterie Italiane
Il sito di Narnia Fumetto

martedì 9 settembre 2008

Il cavaliere oscuro

Il cavaliere oscuro

Mentre il nuovo procuratore distrettuale Harvey Dent ingaggia una lotta senza quartiere contro le famiglie mafiose, Gotham City deve affrontare l’ascesa di un nuovo criminale, il Joker, che minaccia direttamente Batman di continuare la sua opera distruttiva se il vigilante non rivelerà pubblicamente la sua identità. Bruce Wayne si trova quindi stretto fra il desiderio di abdicare al suo ruolo, anche per lasciare che Dent assurga finalmente al ruolo di eroe di cui la città ha bisogno, e la necessità di affrontare il Caos disseminato da Joker. Tutto questo senza contare Maggie, che ha promesso di aspettare il giorno in cui Bruce potrà avere una vita normale, ma che allo stesso tempo è sempre più attratta da Dent. Un intreccio di forze che non potranno che collidere fra loro, generando drammatiche conseguenze e che una volta di più faranno riflettere Batman su quale debba essere il suo ruolo.

Un film in equilibrio. Se si dovesse cercare di definire Il cavaliere oscuro con una sola frase questa sarebbe probabilmente quella giusta. Perché il suo intreccio nasce naturalmente da un incontro (e scontro) di forze opposte che a sua volta si riflette nella struttura articolata della sceneggiatura: in fondo alle spalle c’è un notissimo fumetto, che Christopher Nolan ha deciso di prosciugare radicalmente dei suoi orpelli barocchi per puntare a un esasperato realismo. Allo stesso tempo, però, questo approccio non può permettersi di rinnegare alcuni specifici topoi dell’opera cartacea, perché l’operazione di “asciugatura” mira proprio a riscoprire la cifra più “vera” di Batman (o quella che l’autore, a sua giusta discrezione, ritiene tale e predilige), quasi a ribadire che non siamo di fronte né alla versione pop televisiva degli anni Sessanta (e alla sua versione degradata di Joel Schumacher), né a quella gotico-fiabesca di Tim Burton.

In questo senso il film si offre come un caleidoscopio di suggestioni che prova (riuscendoci) a estrapolare il massimo da ogni possibile spunto, per non diventare mera riduzione, quanto opera cinematografica piena che si affranchi dal semplice “genere” dei cinecomic per rendere merito alla natura mitica e archetipica del fumetto (evidentemente, e a ragione, vista come opera di più alto profilo rispetto al semplice passatempo per le masse).

Ecco dunque che il film trova la sua maggior forza nel progressivo scivolamento di senso che conduce lo spettatore attraverso un percorso ben articolato, dai personaggi alla città. Gotham City infatti è più che uno sfondo, è un alveo, all’interno del quale c’è tutto il mondo (non fosse per la parentesi in una Hong Kong quasi totalmente fatta di interni, in effetti la storia sarebbe completamente ambientata lì). E nel quale si gioca una partita fra gli opposti destinata a mettere in campo sentimenti forti, che investono direttamente lo spettatore e ci rendono partecipi di una visione (d’autore) del mondo.

Ecco quindi che Batman all’inizio è il modello e il fulcro del racconto, con i suoi doppi che tentano di emularne grottescamente le gesta, a ribadirne la sua natura mediatica prima ancora che mitica (e va notato come la presenza dei telegiornali sia spesso usata come soluzione di continuità fra i vari passaggi della narrazione); ma Batman è anche un fuorilegge e in questa dicotomia già si riscontra un primo segno della sua natura chiaroscurale, che lo rende allo stesso tempo un eroe ma anche un uomo che agisce al di fuori della legalità. E questa sua natura “borderline” si riflette poi nel Joker, agente del Caos, mentre trova una apparente opposizione in Harvey Dent, che invece tenta di agire nella legalità, ma che in realtà già contiene in nuce gli aspetti che lo porteranno a cambiare fronte (il suo ossessivo uso di una moneta truccata in fondo è già sintomatico non di chi si crea la propria fortuna, ma di chi vuol piegare la realtà al proprio volere). Sulla triangolazione di queste tre figure, di volta in volta fatte scivolare dentro e fuori i confini del lecito e del visibile (perché in campo c’è anche un continuo sparire e riapparire), si gioca la partita del film.

La realtà stessa di Gotham dunque si articola all’interno della dialettica innescata dai tre personaggi, con Maggie costretta nel ruolo di precario ago della bilancia fra gli estremi rappresentati da ragione e follia, ma anche da Batman e Harvey Dent, che si rimpallano l’amore, le rispettive responsabilità e l’importanza dei loro ruoli, arrivando anche idealmente a sovrapporsi nella scena in cui il procuratore finge di essere l’eroe mascherato. Il tema della sovrapposizione è in fondo anch’esso centrale nel film: Joker con il suo trucco esibito è una grottesca deformazione dello stesso Batman e si diverte a mescolare i termini di ogni rapporto: scambia i due indirizzi nei quali sono prigionieri rispettivamente Rachel e Dent, scambia ostaggi e carcerieri nella tesa e bellissima scena dell’irruzione degli Swat in un palazzo abbandonato e favorisce uno dei momenti più emotivamente lirici quando, nella gara di grande tensione emotiva fra i due traghetti, i criminali si rivelano più etici dei cittadini “normali”.

Questo progressivo scivolamento dei ruoli rende Batman un personaggio inquietante che usa il potere per prevaricare lo spazio dei singoli in nome di una giustizia fuori dalla legge; e rende il Joker in fondo l’unico personaggio realmente sincero perché legato a una visione del mondo libera dai compromessi e per questo non priva di una sua grandiosità. Diversamente da Batman, infatti, lui non ha una doppia vita, è una maschera che non ha né storia né passato (inventato di volta in volta in maniera differente) e serve quindi unicamente per far emergere il sommerso di una città che nasconde la sua profonda corruzione dietro una patina di rispettabilità (esemplificata dalla figura elegante di Don Salvatore Maroni, proprietario di banche) e anche il buio nell’anima dei due eroi. E’ in fondo lui a trasformare Harvey Dent da artefice della sua fortuna a vittima del Caso (Caos) o forse più semplicemente ne libera la parte oscura già latente in lui.

Joker, magistralmente interpretato dal compianto Heath Ledger, in questo modo eleva il confronto fra i tre a duello sui confini etici in un mondo che ha abbandonato ogni regola e che perciò necessita di questi personaggi per ridefinire i punti fermi di un rapporto sincero fra l’uomo, la società e le sue regole. Ecco dunque che i tre protagonisti perdono le loro specificità umane per diventare archetipi, in cui si rispecchia l’intera città di Gotham e quindi il mondo, permettendo al percorso di compiersi.

Con una regia densa e molto più focalizzata su ciò che vuole rispetto al precedente Batman Begins, al punto da sforare quasi nella presunzione, Nolan compone un affresco che nonostante lunghezze e concessioni al lirismo colpisce per il pessimismo davvero spiazzante, che in questo senso rispetta la natura “maledetta” del personaggio più di ogni facile visualizzazione di un’icona fumettistica.

Il cavaliere oscuro
(The Dark Knight)
Regia: Christopher Nolan
Sceneggiatura: Jonathan e Christopher Nolan da un soggetto di Christopher Nolan e David S. Goyer
Origine: Usa, 2008
Durata: 150’

Intervista a Christopher Nolan 1
Intervista a Christopher Nolan 2
Intervista a Christian Bale e Aaron Eckhart
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Il giornale di Gotham City (in inglese)

domenica 7 settembre 2008

Ritorno da Venezia

Quale e quanta abbondanza in un’annata di magra! Se i commenti cinetelevisivi sono stati eguali a quelli cartacei probabilmente questa edizione della Mostra veneziana verrà storicizzata come la peggiore da molti anni a questa parte: inutile negare che il clima fosse un po’ da smobilitazione, il glamour sottotono (in sé può essere anche un pregio, ma un festival di queste dimensioni ha esigenze che all’arte devono unire anche lo spettacolo), e che forse sia mancato il capolavoro epocale, ma molte critiche rivolte al direttore Marco Muller sono state esagerate e ingiuste. In fondo se temporalmente si ricorda l’edizione 1951 per il Leone di Rashomon, questo non significa che non si debba tributare onore e gloria anche a tutte quelle che sono riuscite a perpetrare l’emozione della visione in sala di pellicole di ottima qualità.

Com’è forse noto da queste parti i premi e le classifiche creano un po’ di allergia, ma è un piacere essere d’accordo con il trionfo di The Wrestler, diretto da un Darren Aronofsky distante dalla visionarietà e dai contorcimenti registici e di sceneggiatura che avevano connotato la precedente trilogia formata da Pigreco, Requiem for a Dream e L’albero della vita: in attesa di approfondire il film posso solo limitarmi ad affermare che Mickey Rourke è il più grande attore vivente. Molti di noi lo sapevano già, gli altri lo capiranno senza dubbio dopo la visione del film.

Al di là poi dei grandi nomi che hanno confermato (Miyazaki, Oshii, Bigelow, Demme, Naderi) o smentito le aspettative (Barbet Schroeder) il piacere più ricercato è ancora una volta quello per la folgorazione in sala: due i titoli da segnalare a questo proposito, Les plages d’Agnes e Sell Out!

Definire folgorante come se fosse una scoperta un film di Agnes Varda suona quasi una contraddizione, considerato il lungo percorso artistico dell’autrice, ma davvero di fronte a Les plages d’Agnes si prova il piacere di un’opera fresca e nuova, davvero sorprendente se consideriamo che si tratta di un bilancio che la grande regista francese compie sulla sua esistenza. Al contrario il malese Sell Out!, musical agrodolce sul mondo della televisione è una scoperta in tutto e per tutto, folgorazione pubblica della Settimana della Critica, divertente, geniale, inventivo (il brano presentato in forma di karaoke è impagabile!) e che, se le voci troveranno conferma, avrà anche una distribuzione italiana.

Il cinema italiano dal canto suo batte cassa con parecchi titoli, a maggior ragione se contiamo la retrospettiva “Questi fantasmi”, passata sfortunatamente un po’ in sordina: troppo specialistica e di nicchia per un festival così grande, non ha avuto sul grande pubblico l’appeal di quella dedicata ai B-movies del 2004 o di quella western del 2007, ma ha fornito l’occasione di vedere reperti rarissimi come i tagli dello Sceicco bianco di Fellini, la ricostruzione della Rabbia di Pasolini e autentici oggetti oscuri come Arcana di Giulio Questi e Toh, è morta la nonna! di un sorprendente Mario Monicelli (con fortunata proiezione alla presenza dell’autore e della diva Valentina Cortese). Nel complesso il passato batte nettamente il presente: non è soltanto questione di effetto nostalgia (“Il passato prossimo ci fa ridere; il passato remoto, invece, ci esalta e ci commuove” diceva giustamente Mario Bava), quanto di una spregiudicatezza che è mancata quasi del tutto alle opere nuove. Sebbene si confermi un buon momento per una cinematografia che sembra aver ritrovato stimoli, capacità di messinscena e, soprattutto, ottimo consenso di pubblico (basti pensare all’autentica ovazione che ha accolto Pranzo di Ferragosto, di Gianni Di Gregorio) la sensazione è quella di un cinema “corretto” e pavido, incapace di osare, diversamente da come invece si avvertiva nei titoli del passato (da non dimenticare a questo proposito la riscoperta di Yuppi Du di Adriano Celentano e, soprattutto, dell’opera rock Orfeo 9 di Tito Schipa Jr.).

Per il resto tanti nuovi ricordi da accantonare, una grande fatica a causa di una organizzazione zoppicante e non aiutata dalla collocazione sul lido veneziano (prezzi esagerati, zanzare killer e umidità persistente hanno fiaccato anche i più volenterosi), ma anche il piacere di incrociare per le strade Hayao Miyazaki, José Mojica Marins, di restare estasiati di fronte al fascino di Katryn Bigelow, in esatta controtendenza alla durezza del suo nuovo Hurt Locker, di ridere come matti di fronte al ritorno del kaiju eiga con il nuovissimo e parodistico Guilala no Gyakushu, diretto da Minoru Kawasaki e al quale appartiene la battuta più bella e corrosiva dell’interno festival “Finalmente la presenza dell’Italia nel G8 ha un senso”.

E ovviamente il gusto di costruire i propri percorsi cinefili, ritrovandosi in pochi nell’ultima giornata ad assistere alla folgorante visione di Ketto Takadanobaba del grandissimo Masahiro Makino: 51 minuti di puro jidai geki realizzati nel 1937 e ancora capaci di affascinare pienamente!

Tutto questo è stata l’edizione 65 dell’amata/odiata Mostra di Venezia: nelle settimane che seguiranno alcuni fra i film più meritevoli verranno approfonditi per meglio elencarne i pregi e i motivi d’interesse, nella speranza che la loro distribuzione sia la più ampia possibile.