"C'è chi crede in dio o nel denaro. Io credo nel cinema, nel suo potere. L'ho scoperto da ragazzino, mi ha aiutato a fuggire da una realtà in cui ero infelice. È una delle forme d'arte più alte che l'uomo ha concepito. Credo nel suo futuro."
(John Carpenter)

sabato 27 marzo 2010

2 anni nel Nido

2 anni nel Nido

Periodo di impegni e di distrazioni, questo, che mi hanno fatto dimenticare che lo scorso 16 marzo il Nido compiva due anni di vita. In occasioni come questa mi chiedo sempre se si debba usare il termine “festeggiamento” o piuttosto “bilancio”, perché da un lato è evidente come il riuscire a portare avanti un progetto con costanza, nel mare magnum di parole che affollano internet, sia di per sé un impegno non da poco (e spesso mi è capitato di non essere costante negli impegni); allo stesso tempo, però, un traguardo presuppone delle riflessioni sul già fatto e sul da farsi.

Evito la retorica dei numeri che mi rimanda piuttosto al balletto delle cifre, fra dati reali e questura, che negli ultimi giorni ha tenuto banco - con esiti anche abbastanza esilaranti - fra i palazzi della politica, e preferisco guardare alla sostanza: il Nido c’è, gli aggiornamenti sono incostanti ma continui e il presente continua a sfornare opere interessanti che forniscono linfa vitale. Sono forse aumentati i riferimenti al passato, alcune etichette sono sempre più frequentate di altre e ben presto se ne dovrebbero aggiungere un altro paio, una (già annunciata) dedicata ai Transformers e una, un po’ complessa ma cui tengo molto, sui luoghi del cinema.

Nel complesso il secondo anno ha avuto una carburazione più disomogenea, si è forse avvertita inconsciamente la sindrome del “sequel” sempre accompagnata da nervosismi e dalla consapevolezza di dover continuare, rifinire, integrare, ampliare: l’impegno, insomma, si fa sentire certamente, e si accompagna a quello che mi sembra un sentimento più generalizzato di stanchezza nei confronti della forma di comunicazione scritta sulla Rete, sempre più ripiegata su schemi predefiniti in una continua “dispersione” di parole. Forse, insomma, si poteva fare di più, ma per fortuna il bello di un blog è anche il piacere di fare seguendo l’estro del momento, nonostante una programmazione di fondo, alla ricerca di elementi chiari su cui puntare l’attenzione: la sfida è insomma continuare a dare senso a quanto di interessante si trova intorno, preservando sempre il piacere e l’entusiasmo.

Con questo auspicio l’avventura prosegue, e a chi continua a leggere queste pagine come sempre va un sentito ringraziamento.

giovedì 25 marzo 2010

Small Soldiers

Small Soldiers

La multinazionale Globotech, specializzata nello sviluppo di tecnologia bellica, decide di allargare i suoi campi d’azione aprendosi anche al mercato dei giocattoli. La sua nuova linea comprende due eserciti contrapposti, i pacifici Gorgonauti e i membri del Commando Elite, armati fino ai denti e destinati alla vittoria. Nelle action figure viene però inserito un chip dell’intelligenza artificiale destinato agli armamenti, con l’unica conseguenza di rendere le due fazioni autocoscienti e pronte a combattersi nel mondo reale. Il giovane Alan Abernathy è il primo a ricevere in anteprima una partita dei micidiali giocattoli, e si vede perciò trasformare la casa in un campo di battaglia…

In un racconto del 1972 intitolato Campo di battaglia, Stephen King immagina la cruenta lotta fra un killer professionista e un esercito di soldatini-giocattolo senzienti creati da una delle sue vittime (la storia è stata trasposta per la televisione da Brian Henson nel 2006). Il concept non è dunque innovativo, ma ugualmente Small Soldiers è un film prezioso, sia per come riesce a rimodulare l’idea attraverso la sensibilità di un grande autore come Joe Dante senza disperdere l’afflato iconoclasta di base, sia perché in anticipo rispetto ad alcune derive moderne.

Possiamo infatti vedere i soldatini giocattoli di Dante sia come parafrasi al nero dei personaggi di Toy Story (realizzato soltanto 3 anni prima), ma soprattutto come interessante precursore di schemi e idee visive poi utilizzate in Transformers (fatto che ci permette anche di introdurre un futuro percorso dedicato proprio ai robot trasformabili).

Il paragone con l’opera di John Lasseter è forse più calzante a livello concettuale, dal momento che Small Soldiers, come Toy Story è al fondo una pellicola che omaggia la grande tradizione del film di mostri anni Trenta (in particolare Freaks per la Dreamworks e Frankenstein per Dante): la prospettiva geniale sta però nel ricondurre nel ruolo dei disadattati non i giocattoli ma gli umani. O meglio: i giocattoli in quanto riflesso della cultura pop codificata dagli umani. Il tono corrosivo del sottotesto in fondo adatta alla dicotomia Gorgonauti/Elite Commando quella esistente fra i personaggi del film, dal giovane Alan visto con sospetto da tutti e espulso da varie scuole, al vicino che si preoccupa di installare il suo mega impianto televisivo satellitare abbattendo gli alberi di chi gli abita accanto. La proprietà privata è in fondo ancora intesa come un perimetro da difendere, in modo da diventare un perenne e potenziale campo di battaglia: in questo senso Small Soldiers diventa anche un western, con i soldati-conquistatori e i Gorgonauti-nativi.

Più di queste possibili implicazioni della trama, però, interessa il modo in cui Dante mette in scena lo schema alla base del racconto, senza cioè schierarsi fino in fondo e lasciando che, quindi, non si disperda comunque il potenziale fascinatorio del “gioco della guerra”. Small Soldiers è quindi sicuramente un film che condanna una certa qual cultura dello scontro radicata nel profondo della società, ma allo stesso tempo è consapevole di quanto essa sia anche un sentimento che trova nel gioco la sua più efficace ed aggregante valvola di sfogo (e in questo senso la guerra con i soldatini-mostro non a caso funziona da collante e da strumento di riammissione sociale tanto di Alan quanto dei vicini). Siamo dunque distanti dalla visione molto più manichea che King veicolava nel suo racconto, e si resta affascinati dalle capacità e dalle personalità delle action-figures protagoniste.

E qui entrano in gioco proprio i Transformers: il concept dello strumento del vivere quotidiano che diventa robot (e dunque alieno, altro da sé) è riassunto nel costante upgrade che questi letali soldatini compiono utilizzando utensili e attrezzi da giardino, subito trasformati in temibili armi, oltre che nella confusione percettiva di un elemento (un normale giocattolo) che si rivela “più di quel che appare”. Ancora una volta Dante viaggia sul filo del doppio registro: gli oggetti del vivere quotidiano, modificando la prospettiva, rivelano inaspettate capacità belliche dimostrandosi dunque capaci di funzionalità diverse, ma anche potenzialmente già concepiti per finalità offensive, riflesso dunque di quella cultura della violenza che persiste al fondo dell’animo umano. Sempre ai robot trasformabili rimanda naturalmente anche l’idea della linea di giocattoli articolata su due fronti contrapposti (qui Gorgonauti/Elite, lì Autobot/Decepticon) e non stupisce notare come in fondo proprio la Hasbro, casa madre dei Transformers, abbia svolto un ruolo di consulenza per il film.

Un elemento che peraltro ci aiuta a capire che un legame di continuità forte esiste davvero tra i due film è anche la presenza di Kevin Dunn nel cast (in entrambi i casi nel ruolo del padre), oltre ovviamente alla figura di Steven Spielberg come produttore. A dominare comunque è lo sguardo sempre curioso e ludico di Dante, che permette al film di veicolare i suoi temi attraverso la forma accattivante di una spigliata commedia d’azione dal tocco fortemente cinefilo (con tanto di precisi riferimenti ai classici del cinema bellico), dove sofisticazione e artigianalità si uniscono come gli effetti speciali in CG alternati alla tecnologia degli animatroni del grande Stan Winston.

Nonostante questa ricchezza di temi, invenzioni visive, toni e sentimenti diversi e la presenza di molte scene cult (prima fra tutte il duello su Wannabe delle Spice Girls), il film non è stato accolto con la dovuta attenzione: una buona occasione per riscoprirlo.

Small Soldiers
(id.)
Regia: Joe Dante
Sceneggiatura: Gavin Scott, Adam Rifkin, Ted Elliott &Terry Rossio
Origine: Usa, 1998
Durata: 106’

Galleria fotografica di IMDB
Pagina di Wikipedia con note sui personaggi
Merchandise di Small Soldiers (video)
Trailer di Small Soldiers

mercoledì 17 marzo 2010

Rick Baker, l'uomo lupo!

Rick Baker, l’uomo lupo!

Alla fine il remake di Wolfman si è rivelato inferiore alle aspettative e sostanzialmente monco nella sua intenzione di riscrivere l’epopea di Larry Talbot, così mirabilmente sintetizzata dalla penna di Curt Siodmak e dalla regia di George Waggner nel lontano 1941. Il buon mestiere di Joe Johnston (peraltro regista non isolato di una pellicola che ha patito una lavorazione alquanto travagliata) non è servito allo scopo, ma non tutto è perduto: in una pellicola di claudicante medietà soffia infatti il respiro vitalissimo di un Rick Baker ancora una volta autore di un magnifico makeup, che ci consegna un Uomo Lupo straordinariamente bestiale e filologico nel suo aggiornamento del modello.

Le direttrici del lavoro di Baker naturalmente sono due e il nuovo Wolfman si pone al contempo in un legame di continuità con la tradizione Universal, ma anche di sfida nei confronti dell’archetipo fondato dallo stesso mago del makeup nell’ormai lontano 1981: mi riferisco naturalmente alla trasformazione “in tempo reale” dell’uomo in bestia del capolavoro assoluto Un lupo mannaro americano a Londra, diretto dal grande John Landis. L’opera svolta da Baker in quell’occasione è stata tale da fissare un punto d’origine talmente inequivocabile che l’Academy of Motion Picture Arts and Sciences si vide letteralmente “costretta” (e non accade spesso) a istituire appositamente la categoria del Miglior Makeup, sì da poter premiare l’artista americano con un Oscar (primo di sei vinti nel corso della sua ormai leggendaria carriera).

Il nodo, insomma, viene al proverbiale pettine: è infatti possibile constatare, scorrendo gli extra presenti nel DVD del capolavoro di Landis, come Baker avesse nel recente passato espresso il desiderio di poter tornare a lavorare su una trasformazione “mannara”, per aggiornare il suo lavoro con le recenti possibilità offerte dalla grafica digitale. Nonostante i problemi vari conseguenti la lavorazione, i cambiamenti di concept e i re-shoot (potete farvene un’idea nell’intervista di shocktillyoudrop linkata in fondo) Baker riesce parzialmente a portare a termine il suo sogno: la nuova trasformazione è in effetti ottima, ma limitata dal ritmo eccessivamente fracassone del film, che quindi impedisce quella stasi all’interno della quale Landis aveva invece magnificamente collocato la “sua” scena di mutazione corporea, permettendole di offrirsi alla visione in un tripudio di ossa deformate, carni stirate e organi schiacciati dall’inumana pressione provocata dal cambiamento: il tutto in modo tale da estrinsecare nel corpo il dolore e l’inadeguatezza di un personaggio ibrido e naturalmente destinato alla sconfitta. D’altronde, nulla di cui stupirsi: Landis è un autentico Maestro nel rimodulare il disagio del vivere in forma visiva, attraverso gli stilemi a lui forniti dalla commedia e dall’horror e sapientemente aggiornati ai tempi. Il sodalizio con Baker non poteva pertanto che essere fecondo, essendo lo stesso artista del makeup un filologo, capace di amare e fare propria la lezione di Jack Pierce (il maestro del trucco in lattice, in forza alla Universal nel periodo d’oro dell’horror).

Pierce e Baker d’altronde possono vantare, nelle rispettive epoche, un approccio aperto al piacere del fantastico, ma che parte da una matrice decisamente realistica: non a caso, il principale intento di Baker era quello di darsi alla medicina, salvo poi trovare la propria strada nel campo degli effetti speciali di makeup. Pur essendo noto ai più per la "maschera" del lupo mannaro, Baker è peraltro curiosamente esperto nella riproduzione dei volti (e dei corpi) di scimmia, ai quali ha lavorato in varie pellicole, quali King Kong (1976), Greystoke, Gorilla nella nebbia, in senso lato in Bigfoot e i suoi amici, fino al pessimo remake del Pianeta delle scimmie dove, similmente a Wolfman, il suo lavoro pure svetta come unico punto di merito in un progetto altrimenti scellerato e dimenticabile. In questo senso possiamo pensare che l’uomo lupo sia per Baker una sorta di alternativa fantastica al naturalismo puro delle scimmie, ma anche una interessante variazione sul tema dell’uomo-bestia, matrice di tutto il suo lavoro: Baker è infatti ben distante dal Dick Smith de L’esorcista che lavora su un corpo deformato ma nel quale ancora emergono evidenti residui di umanità e parimenti lontano dal Rob Bottin che nell’ineguagliabile La cosa devasta il corpo in parti autosufficienti che spezzano definitivamente l’unicità dell’essere umano. Il suo trucco è regressivo, è più vicino a quello di Frederich March nello splendido Dottor Jekyll di Rouben Mamoulian. E ovviamente vicino all’idea di Pierce, che pure sulla struttura ossea dei suoi attori creava stravaganti creazioni in odore di cubismo (Frankenstein) o di tragico ritorno allo stadio animale (L’uomo lupo appunto).

Ecco dunque che il nuovo Wolfman si ricopre di autentici peli di yak come il modello, e si distanzia dal quadrupede mannaro a Londra per ritrovare invece la forma bipede, che gli conferisce possanza, maestosità, salvo poi abbandonarsi in una corsa a quattro zampe imposta dai successivi cambiamenti. L’aspetto selvaggio, caratterizzato da zanne e spaventosi artigli non rinuncia comunque mai alla riconoscibilità del volto e del corpo originale, apparendo pertanto non come mutazione, ma come un’autentica variazione della matrice: in questo senso il suo lavoro supera quello realizzato da Pierce, in cui il mostro, seppur straordinario e pure orientato alla riconoscibilità dell’attore, appare invece più sovrastrutturato, soffocante, meno libero nella sua mimica facciale e quasi occlusivo dell’espressività di Lon Chaney Jr.

In questo modo davvero Baker realizza a livello visivo quel senso di estraneità che affligge il Larry Talbot del 2000, caratterizzandosi come unico e autentico custode della tradizione. In attesa ovviamente di vedere un giorno davvero realizzato il suo uomo lupo (e la sua trasformazione) definitivo!

Biografia di Rick Baker da Wikipedia inglese
La pagina di Rick Baker su Wikipedia Italia
Videointervista a Rick Baker su Wolfman (in inglese)
Featurette su Rick Baker e Wolfman (in inglese)
Ottima recensione di Wolfman

Collegato:
L’uomo lupo

lunedì 8 marzo 2010

The Queen of the World

The Queen of the World

Quante volte ho scritto che da queste parti i premi e le classifiche non sono ben visti? Tante, ma poi accade inevitabilmente che quando il premio incorona una di quelle personalità che ami e permette di darle quella visibilità che spesso le era stata negata, d’un tratto tutti i pregiudizi e le noie del caso si dissolvono e resta solo una grande soddisfazione.

Oggi lo si può scrivere con forza: questo era un giorno molto atteso, dove è bello essere fan di Kathryn Bigelow, è bello pensare di esserlo stato sin dai tempi di quel capolavoro assoluto che è Il buio si avvicina. E’ bello esserlo stato quando un film semplicemente pazzesco come Strange Days la poneva all’attenzione generale ma al contempo affondava clamorosamente (e inspiegabilmente) al botteghino. Ed è bello pensare al momento in cui si era lì, a Venezia, mentre lei presentava un piccolo grande film sulla guerra in Iraq che oggi la incorona regista dell’anno (e non solo agli Oscar).

Perciò non è importante il fatto che per la prima volta un premio così sia stato vinto da una donna (ragionamento di per sé alquanto sterile) ma che sia arrivato a una grande artista, a coronamento di una carriera eccezionale, da sempre condotta con coerenza e sensibilità, all’interno dei generi, spesso in sordina, ma sempre con un’idea di cinema quale esperienza emotiva e fisica da condividere con lo spettatore.

La vittoria fa il pari con un altro riconoscimento che va a un grandissimo di Hollywood, Jeff Bridges, l’indimenticato Starman carpenteriano, l’uomo che attraversava il mondo con levità e inadeguatezza rispetto al proprio corpo tanti anni prima del Jake Sully di Avatar. A proposito del capolavoro di James Cameron: i nostri giornalisti sempre avidi di classifiche ci ricordano che è il grande sconfitto. In realtà non penso si possa parlare di sconfitta per un film che è già penetrato in maniera profonda nell’immaginario: piuttosto possiamo pensare che oggi Kathryn Bigelow raggiunge l’ex consorte diventando per una notte l’autentica Queen of the World.

Ecco, vediamola così allora: questa notte ha vinto il bel Cinema, quello dimenticato per anni e che oggi torna a noi per ribadire la sua vitalità, in una notte in cui i Grandi sono finalmente alla pari.

La recensione di Hurt Locker sul Nido

Conferenza stampa di Kathryn Bigelow dopo la vittoria (video)
Kathryn Bigelow su Wikipedia
La diretta di DVDWeb.it

Collegato:
Strange Days

giovedì 4 marzo 2010

Invictus

Invictus

Nelson Mandela, primo presidente nero del Sudafrica dopo 27 anni di prigionia, si fa carico della riappacificazione in un paese profondamente diviso fra la minoranza bianca che ha detenuto a lungo il potere e quella nera che vede in lui il baluardo per rovesciare i rapporti di forza. Profondamente determinato a riunire il popolo sotto un’unica bandiera, Mandela intravede nel campionato mondiale di rugby, che si terrà proprio in Sudafrica, l’occasione ideale per i suoi scopi. La squadra locale però è sfavorita e reduce da prove non esaltanti che lasciano temere il peggio, ma Mandela crede nelle potenzialità del gruppo, che ha in Francois Pienaar il suo capitano.

Si ricomincia insomma da dove ci eravamo lasciati, dal corpo di Clint a terra, in posizione cristologica, per dare forma a un sacrificio in grado di riappacificare le etnie del territorio circostante. La sfida è ancora quella, lasciarsi alle spalle le rivendicazioni di parte per fondare un ordine nuovo, basato sulla comunanza dell’identità e, anzi, sulla scoperta del multiculturalismo quale chiave per comprendere la ricchezza comune. L’imperativo è imparare a conoscere l’altro, come ha fatto il Mandela di un mimetico Morgan Freeman nei suoi 27 anni di prigionia, durante i quali ha imparato ad osservare i suoi carcerieri, ha letto i libri che formano il sostrato culturale dei bianchi (i cosidetti "afrikaner") e quindi ha lentamente abbattuto gli steccati che l’odio o il desiderio di vendetta avrebbero potuto innalzare fra lui e gli altri.

Il problema naturalmente è far sì che tale filosofia diventi guida per una nazione: l’aspirazione alla grandezza non è quindi soltanto quella di chi ha una prospettiva di Stato, ma quella che guarda allo Stato come al riflesso di un’umanità molteplice ma unita nel suo essere parte del reale. La Storia di Mandela diventa quindi trasfigurazione utopistica che mette in scacco le facili accuse di agiografia, poiché a Clint Eastwood l’uomo interessa come componente di una mitologia che non si incarna nel passato ma diventa modello per il presente, quello che attualmente ha così bisogno di valori a cui ispirarsi e che deve comprendere come il pericolo non sia negli altri e la ricchezza sia invece nella propria determinazione. Emerge ancora una volta la componente fordiana incentrata sulla palingenesi come (ri)fondazione di una comunità: ma con una differenza stavolta sostanziale, che dice del rapporto critico che Clint instaura con la tradizione cinematografica. Stavolta non esistono più una verità e una leggenda scisse, come non è più tempo di singoli gruppi contrapposti a una ragion di stato disumana e vile.

Ecco dunque che il film agisce su due livelli: da un lato il Mandela uomo, dall’altro il capo di Stato. In entrambi i casi la figura è oscurata da difficoltà nei rapporti personali (si pensi alla figura della figlia, sempre seminale nel cinema eastwoodiano) o politici, in una realtà che sembra presentare minacce inaspettate, dove anche gli elementi del quotidiano (un camion che consegna giornali, un aereo) appaiono come potenziali strumenti d’offesa. Identica è la condizione di Pienaar, capitano sfiduciato ma non domo di una squadra apparentemente orientata alla sconfitta: il campione è infatti anch’egli in una condizione a metà, frustrato sportivamente ma anche non aiutato nella vita di tutti i giorni da una realtà che si profila come ostile ai bianchi e da una famiglia conservatrice che considera Mandela un esempio negativo.

La ricostruzione globale passa dunque necessariamente per quella personale, attraverso questi esempi paradigmatici, e con un bisogno di comprensione reciproca che, come sempre nel cinema eastwoodiano, diventa gesto fisico: ecco dunque la sequenza fondamentale (non a caso autentico punto di svolta del racconto, sebbene così apparentemente dimessa) in cui Pienaar varca la soglia della cella in cui Mandela era rimasto rinchiuso per quasi trent’anni. Le sue mani misurano lo spazio fisico aprendosi a quella posizione cristologica fatalmente eastwoodiana che diventa quindi un autentico atto di sovrapposizione, in cui si consuma la comprensione dell’altro. La sequenza è importante anche per il gioco figurativo di evocazioni fantastiche che ha in Pienaar l'osservatore privilegiato: il campione infatti “vede” letteralmente Mandela mentre consuma i suoi anni nello spazio angusto della cella e si spacca le mani nei lavori forzati, pur restando intimamente invincibile grazie a quella poesia scritta dall’inglese (bianco quindi) William Ernest Henley e diventata la sua direttrice. Lo sguardo quindi si fonde inestricabilmente al gesto fisico, ma allo stesso tempo il gesto non piega la mente, in un gioco di rimandi incrociati che disegna la geografia del percorso umano secondo l’etica eastwoodiana.

Su questo atto realmente fondativo può dunque avere il via l’autentica fase di ricostruzione, dove Mandela e Pienaar diventano complici, completandosi reciprocamente: l’uno perché ha trovato la persona in grado di mettere in pratica la sua visione articolandola nel corpo unico della squadra, l’altro perché ha compreso la direttrice impartita da quel presidente che vede al di là delle semplici dicotomie e che vuole lasciare un segno profondo nella coscienza comune.

Invictus – L’invincibile
(id.)
Regia: Clint Eastwood
Sceneggiatura: Anthony Peckham, dal libro Ama il tuo nemico, di John Carlin
Origine: Usa, 2009
Durata: 133’

Intervista a Morgan Freeman
Morgan Freeman e Matt Damon sul film
Video intervista al vero Francois Pienaar (in inglese)
Sito ufficiale italiano
Sito ufficiale americano
Recensione di Sentieri Selvaggi
Nelson Mandela su Wikipedia
La poesia Invictus di William Ernest Henley

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