"C'è chi crede in dio o nel denaro. Io credo nel cinema, nel suo potere. L'ho scoperto da ragazzino, mi ha aiutato a fuggire da una realtà in cui ero infelice. È una delle forme d'arte più alte che l'uomo ha concepito. Credo nel suo futuro."
(John Carpenter)

mercoledì 26 settembre 2012

Malastrana VHS

Malastrana VHS


Metto subito le mani avanti: detesto le VHS e non da poco. Ho vissuto l'avvento del DVD come un'ancora di salvezza in un mare fatto di versioni slavate, tagliate, sformate, mal doppiate e chi più ne ha più ne metta, e nonostante gli amici mi invitassero a trattare con rispetto quel formato che permetteva di “possedere il cinema in casa” e di “vedere ciò che altrimenti non avrei mai visto”, sono rimasto fermo sulla mia posizione.

Quindi mi sembra opportuno segnalare un blog che riguarda proprio le vecchie cassette!

No, tranquilli, l'intenzione è seria e se un pochino avete imparato a conoscermi dalle cose che scrivo sul blog, sapete che mi intriga la conoscenza e la passione. Aggiungiamoci anche il confronto con ciò che non mi appartiene (più) e il gioco è fatto! Malastrana VHS, in effetti, è un blog particolare, è attivo da poco e con una missione molto specifica: recuperare e recensire film di genere che non hanno mai goduto del passaggio al formato digitale e quindi oggi sono “perduti” o comunque confinati unicamente al mercato, ormai defunto, delle videocassette.

Un'operazione filologica e videoarcheologica più che nostalgica, che quindi permette di confrontarsi con titoli curiosi o seppelliti nella memoria. Facciamo qualche titolo? Ork, Superbestia, Funnyman, Samurai Cop, i cartoon di Rambo e Chuck Norris... roba da cinesoffitta, più che da cineteca, e proprio in questo sta il fascino e il motivo d'interesse dell'operazione.

A coordinare e curare il blog c'è Andrea Lanza, cinefilo dai gusti molto alternativi e grande appassionato del sommerso, e il lavoro è all'insegna della goliardica precisione, con attenzione agli aspetti sensazionalistici, ma anche grande cura nel fornire i riferimenti utili al lettore: quindi, accanto alla recensione e all'aneddotica, troviamo anche le cover delle cassette, il loro numero di serie e il visto censura. Al momento i lavori procedono a tutto spiano, con recensioni, ritratti di personalità legate al periodo di riferimento (principalmente gli anni Ottanta, che in effetti conobbero il boom del settore) e una rubrica sulle pin-up.

Magari non vi farà tornare la voglia di rispolverare il videoregistratore (ammesso che l'abbiate ancora), ma di sicuro è uno spazio stimolante e che vi incuriosirà, quindi dateci un'occhiata!

lunedì 24 settembre 2012

Prometheus

Prometheus

Una squadra di ricercatori, guidata dagli archeologi Elizabeth Shaw e Charlie Holloway, percorre lo spazio a bordo dell'astronave Prometheus. La spedizione, finanziata dalla Compagnia di Peter Weyland, deve raggiungere il lontano pianeta LV-223, dove vive una razza aliena che avrebbe generato la vita sulla Terra. Esplorando quel mondo lontano, il gruppo trova una piramide piena di cadaveri alieni: è come se l'esperimento cui stavano lavorando fosse andato storto, innescando una serie di drammatici eventi. Mentre Elizabeth e Charlie svolgono le loro ricerche, l'androide David (che risponde direttamente a Weyland) compie ulteriori esperimenti, infetta l'organismo di Charlie con il DNA sintetizzato dagli alieni e indaga sulle finalità di quel luogo. La verità che ben presto si palesa è sconcertante: l'esperimento fallito era solo il primo atto di una autentica invasione della Terra che gli alieni avevano programmato. E uno di loro è ancora vivo e può portare a compimento la missione...


Ridley Scott torna alle origini. La frase può essere interpretata in molti modi: produttivamente, questo suo Prometheus rappresenta infatti un ritorno alla saga di Alien, da lui stesso creata esattamente 33 anni prima. Sebbene la storia lasci vuoto ancora qualche tassello per un collegamento perfetto al film del 1979, è alquanto chiaro come si tenti qui di fornire nuovi elementi alla mitologia e, in particolare, ai creatori stessi del micidiale Xenomorfo. Il ritorno, peraltro, è più concettuale che narrativo, poiché Prometheus si presenta con ambizioni diverse dal meccanismo horror alla Dieci piccoli indiani del prototipo. Il che naturalmente ci conduce alla seconda interpretazione, quella più “filosofica”: il ritorno che il film chiama in causa è anche quello alle origini della creazione, sia essa la mitologia di una serie, sia addirittura la genesi della vita stessa, con tutte le domande “ingombranti” che un simile argomento pone in essere.

Da questo punto di vista, il film descrive una circolarità che rinnova l'affinità ideale con Alien, poiché rovescia la creazione in uno strumento di distruzione: così come il “parto” del chestburster si risolveva in una dolorosa lacerazione del corpo e nella nascita dello xenomorfo distruttore, così la ricerca delle origini della vita trova la sua (non) risposta in un esperimento fallito che prelude alla distruzione del nostro mondo e nell'apertura a nuove domande (le cui risposte saranno forse demandate al probabile sequel). Tutto il film è attraversato da un nichilismo che rovescia ogni possibile palingenesi in un atto che genera distruzione: la sequenza-cardine in questo senso è quella in cui Elizabeth si strappa letteralmente il feto alieno dal ventre attraverso un'incredibile auto-operazione chirurgica. Si tratta di uno di quei momenti che chiedono allo spettatore un grosso credito di fiducia, parimenti alla “resurrezione” di Mary Elizabeth Mastrantonio in The Abyss e che servono all'autore di turno per radicalizzare il discorso e rimarcare con forza la serietà della posta in gioco. Attorno al fulcro di questo incredibile momento, quindi, si articola ogni altra possibilità vitalistica, che la storia deprime con incredibile precisione. L'amore fra i due protagonisti naufraga, il sacrificio rituale con cui l'alieno “regala” vita alla Terra si rovescia in una missione distruttiva, la ricerca genera mostruosità, il parto è annullato in un aborto violento, il sogno di immortalità di Weyland si infrange contro la spietatezza della razza madre. L'unico possibile elemento propositivo è costretto nell'ambigua fissità del corpo sintetico dell'androide David, che si pone a metà strada fra il “cattivo” Ash di Alien e il “buono” Bishop dell'Aliens di James Cameron.

L'ultimo ritorno è, naturalmente, quello che muove nel segno della tradizione: Prometheus, infatti, recupera da Alien la filiazione da un modello narrativo tipico della vecchia Sci-Fi. L'opera del 1979, al netto delle eccellenti elaborazioni visive fornite dall'estro di Scott e di H. R. Giger, rappresentava sostanzialmente una evoluzione dei concept de Il mostro dell'astronave e Terrore nello spazio, fatto che all'epoca dell'uscita in sala portò anche alcune importanti firme della critica nostrana a sottovalutarla e a trattarla come un tardo cascame di una tradizione preesistente. Allo stesso modo, Prometheus recupera dal passato segni e moduli espressivi fieramente desueti, per il modo con cui coniuga l'essenzialità asettica del 2001 kubrickiano con i temi dell'avventura, della scoperta e del rapporto con l'ignoto (in una dialettica fra spazio personale e verità universali) tipici di opere come Il pianeta proibito. La presenza, in fase di scrittura, di un esperto di script “enigmistici” come Damon Lindelof (attivo nella saga di Lost) non inficia, infatti, un valore eminentemente visivo, che riverbera un forte sense of wonder e lascia stazionare il racconto fra una pressante fisicità (il sangue con cui si sporca Elizabeth) e un senso di impalpabilità e trasparenza delle figure. Complice anche l'eccellente uso del 3D, Prometheus si offre quindi come il perfetto speculare di Avatar, quasi una sua versione virata al nero. La dialettica, pertanto, è la stessa che opponeva la cupezza di Alien alla solarità di Guerre stellari alla fine degli anni Settanta: e sul legame di discendenza che sussiste fra lo stesso Avatar e Star Wars ho già scritto, quindi il cerchio si chiude, completando il complesso sistema di riferimenti messo in piedi da Ridley Scott.


Prometheus
(id.)
Regia: Ridley Scott
Sceneggiatura: Jon Spaihts, Damon Lindelof
Origine: Usa/Uk, 2012
Durata: 124'

mercoledì 12 settembre 2012

Shark

Shark

Frustrato dal senso di colpa per non aver salvato il suo amico Rory dall'attacco di uno squalo, Josh ha rotto il fidanzamento con Tina e ha abbandonato le onde, rifugiandosi nel lavoro in un supermercato. Un anno dopo il tragico evento, però, i due ex fidanzati si ritrovano proprio fra gli scaffali, mentre due rapinatori cercano di portar via l'incasso. La situazione è interrotta da un terremoto improvviso e da una conseguente onda anomala che allaga l'intero negozio. E c'è di più: l'acqua del mare ha portato con sé degli squali, fermamente decisi a rendere il posto la loro riserva di caccia. Arrampicati in cima agli scaffali, Josh, Tina e i loro compagni di sventura cercano di resistere e trovare una via d'uscita, evitando sia gli attacchi degli squali che le difficoltà prodotte dalla precaria situazione.


Ci volevano gli australiani per immaginare nuovi contesti (artistici e produttivi) alla furia cinefila degli squali: non più isolette nella calma (relativa) dell'oceano Atlantico o piccole località vacanziere della costa americana, ma un supermercato addirittura! E, soprattutto, non più l'approccio sgangherato tipico degli straight-to-video Asylum, ma un'operazione di una certa importanza, frutto di una coproduzione con Singapore e girata con la consueta cura formale delle pellicole aussie, in grado perciò di offrire una buona integrazione fra effetti digitali e creature meccaniche da vecchia scuola. In realtà, all'inizio l'idea stuzzica e rimanda alle bizzarrie tipiche dell'Ozploitation (che sugli eccessi ha fondato ampia parte della sua fortuna), ma poi, a pensarci bene, la scelta non appare più così balzana. Siamo infatti ancora una volta di fronte a quel “doppio registro” che ormai abbiamo imparato a conoscere, e al rapporto conflittuale fra quella terra e lo spazio. Solo che di norma siamo abituati ad associare questa dinamica alla relazione fra città e Outback, qui invece la “zona oscura” è rappresentata dal mare. Il prologo, in questo senso, già mette le carte sul piatto e, nel mostrarci Josh e la triste fine di Rory, ci ricorda quanto la pericolosità dell'entroterra abbia un suo perfetto contraltare nelle acque infestate dai letali pesci (e lasciamo da parte le polemiche pretestuose su quanto il cinema abbia enfatizzato ad arte questo tema...).

Quindi inserire gli squali nel supermercato rappresenta un classico stravolgimento degli schemi spaziali consolidati, che rivelano la fragilità degli equilibri su cui si regge un territorio urbanizzato ma sempre “assediato” dalla crudezza degli elementi (l'Australia, non a caso, è considerato uno dei luoghi a più alta concentrazione di animali pericolosi del mondo): il mare entra (letteralmente) nella parte deputata agli uomini, stravolgendo l'ordine sociale e il tutto fornisce così terreno fertile ai drammi personali, alle difficoltà di relazione fra i superstiti, che il film elenca in modo fin troppo programmatico: c'è la coppia in crisi, i due fidanzati petulanti, un padre alle prese con la figlia ribelle, e poi colleghi, datori di lavoro ingrati e via citando. Un concentrato di varia umanità che trova nell'esperienza estrema il pretesto per risolvere i conflitti interni e traghetta lentamente il racconto dalla bizzarria dell'assunto (le vittime che si arrampicano sugli scaffali per sfuggire ai pesci) alla concretezza di drammi molto quotidiani e “universali”, decisamente poco legati allo specifico della realtà australiana.

D'altronde l'esca del titolo originale (o il doppio registro del caso) sta anche in questo: nell'usare una trovata prettamente exploitation per poi virare verso il dramma intimo e umano. In tal senso Shark è davvero un film mimetico e sempre attraversato dall'ambivalenza: c'è ironia ma senza perdere di vista la serietà della situazione in cui versano i personaggi; c'è l'inventiva degli spunti (il ragazzo che usa i cestini della spesa per crearsi una “gabbia anti squalo” su misura), ma senza indulgere nell'assurdo più compiaciuto; e ci sono il sangue, gli arti mozzati e tutte le piacevolezze del genere, ma le punte grottesche sono limitate e tenute sotto controllo da una scrittura che non indulge nelle splatterfest alla Piranha (quello del 2010 di Alexandre Aja), con cui pure si può tentare un parallelo grazie all'uso, in entrambi i casi, del 3D (usato per la prima volta in una pellicola australiana). Anche la crudeltà, che non è mai mancata negli eco-vengeance di quelle latitudini (pensiamo al seminale e poco visto Dark Age), è comunque inferiore a quanto ci si aspetterebbe, tanto da riverberare punte da grosso spettacolo hollywoodiano, soprattutto nelle pirotecniche distruzioni degli squali.

In effetti, il nume tutelare dell'operazione è proprio un regista dei due mondi come Russell Mulcahy, australiano doc, che aveva esordito con un eco-vengeance negli anni Ottanta, lo stilizzatissimo Razorback, salvo poi diventare un pupillo del cinema a stelle e strisce, con successi come Highlander e la successiva discesa nel professionismo senza grosse pretese. Impegni concomitanti lo hanno poi costretto a lasciare la regia nelle mani di Kimble Rendall, specialista nella direzione di seconde unità e autore dello slasher Cut: Il tagliagole. Ma, a scorrere il cast tecnico e artistico, troviamo varie personalità che denotano ancor più la natura mimetica di un'operazione sì australiana, ma che strizza più di un occhio ai mercati esteri e che forse per questo è riuscita a raggiungere anche le nostre pigrissime sale.

Quasi tutti gli attori, infatti, hanno in curriculum un qualche titolo ben noto in Occidente, pensiamo a Julian McMahon dalla serie televisiva Nip/Tuck o a Sharni Vinson che era nel terzo capitolo di Step Up. Il protagonista Xavier Samuel, però, è anche quello di The Loved Ones, mentre il produttore Gary Hamilton è lo stesso di Wolf Creek. Nel nutrito cast di sceneggiatori aggiunti troviamo infine Duncan Kennedy già autore di Blu profondo, altro shark-movie (diretto da Renny Harlin nel 1999) tirato in causa in più articoli a proposito del tema e che sotto certi aspetti riverbera la stessa tensione claustrofobica e il piglio ironico di Shark, ma senza la stessa doppia natura che, a seconda dei casi, può rappresentare un valore aggiunto o un elemento troppo spiazzante per un pubblico abituato a strutture ben più convenzionali.


Shark
(Bait)
Regia: Kimble Rendall
Sceneggiatura: John Kim e Russell Mulcahy (scrittura aggiuntiva di Shayne Armstrong, Duncan Kennedy, Shane Krause e Justin Monjo)
Origine: Australia/Singapore, 2012
Durata: 93

giovedì 6 settembre 2012

Wolf Creek

Wolf Creek

1999. Ben Mitchell parte con due amiche inglesi, Liz Hunter e Christy Earl, da Broome, nell'Ovest dell'Australia, per una vacanza nell'Outback, fino al cratere di Wolfe Creek. Il viaggio rappresenta per il ragazzo anche l'occasione per cementare la storia d'amore che sta nascendo con la stessa Liz. I tre trascorrono momenti molto divertenti, interrotti soltanto da un breve alterco con alcuni uomini in un bar, e arrivano infine a destinazione. Giunto il tempo di ripartire, però, l'auto non si accende più, costringendo i ragazzi a trascorrere la nottata nel mezzo del nulla. In loro soccorso, comunque, interviene Mick Taylor, un classico uomo della provincia australiana, che li porta alla sua officina per riparare il guasto. Tutto sembra andare per il meglio, ma ben presto i tre scoprono a loro spese che Mick è un manico omicida e che ha intenzione di torturarli e ucciderli...


La fase moderna dell'Ozploitation inizia nel 2005 con questo celebrato horror di Greg McLean, ex pittore con esperienze nella regia teatrale al fianco di gente come Baz Luhrmann: un background importante per capire la forte impronta visiva impressa a una vicenda che, altrimenti, sembrerebbe un tardo epigono dei survival movie americani stile Non aprite quella porta e che ha riscosso un tale consenso da infondere nuova linfa alla produzione di cinema di genere australiano, rompendo la stasi in cui lo stesso era precipitato alla fine degli anni Ottanta.

Effettivamente, nel suo porsi come nuovo apripista, Wolf Creek rappresenta un compendio di suggestioni Ozploitation, rilette attraverso uno sguardo che possiamo anche definire critico: sostanzialmente, infatti, si tratta di un racconto (re)iniziatico, attraverso il quale due ragazze provenienti dalla madrepatria inglese e un ragazzo di Sidney percorrono un cammino a ritroso verso le origini di quella lontana terra, riverberando il rapporto problematico fra la parte “occidentalizzata” dell'Australia e l'Outback. Il tutto è filtrato da una prospettiva che è puramente cinematografica e che, in più occasioni, chiama in causa la rappresentazione, sia essa pittorica o filmica. La cifra estetizzante impressa al film da McLean e dal suo operatore (l'eccellente Will Gibson), ribadisce così la particolarità di un paesaggio che è alieno, onirico, e che poggia su stereotipi sedimentati dalla cultura pop, destinati a trovare incarnazione nella figura di Mick Taylor.

Il personaggio, infatti, è il classico “Ocker” alla Barry McKenzie o, più propriamente, alla Mr. Crocodile Dundee: film, quest'ultimo, che gli stessi ragazzi chiamano direttamente in causa quando si riferiscono a quel campagnolo rozzo e apparentemente sempliciotto. E Taylor non si fa pregare quando, rivelando la sua natura brutale, ripete puntualmente la gag del coltello resa celebre da Paul Hogan. È un segnale forte, attraverso il quale McLean rovescia lo stereotipo ridanciano dell'Ocker in una figura negativa. Non lo fa soltanto per ribaltare le certezze e cogliere così di sorpresa lo spettatore: al contrario, è come se ribadisse che al di là degli stereotipi c'è una realtà (una terra) che questi personaggi vivono senza comprenderne l'essenza più autentica. Il percorso iniziatico dei ragazzi, insomma, è di tipo traumatico e non può che sfociare nella distruzione totale, pervasa da un nichilismo tale da richiedere una messinscena documentaristica nelle scene più feroci (il film è girato in formato HDCAM). Le cronache dell'epoca, non a caso, riferiscono di critici infuriati per l'intensità delle scene e di autentici svenimenti in sala durante la proiezione al Festival di Cannes: il che ribadisce il doppio passo di uno stile visivo capace di essere sì espressionista nel senso più suggestivo del termine, ma allo stesso tempo anche brutale e realistico.

McLean, dunque, paga pegno a una tradizione e all'immaginario che da essa si è generato, chiama in causa le strade nel nulla di Roadgames e certi scorci mozzafiato alla Long Weekend, ma evita le genuflessioni cinefile da “bravo apprendista”, opponendo anzi all'industria del passato una formula indipendente e una crew di giovani collaboratori. Conseguentemente, alla spregiudicatezza narrativa dei classici e alla loro inventiva sfrenata, il regista preferisce una linearità narrativa di tipo americano, con tanto di vaghe ispirazioni da fatti reali (i casi di cronaca dei Backpacker Murders e di Bradley John Murdoch, per cui si rimanda ai link in calce): in questo modo Wolf Creek riesce a creare una perfetta sovrapposizione fra l'Ozploitation e il New Horror anni Settanta, ribadendo sia la sua caratura di “nuovo inizio”, sia il fatto che il rapporto di conflittualità con il proprio entroterra sia radicato nelle culture anglosassoni e assuma pertanto caratteristiche più ampie del singolo fatto narrato.

Non a caso, nell'illustrare le imprese di Mick Taylor, il film accenna a forze più grandi, chiama addirittura in causa gli Ufo e i meteoriti caduti dallo spazio che hanno formato il cratere di Wolfe Creek (lo scarto fra il vero nome del luogo e il titolo del film è misurato soltanto da quella singola “e”). Nel finale, poi, l'uomo letteralmente “scompare”, fondendosi con quel paesaggio di cui è una diretta germinazione. In effetti, se inquadrato con attenzione, Mick Taylor è una figura fantasmatica, priva di segni identitari propri: la sua potente fisicità è spesso annullata nella silhouette in penombra, che lo porta a comparire dal nulla, non ha una storia alle spalle che non sia riconducibile ai tipici tratti caratteriali del cattivo cinematografico (si fa riferimento a un'esperienza da soldato in Vietnam, dove pare abbia imparato a torturare la gente) e i filmati delle videocamere confiscate alle sue vittime lo vedono recitare sempre le stesse battute come stesse, per l'appunto, ripetendo un copione.

Una figura dalla natura “teorica”, insomma, che perde il controllo quando si attenta all'integrità del suo veicolo come un bullie di Mad Max; ma soprattutto un'icona che da sola vuole esprimere il rapporto dialettico fra l'opera di McLean e il cinema australiano del passato. A interpretarlo, infatti, c'è il veterano John Jarratt, che trent'anni prima aveva recitato in Picnic a Hanging Rock, film seminale nella definizione di quel rapporto conflittuale fra il cinema d'autore aussie e quello di genere: alla fine si torna sempre alla dialettica del doppio registro, e anche per questo Wolf Creek merita l'importanza storica che gli compete. Restiamo in attesa del sequel, attualmente in lavorazione.


Wolf Creek
(id.)
Regia e sceneggiatura: Greg McLean
Origine: Australia, 2003
Durata: 99' (esiste una Director's Cut da 104 minuti, inedita in Italia)

martedì 4 settembre 2012

Interceptor (Mad Max)

Interceptor (Mad Max)

In un vicino futuro, le strade sono diventate il territorio di conquista di biker spietati. A fronteggiarli c'è la Main Force Patrol, il cui campione è Max Rockatansky, con la sua Ford Interceptor. Quando Max affronta ed elimina il criminale Night Rider, i suoi compagni, guidati da Toecutter, accorrono in massa per vendicarlo: a farne le spese è Jim Goose, amico e collega di Max, che quindi decide di abbandonare il volante prima di superare quel limite che lo renderebbe indistinguibile dai criminali. Il nostro cerca dunque di trascorrere un periodo di pace con la famiglia, ma l'imprevedibilità del caso vuole che la moglie e il figlio si imbattano proprio nei bikers di Toecutter, e vengano uccisi. Accecato dal dolore, Max torna sulle strade, in cerca di vendetta.


Sotto molti aspetti, il primo Max Mad è il Per un pugno di dollari australiano: non tanto per la capacità di produrre degli epigoni (da questo versante sarà molto più fecondo il seguito), quanto per il modo con cui è riuscito a riassumere i vari influssi che lo hanno preceduto, determinando la temperie dell'epoca e una svolta in seno all'Ozploitation. Un punto fermo, insomma, che può essere collegato al classico leoniano anche per ragioni prettamente estetiche: George Miller, infatti, pensa in senso mitico e esalta i dettagli, creando un linguaggio visivo che non vuole affidarsi alle parole per esprimere i concetti. Al contrario, laddove si serve del dialogo appare goffo e fuori contesto, tanto da fare subito marcia indietro (Fifi che liquida i suoi pensieri filosofici sul concetto di “eroe” con una battuta). Si lavora pertanto sull'iconografia, con una stilizzazione un po' da fumetto (gli occhi che schizzano dalle orbite) e sottolineando gli elementi topici del genere di riferimento (il western in Leone, qui il road movie): tutto diventa così bigger than life, gli spazi aperti dell'Outback australiano, la ieraticità dei movimenti con cui Max indossa i suoi guanti preparandosi alla corsa, i grandangoli che conferiscono alle auto un aspetto a un tempo mostruoso e potente, mentre la scelta delle inquadrature è sempre dentro l'azione, accarezza le carrozzerie e predilige punti di vista anomali, dal basso, a fil di strada.

Oggi la cosa non dovrebbe stupirci, considerando anche la cifra estetizzante sempre presente nel cinema australiano, eppure le cronache dell'epoca riferiscono di scontri con la produzione, proprio in virtù dell'innovativo metodo di ripresa prediletto da Miller: l'autore proveniva infatti dai corti sperimentali e aveva compreso perfettamente come il modo migliore per entrare nelle sfide proposte dalla storia fosse quello di puntualizzare quell'elemento di fascinazione che lega l'uomo al suo veicolo nella cultura anglosassone. D'altra parte è interessante notare come il punto di partenza fosse diametralmente opposto: all'epoca, infatti, Miller lavorava come medico in un Pronto Soccorso di Victoria, nel Sud Est dell'Australia. Questa attività gli aveva permesso di entrare in contatto con i numerosi feriti prodotti dagli incidenti stradali, facendogli notare come i morti sulle strade superassero in numero quelli degli omicidi. In Italia magari ne avrebbero tratto una pubblicità progresso, nella terra dei canguri il pretesto è stato elaborato nella forma di un film che riprende il tema del confronto con la propria parte oscura e, in particolare, con la contro-cultura punk dei bikers, rielaborati nella figura dei bullies, poi diventati un'autentica icona dell'Ozploitation (Quentin Tarantino giustamente sottolinea come nel cinema aussie “questi tipi spuntino sempre” a prescindere dal genere cui il film di turno fa riferimento).

Alle spalle di Mad Max si situa dunque Stone, forse il primo (o comunque il principale) titolo che illustra il confronto difficile fra società e bullies: Miller ne riprende tre interpreti, Roger Ward (più tardi secondino folle in Turkey Shoot), Vincent Gil e Hugh Keays-Byrne, cui affianca il novizio Mel Gibson, che da qui avvierà una fortunata carriera (fatti salvi gli accadimenti degli anni a noi più vicini). E per il resto semina quanto anche altri generi raccoglieranno: lo scontro in strada fra l'auto e la roulotte, infatti, sembra fornire più di uno spunto a quello fra il camion e il rimorchio con motoscafo in Roadgames, mentre l'iconografia del personaggio anticipa altri celebri anti eroi come lo Snake “Jena” Plissken di 1997: Fuga da New York o il Rick Deckard di Blade Runner.

Azione e ambizioni alte si mescolano dunque in un rapporto paritario, dove gli incredibili stunt automobilistici sono importanti sia a scopi eminentemente commerciali che per determinare un'estetica che faccia da contraltare all'estrema austerità degli interni e alla sconfinata indeterminatezza dell'Outback, con le sue strade infinite. Si torna in questo senso al dualismo cui si accennava in precedenza, per effetto del quale l'intento “sociologico” e di denuncia della pericolosità delle strade viene modulato nel senso di un racconto che pure si serve dell'esaltazione del rapporto uomo-veicolo. Miller, giustamente, parla di un film “produttivamente di serie B, ma con ambizioni da serie A” e la sua storia diventa il racconto di una zona intermedia in cui i ruoli ben determinati finiscono per sfumare gli uni negli altri: il codice del branco portato avanti da Toecutter (nel doppiaggio italiano diventato inspiegabilmente “Teocotter”, sic!) si rispecchia nel sentimento fraterno che unisce i poliziotti, mentre le scorribande su strada dei bullies trovano un adeguato contraltare nelle auto truccate dei tutori della legge.

La figura di Max si pone esattamente al centro di queste contraddizioni e sfumature, per la sua bravura, per il suo essere un buon padre di famiglia, che però teme il confronto con una parte oscura e bestiale che sente premere dal suo interno e che lo porterà alla follia enunciata dal titolo (Mad Max, ovvero “Max il matto”). Anche in questo caso il rapporto dialettico fra personaggi e ambiente è articolato sulle coordinate geografiche dell'Outback, che diventa zona tentacolare, e alterna la serenità delle spiagge ai chiaroscuri delle aree boschive: se la strada è insomma assimilabile alla via principale in cui si consumano i duelli e dove i bullies sfasciano gli arti di Max pestandoli con le ruote (in una scena che ricorda anche il Django di Sergio Corbucci), il resto dell'entroterra, con la sua varietà, rappresenta quell'insieme di luoghi che determina i vari stati d'animo di una comunità ed esplora le varie derive emozionali del racconto.

Tutto l'insieme costituisce perciò un'efficace mappatura dei dualismi interni alla società australiana, sebbene l'ambientazione futurista, la stilizzazione scenografica e la recitazione un po' impostata non calchino la mano sulla specificità aussie del racconto: dopotutto siamo già in un'epoca in cui non si esclude la possibile esportazione dei prodotti ed è divertente notare come in fondo sarà proprio l'estero ad attingere maggiormente dalla saga di Mad Max, dal Giappone di Ken il guerriero ai vari postatomici italiani. L'ambizione di serie A voluta da Miller, insomma, passa anche per l'universalità dei temi veicolati da una basica storia di vendetta.


Interceptor
(Mad Max)
Regia: George Miller
Sceneggiatura: George Miller, Byron Kennedy, James McCausland
Origine: Australia, 1979
Durata: 93'