"C'è chi crede in dio o nel denaro. Io credo nel cinema, nel suo potere. L'ho scoperto da ragazzino, mi ha aiutato a fuggire da una realtà in cui ero infelice. È una delle forme d'arte più alte che l'uomo ha concepito. Credo nel suo futuro."
(John Carpenter)

mercoledì 30 luglio 2008

Hellboy – Hellboy: The Golden Army

Non paia azzardata o fuori luogo l’affermazione per cui Hellboy sta a Guillermo Del Toro come Spider-Man a Sam Raimi. Sebbene differenti, infatti, le due saghe hanno un aspetto in comune: in entrambi i casi si respira un grande rispetto per il protagonista (e il relativo mondo) nato sulle tavole del fumetto originale, ma anche una perfetta aderenza di storie e personaggi all’universo figurativo e tematico dei rispettivi autori. In questo senso non si riesce a pensare a un regista differente da Guillermo Del Toro per trasporre su grande schermo le avventure del diavolo rosso creato da Mike Mignola nel 1993 per la casa editrice Dark Horse. Già nei suoi migliori lavori, infatti, il regista messicano aveva denotato una forte tensione verso la creazione di mondi dove le forme del reale si piegavano senza soluzione di continuità, ma con piglio molto “normale”, a quelle del fantastico o della fiaba: o forse, più semplicemente, è l’elemento fantastico a trovare nello sguardo di Del Toro quella legittimazione a esistere che gli permette di apparire credibile, vero, sullo schermo senza creare conflitti con la nostra sospensione di incredulità: il miglior fantasy, in fondo, si fa così e riuscire a mantenere un perfetto equilibrio fra i due opposti (realismo e immaginazione) non è cosa da tutti.

C’è poi l’aspetto citazionista, non meno importante, che permette a Hellboy di riverberare echi, fra gli altri, da Ghostbusters e Indiana Jones, che sanciscono in fondo la natura in parte retrò dell’operazione: in effetti a ben vedere Hellboy ha poco del blockbuster. Un protagonista simpatico e irridente non è sufficiente a mascherare un ritmo che si prende i suoi tempi nella descrizione degli eventi e che pur perseguendo una logica barocca nello snocciolare mostri e scenari, non appare mai tronfio, ma anzi spesso estatico e assorto nella contemplazione di ciò che va ponendo in essere, ed evita anzi anche i più classici e fracassoni “mega scontri finali” (i duelli con i cattivi, soprattutto nel primo film, si risolvono anzi con una certa fretta). In fondo proprio un secondo possibile parallelo con il cinema di Steven Spielberg inquadra bene un altro punto della poetica di Del Toro, quello dell’affabulazione, della capacità cioè di sapere e volere meravigliare il pubblico (in particolare quello dei più piccoli) ponendo di fronte ad esso il piacere per la scoperta di un altrodove fantastico iscritto negli interstizi del reale ed esplorato con grande divertimento: la scena in cui Hellboy incontra il suo piccolo fan nel primo film in questo senso è ben più che paradigmatica.

Ecco dunque presentarsi ai nostri occhi personaggi fantastici e irresistibili: accanto a Hellboy, interpretato con ruvida ironia dal grande Ron Perlman, troviamo Abe Sapiens, cui dà corpo ed eleganza nei gesti il bravo Doug Jones, permettendo al personaggio di vanificare con poche apparizioni qualsiasi tentativo di realizzare velleitari remake del capolavoro di Jack Arnold Il mostro della laguna nera; oppure la dolce Liz Sherman, confusa e contesa compagna del protagonista capace di rovesciare la propria umanità in strumento dispensatore di morte grazie ai suoi poteri di pirocinesi; oppure ancora lo strepitoso nazista karateka Kroenen, protagonista di duelli ottimamente coreografati, che nel secondo capitolo trova un satirico corrispettivo nel petulante ma geniale dottor Johann Krauss, ma anche nell’impeto guerriero del fiero principe Nuada; il tutto fino alle creature che riecheggiano i Grandi Antichi di Howard Phillips Lovecraft (altro nume tutelare caro a Del Toro): e in mezzo il giusto spazio per approfondire i legami tra i personaggi, che conferiscono profondità alla storia e danno sostanza a un mondo messo in scena con grande passione.

La recente uscita di Hellboy: The Golden Army amplifica e puntualizza i concetti cari al regista, e l’attenzione data ai legami affettivi come motori del mondo, connotativi di un’identità che superi i limiti imposti dai ruoli e dalle realtà, crea splendidi momenti melò che vedono coinvolti Abe Sapiens e la principessa Nuala, ancora Hellboy e Liz, alternando ironia, meraviglia e commozione. E’ uno spettacolo sontuoso, quello offerto dal film, che proprio nella natura onnicomprensiva riesce a riunire la poesia malinconica del fantasy Universal (e in questo senso l’abbandono della produzione Sony appare a dir poco benefico) con il piglio creativo tipico dei grandi visionari e degli artisti che alla esaltazione della fantasia hanno dedicato la loro vita (Ray Harryhausen, Tolkien, Michael Ende). E’ grazie ad essi e a una macchina-cinema unicamente protesta verso il desiderio di infondere vita in ciò che viene creato, rendendoci partecipi delle quotidiane scaramucce e delle lotte d’onore di protagonisti e antagonisti, che la fabula ancora una volta riverbera la bellezza e il piacere del racconto. La fotografia del sodale Guillermo Navarro dà poi corpo e tridimensionalità a figure che non appaiono come mere creature digitali o frutto di tecniche di make up, ma a personaggi con i quali è possibile empatizzare, a prescindere dal loro ruolo, mentre le musiche di Danny Elfman possono fare pensare a un logico ponte con il cinema di Tim Burton (ma va ricordato che il grande compositore ha scritto anche le colonne sonore proprio dei primi due Spider-Man) anche se alcuni passaggi riportano allo splendore poetico del magnifico score di Philip Newton Howard per Lady in the Water di M. Night Shymalan.

In mezzo, ancora una volta, Del Toro, divertito e partecipe anfitrione dello spettatore lungo i percorsi di uno spettacolo che arricchisce l’immaginario dando fondo a una inesauribile vena creativa che si unisce a quella di Mignola lasciando letteralmente a bocca aperta, liberi di sognare e perdersi nell’angusto spazio dell’inquadratura, altra e più importante soglia (come le tante che i protagonisti devono varcare nel corso della storia) verso i mondi dell’immaginazione.

Una saga semplicemente indispensabile per dare nuova linfa ai sentimenti e alla capacità mitica del cinema, che quindi supera la semplice trasposizione fumettistica e merita la più alta considerazione.

Sito americano di Hellboy
Sito italiano di Hellboy: The Golden Army
Sito americano di Hellboy: The Golden Army
Sito americano di Hellboy (fumetto)
Fansite su Guillermo Del Toro

lunedì 28 luglio 2008

Ciao Daniele

Che un giorno avrei avuto il piacere di scrivere un articolo su Daniele Serra era qualcosa che dentro di me sapevo, mai avrei pensato che purtroppo sarebbe stato per ricordarlo. 32 anni, uomo e attore di teatro, ma soprattutto amico, Nato a Taranto, come recita il suo spettacolo più celebre, da lui scritto e interpretato.

Ho conosciuto Daniele all’Istituto Tecnico Commerciale “Vittorio Bachelet”, eravamo compagni di classe: lui ripeteva, io ero iscritto con un anno di ritardo e ci eravamo trovati. O meglio scontrati: nei primi tempi infatti il suo carattere era ombroso, taciturno e apparentemente votato al conflitto. Solo più tardi avrei capito che in realtà era il frutto della sua spiccata sensibilità, quella che nell’età adolescenziale porta alcuni di noi a covare una specie di diffidenza verso il mondo, del quale si sta imparando e prendere le misure. Semplicemente, Daniele stava crescendo. Prima di tutti noi.

In seguito qualcosa, giustamente, cambiò e oltre a diventare amici, in me nacque una sincera ammirazione per il suo carattere fermo ma amichevole e soprattutto per il grande entusiasmo che dimostrava verso il cinema e la recitazione. Poteva capitarti di vederlo, incurante del professore che spiegava, catalogare le schedine dei film della rivista “Ciak”; oppure raccontare entusiasta di quando, in visita sul set tarantino di Io speriamo che me la cavo aveva intuito e anticipato nella sua mente le scelte registiche di Lina Wertmuller; oppure ancora chiedere fermamente il silenzio e il rispetto dei presenti quando, in classe, si stava allestendo, un po’ per gioco, un po’ per esigenze didattiche, una scena che prevedeva un finto litigio fra fidanzati, dove lui era stato scelto per l’interpretazione maschile. E aveva preso la cosa sul serio.

Era chiaro che avrebbe fatto l’attore, la sua passione era manifesta: la mia meno. Sapeva quel che voleva e mi piace perciò pensare che in quegli stessi momenti il suo esempio sia stato per me un incentivo, che mi abbia fatto capire come si può pensare a qualcosa di diverso dalla logica familiare del ”posto fisso” per inseguire un sogno, che una passione può diventare qualcosa di così vivo da riempire le tue giornate, non un hobby ma un impegno.

E così, come è giusto che sia, lui si è dato al teatro, io alla critica cinematografica. Sapevo per questo che le nostre strade si sarebbero un giorno incrociate di nuovo, i sentieri dell’arte sono impervi ma alla fine ci conducono tutti insieme verso la stessa meta.

E così avvenne, nell’agosto del 2006, quando il suo spettacolo Nato a Taranto fu rappresentato all’arena estiva Satyrion. Appena salito sul palco Daniele era sempre lui: alto e caratterizzato da una presenza fisica non comune: in fondo lui, tra tutti noi della classe, era sempre sembrato “uno dei più grandi”. Una cosa soltanto era cambiata: la voce. Raffinata dallo studio della recitazione aveva perso le sue inflessioni meridionali ed era diventata più sicura, decisa, squillante. In linea con quella sua passione e quella vitalità che nei momenti migliori avevo imparato a conoscere.

Nato a Taranto è la storia di Daniele, ragazzo cresciuto in una città piena di contraddizioni, raccontata attraverso la sua Storia e il folklore, con l’arma dell’ironia ma anche e soprattutto dell’impegno civile, con grande partecipazione emotiva, alternando italiano e dialetto, canti popolari e una denuncia forte del degrado infrastrutturale e dell’invasiva presenza militare e industriale sul territorio. Il modello è quello del teatro di Marco Paolini, basato sulla forza della parola e dei movimenti del corpo sul palcoscenico vuoto, dove è la voce dell’attore e la sua presenza a creare la mitopoiesi, catturando l’attenzione del pubblico e interagendo con esso. Una sfida impegnativa, sintomo di un attore che ha scelto la strada meno facile, per arrivare a un contatto con il pubblico che fosse non mediato dall’impianto sovrastrutturato della rappresentazione tradizionale: Nato a Taranto si è dimostrato subito, infatti, un progetto in divenire, modificato e integrato ad ogni nuova rappresentazione con le informazioni che nel frattempo Daniele aveva fino a quel momento raccolto, perciò sempre uguale e sempre diverso. Fu un successo e contribuì a far riconciliare quel ragazzo che era “emigrato” a Roma per seguire il suo sogno, con la città che gli aveva dato i natali e che lui non aveva mai dimenticato.

E fu anche il momento in cui ci ritrovammo, lui stupito di quel compagno di scuola che non lo aveva dimenticato ed era venuto allo spettacolo dopo aver notato per strada il cartellone sul quale campeggiava la caratteristica figura di Marco Polle, vecchio simbolo di una Taranto ingenua e popolare che lui aveva voluto recuperare. Uno stupore che comprendo perché, ripensandoci a mente fredda, non ci eravamo mai frequentati assiduamente e probabilmente se oggi potesse leggere queste righe sorriderebbe nell’apprendere la considerazione che avevo di lui e il fatto che non l’avessi mai dimenticato considerandolo un amico.

A quella sarebbero seguite altre rappresentazioni ma non altri nostri incontri, rimandati a un tempo futuro dove, ne ero ancora una volta certo, ci saremmo incontrati ancora. Ma la mia previsione questa volta è risultata sbagliata. Dei tempi e dei modi della sua scomparsa non mi interessa, preferisco ricordarlo vivo e sul suo palcoscenico.

In fondo se un senso ha questo mio scritto è proprio per la voglia che ho di ricordarlo e farlo ricordare, o di farlo conoscere a chi non ha mai avuto la fortuna di incontrarlo. A questo proposito ecco una registrazione del suo spettacolo al teatro Ipogeo di Taranto, del Centro Culturale Filonide. Penso sia il modo più giusto per rendergli omaggio, salutarlo e ringraziarlo.


Daniele Serra su Wikipedia Taranto
Ricordo di Daniele sul forum di Filonide

venerdì 25 luglio 2008

Breve storia del Cinema Universale

Il cinema non è soltanto un film visto su uno schermo, ma è anche un luogo e un insieme di sensazioni legate a una precisa ritualità. Chiunque ha nel cuore almeno una visione particolare anche per il rapporto che si è stabilito fra l’opera filmica e l’insieme degli spettatori, corpo unico convenuto per assistere allo spettacolo e interagire con le sue emozioni. La visione in sala, momento di realizzazione piena per ogni cinefilo che si rispetti, è per questo un evento che, nella sua stabile reiterazione, non è mai uguale a se stesso e nei casi migliori finisce per diventare un qualcosa di non meno importante della storia impressa sulla pellicola.

Nei casi migliori capita addirittura che la sala assuma vita propria, trasudi della Storia passata e presente attraverso i ricordi di chi l’ha vissuta e finisca per connotare la vita di una città o un quartiere, donandogli un’identità e una forma. Il Cinema Universale di Firenze era uno di questi. La lontana collocazione geografica mi ha impedito di varcare materialmente la soglia di quel locale, ma la sua eco mi era giunta già da tempo, riverbero di un luogo “mitico” e noto oltre i confini cittadini per la sua particolarità.

L’Universale era un cinema d’essai, uno di quelli dove si proiettavano film programmaticamente volti ad arricchire l’immaginario popolare, uno schermo sul quale hanno transitato opere di Woody Allen, Pier Paolo Pasolini, Federico Fellini, ma anche John Landis, Totò, George Lucas, in una inebriante parata di eterogenei titoli che testimoniano di una gestione eclettica e intellettualmente vivace. Ma era anche un cinema popolare, verace, dove il pubblico era parte attiva nella condivisione dell’esperienza, con commenti forti che a loro volta costituivano un piccolo spettacolo aggiuntivo. Oggi può far sorridere pensare che l’inizio della proiezione fosse preceduto da un lancio di lattine su schermo; e allo stesso tempo l’idea che il locale fosse talmente malfamato da ammettere tossici potrebbe destare più di qualche perplessità.

La prosa particolarmente partecipe di Matteo Poggi, autore di questo libello celebrativo, è generosa nel trattare questi aspetti, che altrove definiremmo “controversi”, dell’Universale. Li considera come la naturale prosecuzione di un rapporto che il cinema intratteneva con la città, come naturale prolungamento di una vita fatta di contraddizioni. In questo senso è davvero esaltante notare come il libro, più che raccontare fedelmente e rigorosamente la storia di questo locale poi chiuso nel 1989, procede per piccoli aneddoti agganciati a una struttura sommariamente divisa in capitoli tematici (Dove si trovava l’Universale?; Che film c’è stasera?; Esce la protesta, entra il calcio; Semplicemente Romanone). L’incedere è libero, scandito dal tipico eloquio fiorentino, che alterna espressioni popolari e termini “forti”: a volte il racconto si sgancia completamente dalla sala per seguire i fatti all’esterno, creando un effetto spiazzante che può apparire anche confuso, sterile nella sua nostalgia, eccessivamente pindarico. In realtà quel che Poggi vuol chiaramente fare intendere è come l’Universale in sé propagasse e completasse le vite dei suoi avventori e quindi il racconto delle sue “gesta”, pieno di ironia e affetto, non vuole creare una reale dicotomia fra la vita dentro e fuori la sala, ma suggerire che la stessa formasse con il suo pubblico e con l’intero quartiere un tutt’uno.

Si crea quindi un gioco di rispecchiamenti che annulla la distanza fra interno e esterno e da questo punto di vista Poggi è bravo a mantenere l’equilibrio fra racconto di vita e cinefilia: il film è sullo sfondo, può apparire a torto un inutile orpello, ma in realtà ci si rende conto che è sempre centrale, è spesso il motore scatenante del fatto e comunque non è immune dal lanciare una sua influenza sugli eventi e dal creare un immaginario. Un elemento che commenta e caratterizza la vita di una comunità che si riconosce nella natura aggregante dell’andare al cinema e crea perciò una dialettica interessante fra lo schermo e il pubblico, fra la vita su pellicola e quella del quotidiano.

“Era un avvenimento, era talmente forte l’emozione di violare un luogo sacrilego, un posto per uomini duri che ancora ho nitido in me il ricordo, sensazione di far un qualcosa di più grande di me, un’impresa da vantarsi con gli amici…” racconta Poggi nella dedica finale ed esattamente come accadeva negli interni dell’Universale, con le sue sedie in legno, lo “schermo rattoppato” e i cessi che puzzavano, qualcosa di quella magia arriva anche a noi, facendoci rimpiangere di non aver potuto varcare quella soglia, sfuggire alle grandi mani della maschera Romanone e vivere l’esperienza di un cinema urlato ma vitale.

Il libro pertanto diventa importante non soltanto per quello che è (un lavoro semplice e di agile lettura) quanto per ciò che naturalmente rappresenta: la testimonianza più vera di un periodo storico in cui la sala era l’elemento centrale di una vita vissuta nel pieno del quartiere, in aggregazione, dove il cinema polarizzava l’attenzione. E dove autori oggi considerati d’élite da un pubblico svogliato e poco curioso erano patrimonio di vaste platee: arte popolare nel senso più pieno e vero del termine. Come nel “Cinema Paradiso” di Giuseppe Tornatore, come dovrebbe essere sempre per far comprendere il sottile piacere della visione nel buio, quando si è contemporaneamente da soli e in compagnia.

Breve storia del Cinema Universale
Scritto da: Matteo Poggi
112 pagine, 8 euro
Edizioni Polistampa

Sito del Cinema Universale
Il libro sul sito delle Edizioni Polistampa
Matteo Poggi sul sito delle Edizioni Polistampa
Sito di Universale, il pub che ha sostituito il cinema

mercoledì 23 luglio 2008

The Descent: Discesa nelle tenebre

Un anno dopo aver perso il marito e la figlia in un terribile incidente stradale, Sarah viene invitata a trascorrere una vacanza nei monti Appalachi, in America, con un gruppo di cinque amiche: lo scopo sarà quello di visitare alcune caverne sotto la guida dell’esperta Juno. Per dare un tocco di imprevisto all’avventura, però, Juno sceglie un complesso di grotte ancora inesplorato, nel quale le ragazze si ritrovano ben presto prigioniere. La ricerca di una via d’uscita diventa ben presto una lotta per la vita, perché quelle caverne sono abitate da mostruose creature, forse antichi e sconosciuti esploratori che si sono evoluti per vivere nell’oscurità cibandosi di carne umana. Nel corso dell’odissea Sarah dovrà anche fare i conti con il suo passato.

Il cinema horror vive letteralmente di folgorazioni nel buio e attraverso il buio tenta di veicolare i suoi archetipi: è nella capacità quindi di veicolare questa potenza espressiva che si può manifestare un cinema pulsante di vitalità. Neil Marshall lo sa e ha le idee chiare. D’altronde tutta la sua opera appare al momento come una riflessione sugli stereotipi di genere, che il director inglese manovra con scioltezza ma anche con determinazione, avendo ben chiaro il suo obiettivo. Accade quindi che The Descent si riveli un film che non rinnega le possibili implicazioni psicanalitiche (la caverna come simbolo di regressione uterina) o comunque tutti i possibili livelli metaforici del caso, ma il suo istinto primario è quello di suscitare reazioni immediate, fisiche se possibili. Quindi paura, ribrezzo, orrore.

In questo senso il talento di Marshall è a dir poco sbalorditivo, la sicurezza con cui la storia viene messa in scena è quasi ostentativa, sfacciata nella sua lucidità, e la progressione non perde colpi, mozzando il fiato, facendo sobbalzare sulla poltrona, avvincendo. Allo stesso tempo la sceneggiatura, nella sua evidente e giusta semplicità, riesce a tessere bene i vari fili di cui si compone la trama esplorando con cognizione di causa i legami fra le varie protagoniste: anche in questo caso i possibili livelli di speculazione interpretativa sono presenti e legittimi, ma non inficiano la struttura di genere con tanto di colpi di scena e rovesciamenti di prospettive. In particolare il problematico legame fra Juno e Sarah regala momenti molto gustosi e Marshall è bravissimo a giostrare le dinamiche che di volta in volta si instaurano fra le due lasciando allo spettatore ampi margini di interpretazione: il rancore di Sarah è motivato? L’istinto protettivo di Juno è sospinto dal desiderio di mettere a tacere i propri sensi di colpa oppure da umana empatia? La bravura della sceneggiatura sta proprio nello sfruttare queste possibili domande in relazione all’evento principale (la fuga dai mostri) amplificando in questo modo la suspense e, soprattutto, il disagio.

Già, il disagio: quello che si prova spesso durante la visione, non solo per l’ovvia incapacità di comprendere la portata del pericolo, ma anche e soprattutto per la regressione a un livello primitivo, bestiale, delle protagoniste. Una “discesa” che Marshall dipinge con uno sguardo epico, assecondandola con un montaggio velocissimo e infallibile, facendoci partecipi di una furia che diviene puro slancio dei sensi, fisicità bruta. Ma propria questa totale mancanza di inibizione rovescia di segno parte dell’euforia giungendo al disagio, alla consapevolezza che quelle donne, in quella grotta, stanno perdendo anche la loro umanità: lo sguardo allucinato di Sarah e la freddezza dei suoi colpi in questo senso sono paradigmatiche. La lucidità con cui colpisce Juno è l’opposto della casualità con cui l’amica/rivale aveva a sua volta colpito Beth.

Oltre questi intrecci c’è la caverna con i suoi abitanti: un luogo anch’esso foriero di sensazioni opposte, affascinante eppure inquietante e pericoloso. Che esploriamo con sguardo avido, ma che allo stesso tempo ci inquieta con gli orrori in essa celati: le distese di scheletri, le pozze di sangue, le rifrazioni della luce che descrivono interni dal sapore quasi magico o spettrale. La fotografia di Sam McCurdy in questo senso è davvero superba, anche e soprattutto se consideriamo che il film non è stato girato in location naturali, ma in uno studio, dove l’intero ambiente roccioso è ricostruito (e l’effetto per questo risulta ancora più incredibile!).

Come già precisato, in fondo, The Descent è un film tecnicamente davvero potente, nel quale Marshall dimostra di conoscere i modelli e di saperli sfruttare a suo piacimento: si potrebbe quindi citare il bellissimo score carpenteriano, i violenti effetti speciali, ma alla fine è preferibile concentrarsi sul cast interamente femminile (ovviamente mostri esclusi). La fiducia che intercorre fra regista e attrici è palese, le interpreti si concedono al ruolo con spontaneità e grande energia, dimostrando la complessità dell’universo femminile, la sua fragilità ma anche la sua forza, sia emotiva che fisica.

Un film dunque brutale, serio, che arriva a tangere la forza primaria dell’animo umano pur restando un “semplice” prodotto spettacolare: opposto per molti versi al precedente film di Marshall, Dog Soldiers (sul quale certamente si tornerà più avanti), e che sarà interessante confrontare con il nuovo Doomsday, di prossima uscita nelle sale italiane.

The Descent: Discesa nelle tenebre
(The Descent)
Regia e sceneggiatura: Neil Marshall
Origine: Uk, 2005
Durata: 95’

Intervista a Neil Marshall
Sito ufficiale inglese
Sito americano
Pagina MySpace di Neil Marshall

lunedì 21 luglio 2008

Haze: Il muro

Un uomo è solo. Prigioniero e ferito. Senza evidenti vie d’uscita. Stretto in un’intercapedine che come un labirinto sembra non avere fine, ma nasconde a ogni angolo e ad ogni snodo delle trappole. Una serie di inferni concatenati tra loro e caratterizzati da sofferenze. Non sa com’è arrivato lì né perché. Tutt’intorno corpi smembrati, ciò che resta di chi lo ha preceduto. Durante i suoi tentativi di uscire vivo da questa incredibile situazione ha delle visioni. Ma a un tratto un’altra persona, una donna, si ritrova con lui nella stessa situazione e i due tentano di percorrere insieme la via che forse li porterà alla salvezza. O forse alla comprensione. Se non semplicemente alla morte.

Quando fu presentato per la prima volta in Italia al Torino Film Festival 2005, Haze era parte del progetto “Digital Short Films by Three Filmmakers” promosso dal festival internazionale di Jeonju (Corea) che prevedeva, per l’appunto, tre cortometraggi, affidati ad altrettanti registi (gli altri due erano il coreano Song Il-gon e il thailandese Apichatpong Weerasethakul). In quell’occasione la durata era di soli 25 minuti, che però furono più che sufficienti per folgorare la platea e rivelare come Shinya Tsukamoto restasse e resti un talento ben restio dal farsi incasellare in una categoria ben precisa, al punto che il film, pur inserendosi nel solco dei suoi precedenti lavori, per il resto se ne distanziava alquanto, aprendo nuove interessanti prospettive nella sua poetica.

Successivamente Haze ha assunto la sua forma definitiva di mediometraggio da 48 minuti (e come tale è stato presentato al Festival di Locarno ed è poi giunto a noi in DVD) ampliando alcuni spunti narrativi e raggiungendo una dimensione che non disperde l’impatto viscerale e simbolico della prima versione, ma allo stesso tempo precisa e analizza con maggiore compiutezza alcuni elementi rimasti suggeriti in precedenza. Ciò che comunque conta è che la visione rimane un’esperienza fisica come poche, lancinante, spossante (chi soffre di claustrofobia farebbe bene ad astenersi), semplicemente dolorosa: il protagonista (interpretato dallo stesso Tsukamoto), durante il suo viaggio nei vari inferni che, barkerianamente, attentano alla sua integrità fisica sottoponendolo a un continuo supplizio e una sorta di conoscenza progressiva del dolore, riflette sullo spettatore le proprie angosce e il continuo stimolo cui tutti i suoi sensi sono sottoposti. Il particolare degli occhi spalancati nello spavento, ma anche nel tentativo di comprendere i confini dell’inferno dove l’uomo è sprofondato, allo stesso tempo ci atterrisce e ci guida, ci spinge a desiderare di “vedere di più” per poter magari razionalizzare un bombardamento dei sensi altrimenti troppo forte.

Ogni artificio cinematografico è dunque proteso a prolungare questa dolente estasi: la sporcizia della fotografia digitale, che impasta i contorni e conferisce allo spazio una opacità che lo rende inafferrabile, il sonoro che amplifica lo stridere dei denti sul metallo, le sensazioni quasi tattili che si provano vedendo le dita del prigioniero scorrere sulla ruvida superficie del muro in cerca di un’apertura, una via di fuga, fino al dolore palpabile della pelle graffiata dai chiodi o colpita da un pesante martello.

La semplicità dell’assunto è condotta con sicurezza al punto da far compiere il naturale processo evocativo che innesca nello spettatore possibili incroci con altre opere, altro possibile tentativo per razionalizzare l’esperienza: si pensa così al film-trappola stile Cube, o ancor più ai bambini de La casa nera di Wes Craven, costretti a vivere nelle intercapedini dell’abitazione: in fondo, sebbene maggiormente sganciato dal contesto urbano a lui caro, ancora una volta Tsukamoto riflette come il corpo sia la cartina di tornasole per comprendere i mutamenti dell’animo nella società in continua mutazione. Per questo stavolta la prigionia e la tortura divengono metafora dell’essere stabilmente prigionieri in una realtà che opprime e rende impossibile il raggiungimento della felicità: il dialogo con la compagna di prigionia (l’ottima Kaori Fujii, già in Tokyo Fist) esplicita infatti questi timori, ed evidenzia come il mondo esterno non sia meno claustrofobico, limitante e doloroso dell’inferno nel quale entrambi sono precipitati.

O ancora si pensa che Haze è stato realizzato poco prima di Hostel, con il quale condivide l’idea della tortura come linguaggio di un mondo (e il protagonista infatti pensa di essere vittima dei desideri di qualche ricco sadico); eppure mai distanza fu così maggiore dal più blasonato titolo americano, poiché qui la ricerca del dolore è messa al servizio di una visione d’autore completa e affascinante, che oltre a restituire maggiormente il sapore dell’incubo accumula simboli e suggerisce soltanto le spiegazioni, lasciando però grande margine di interpretazione alla discrezione del pubblico.

Ecco dunque che lo sbandamento si allunga oltre i confini dei cinque sensi per investire in pieno la sfera dell’irrazionale, dell’ipotetico, e arriva a titillare l’anima: non è soltanto la durezza delle torture e il tema della carne martoriata e umiliata a stordirci, ma anche la consapevolezza di non avere davvero chiavi interpretative per comprendere cosa sta accadendo. Le visioni del protagonista, per quanto ammantate di una caratura meravigliosa che con le sue tinte accese spezza la monocromia dell’ambiente buio, appaiono per questo dolenti e inquiete, ma ci forniscono un momentaneo appiglio, ci fanno tirare fiato, e quando svaniscono quasi ci fanno sentire abbandonati, traditi; sono però i piccoli momenti di solidarietà che si stabiliscono con la prigioniera a darci un respiro di calore più vero nell’oscurità, a farci credere nella possibile costruzione di un legame che dia senso al mondo renda e liberi dalla prigionia.

Il finale perciò, sebbene continui a lasciare oscuri molti punti, sembra proprio rivelare come lo sprofondare nell’esperienza abbia attinto proprio dall’oscuro dell’anima che conduce alla contrapposizione fra ogni persona; e che allo stesso tempo l’attraversare l’Ade sia stato utile per comprendere gli errori e ricominciare (forse) daccapo. Non a caso proprio qui avviene anche la riconciliazione con lo spazio, con la familiarità degli elementi, ancora una volta toccati, sfiorati, per avere la sensazione tattile del loro esserci: se però sia un lieto fine questo sta allo spettatore deciderlo.

Haze: Il muro
(Haze)
Regia e sceneggiatura: Shinya Tsukamoto
Origine: Giappone, 2005
Durata: 48’

Sito ufficiale giapponese
Ritratto di Shinya Tsukamoto

sabato 19 luglio 2008

Gli incredibili

In un mondo che ha rifiutato i supereroi, costringendoli ad appendere la calzamaglia al chiodo per vivere una vita da normali cittadini, Robert Parr (alias Mr. Incredibile) lavora come impiegato ed è frustrato dal non poter più lottare per la giustizia. Per amore di sua moglie Helen (alias Elastigirl) accetta con dolore di condurre quell’esistenza grigia e di impartire ai figli Flash, Violetta e Jack-Jack un’educazione che li spinga a non usare mai i loro poteri. L’occasione per un ritorno ai fasti di un tempo, però, arriva quando una misteriosa organizzazione segreta richiama in servizio Mr. Incredibile per compiere alcune avventurose operazioni. L’eroe non rivela nulla a sua moglie e ai figli, ma quando i veri e malvagi fini dell’organizzazione vengono a galla tutta la famiglia sarà costretta a unirsi e a utilizzare i poteri di ognuno contro il nemico.

 
Il lavoro dei Pixar Animation Studios è ormai simbolo di alta eccellenza nel mondo dell’animazione (digitale e non) e rappresenta una realtà felicissima dei nostri tempi: va però aggiunto che, come sempre accade con i prodotti “da Studio”, il marchio rischia di sopravanzare ingiustamente il nome dei singoli registi che dirigono ogni film e questo è ancora più grave se l’uomo in questione è Brad Bird, talento nato all’esterno dello Studio e che con pochi lungometraggi è seriamente candidato a diventare uno dei veri Maestri dell’animazione contemporanea. Con Gli incredibili, ad esempio, Bird è riuscito a unire la classica tradizione Pixar (erede di quella della grande Disney) con alcune ossessioni molto personali: l’idea di base, infatti, come già nei precedenti lavori dello Studio, prende in analisi una tipologia di personaggi inseriti in una categoria ben definita, i Supereroi, che si aggiungono quindi ai giocattoli di Toy Story, agli insetti di A Bug’s Life, ai mostri di Monsters & Co e ai pesci di Alla ricerca di Nemo; Questo schema omogeneo non impedisce però all’autore americano di compiere una ricerca sul tema dei ruoli e dell’identità all’interno della società, già centrale nel suo precedente Il gigante di ferro e che troverà spazio anche nel successivo Ratatouille.
 
Quello che abbiamo di fronte è infatti un dramma esistenziale condito con le armi dell’ironia, dove l’odissea umana dell’eroe frustrato diventa anche una sottile satira della società che promulga un conformismo oppressivo, rinunciando alle sue eccellenze in nome di una uguaglianza formale, dove peraltro sono poi i più perfidi individui a dettare le regole (si veda l’odioso personaggio del capufficio).
 
Il lavoro di Bird però trova particolare merito soprattutto se consideriamo quanto il messaggio sia veicolato meravigliosamente attraverso la forma con cui è raccontata la storia e, soprattutto, attraverso il rapporto consapevole con la tradizione del fumetto (e del cartoon) americano di supereroi: inevitabilmente torna alla mente l’epocale graphic novel di Alan Moore e Dave Gibbons, Watchmen, che per prima ha decostruito negli anni Ottanta il mito dell’eroe mascherato evidenziandone le frustrazioni esistenziali; il tutto portando alle estreme conseguenze la formula del “supereroe con superproblemi” già cara alla Marvel Comics e agli autori come Stan Lee (il riferimento ideale sono ovviamente I Fantastici 4): Gli incredibili è figlio di tutte queste realtà, ma allo stesso tempo aggiunge del suo, ricontestualizzando la figura del supereroe problematico e frustrato, nella forma (e nella sostanza) narrativa tipica della “situation comedy” televisiva, dalla quale sono ripresi tempi e moduli espressivi. Possiamo quindi affermare che Gli incredibili rappresenta una felice sintesi fra Watchmen e I Simpson per la capacità con cui riesce a elevare il tema dei supereroi a metafora della vita familiare.
 
Gli stessi poteri dei protagonisti in questo modo divengono metafora del loro ruolo all’interno del nucleo familiare: il forzuto Mr. Incredibile rappresenta l’uomo che deve farsi carico del mantenimento della famiglia; il corpo elastico di sua moglie Elastigirl metaforizza la necessità di essere versatile per far fronte ai problemi connaturati all’educazione dei figli; l’invisibilità di Violetta è un chiaro riflesso della sua timidezza e della sua sindrome da Brutto Anatroccolo, mentre la super-velocità di Flash è l’emblema puro della sua esuberanza giovanile. Di fronte a una società che chiede loro di rinunciare ai ruoli del passato e alle proprie peculiarità per spegnersi nell’indifferenziata normalità del presente, i protagonisti non possono quindi che passare per un processo di maturazione che li porti a essere contemporaneamente uomini ed eroi, accettando le contraddizioni interne al loro status, scontrandosi contro chi vuole privarli della loro identità (simboleggiato dal cattivo di turno) per gestire al meglio i vari aspetti della loro vita, come testimonia il finale aperto.
 
La dicotomia fra i due estremi (la normalità e il supereroismo) si ritrova poi nella contrapposizione fra il grigiore della città e l’estetica pop che il film cavalca passando in rassegna generi tipici della serialità anni Sessanta: in particolare le sagome stilizzate tipiche dei cartoon di Fritz Freleng o dei titoli di Saul Bass, ovviamente l’estetica iper colorata del fumetto, e la figura del Supercattivo sull’isola che riecheggia i criminali di James Bond. Ecco dunque che in questo modo la ricerca dell’identità dei suoi protagonisti, cara a Bird, diventa anche un viaggio verso un Eden perduto ma ancora vitale, nei cui meandri si nasconde il più trascinante emblema dell’avventura. Quella che domina massicciamente nello scoppiettante finale e che contribuisce a rendere Gli incredibili un film completo e appassionante, meritatamente premiato con l’Oscar 2005.
 
Per concludere, una preghiera: che Brad Bird e la Pixar ci regalino al più presto un sequel, magari utilizzando proprio quel nuovo nemico che fa capolino nel finale, il Minatore!

 
Gli incredibili
(The Incredibles)
Regia e sceneggiatura: Brad Bird
Origine: Usa, 2004
Durata: 115’
 

giovedì 17 luglio 2008

Visitors

Chi l’ha vissuta in diretta la ricorda come un evento, e di certo la trasmissione televisiva di Visitors è stata un grande successo commerciale, ma forse in pochi ne hanno compreso il valore e la lezione che ancora adesso ci testimonia di un momento di grande televisione. Oggi infatti si può tranquillamente affermare che il serial creato da Kenneth Johnson è stato uno spartiacque, che ha ricontestualizzato il soggetto dell’invasione aliena nella contemporaneità e nella società dell’immagine, sfruttandolo come metafora di temi immortali quali il Potere, il razzismo e l’ossessione dell’apparenza.

Le due miniserie originali (V e V: The Final Battle), realizzate rispettivamente nel 1983 e nel 1984, ci introducono infatti a un mondo che ancora non si è lasciato alle spalle i cascami della fantascienza classica, che sta ridefinendo i propri canoni estetici, ma che già ha compreso come la battaglia si vinca prima con la propaganda e poi con la potenza militare. In quest’ottica è assolutamente logico che gli invasori non arrivino con la forza delle armi, ma con le lusinghe dell’amicizia e della collaborazione e assumino immediatamente un ufficio stampa per i loro persuasivi proclami in mondovisione; ed è altrettanto giusto che a scoprire il loro aspetto di rettili (celato dietro perfette maschere) sia un reporter televisivo, che poi diventerà il leader di una Resistenza finalizzata a svelare al mondo, in diretta tv, chi si nasconde dietro il volto benevolo dei soldati in tuta rossa che hanno tappezzato le strade di ogni città di cartelli che inneggiano all’amicizia universale.

Nelle intenzioni di Kenneth Johnson il serial intende descrivere le possibili derive fascisteggianti di un regime che attecchisce nell’America democratica dove mai una dittatura è riuscita a instaurarsi, e diventa più in generale non solo un inno alle forme di Resistenza di ieri e di oggi, ma anche una acuta riflessione sui pericoli della Propaganda e sull’immaginario che le stesse Resistenza e Propaganda hanno naturalmente creato.

Ecco dunque che gli alieni vengono accolti con la marcia di Guerre Stellari, che la loro presenza dà vita a un fiorente merchandise fatto di giocattoli e modellini, mentre un giovane protagonista si lamenta perché il loro aspetto non è quello dell’E.T. spielberghiano e scrittori come Ray Bradbury vengono intervistati dalla tv a mo’ di opinionisti: in questi pochi eventi Johnson già mette lo spettatore di fronte all’evidenza che l’incontro con una civiltà extraterrestre non può non essere filtrato attraverso l’immaginario che il genere fantascientifico ha naturalmente sedimentato nella mente di ogni terrestre. Di come quindi la nostra mente sia incapace di prepararsi a una elaborazione critica rispetto a un evento inatteso perché troppo preoccupata di far aderire la realtà alle regole codificate dallo spettacolo.

Che la guerra sia interamente una questione di punti di vista, di verità da svelare e di inganni da smascherare è in fondo chiaro sin dalla primissima inquadratura di V: una soggettiva di Mike Donovan, che attraverso la sua camera a spalla tenta di documentare una guerra civile in El Salvador (poi interrotta dall’arrivo delle navi aliene). Il punto di vista è quindi il nodo focale per la Resistenza, anch’essa non immune da un immaginario proprio, che però si rivela decisamente più virtuoso di quello caro all’uomo assoggettato ai nemici. Ecco dunque che il primo a comprendere le macchinazioni dei Visitatori è Abraham, straordinario personaggio di anziano ebreo sopravvissuto ai campi di sterminio nazisti, l’unico che quindi capisce la posta in gioco e la necessità di resistere perché “altrimenti non abbiamo imparato niente”. E sarà proprio lui a creare il simbolo della “V” rossa che animerà la resistenza in nome della Vittoria. Insieme a lui vanno ricordati anche il giardiniere ispanico Sancho, il cui nonno ha combattuto con Zapata, e anche un prete che è stato testimone dei crimini perpetrati dai bianchi in Sudafrica.

Si palesa quindi una dicotomia fra un immaginario ripiegato in maniera inerte sui modelli codificati dallo show-business e uno invece vitale e virtuoso figlio della Storia, che trae forza dalla memoria collettiva come elemento unificante di uomini in lotta per la fratellanza universale, non falsa e meschina come quella dei Visitatori, ma reale e in grado di unire i popoli nel lirico finale di V: The Final Battle. Anche per questo il prosieguo della serie cerca di porre i protagonisti di fronte a conflitti interni alla loro comunità, che spesso vedono contrapposti genitori e figli: nello scontro generazionale si cela quindi la chiave del rapporto fra l’uomo e la sua memoria, per la ricerca di una verità condivisa che apra le porte a una pace reale fra i popoli contro ogni oppressione.

I presupposti sono ben esplicati nelle prime puntate della serie, laddove nelle ultime ci si abbandona maggiormente, per ovvi motivi di climax narrativo, a una maggiore adesione ai temi del fantastico, e quindi fanno capolino effetti speciali oggi primitivi e invenzioni fantastiche (come il mostruoso bimbo alieno o le psichedeliche tecniche di condizionamento mentale perpetrate dagli alieni ai danni dei prigionieri umani). Rimane però viva e forte una scrittura di ottimo livello, in grado di sfruttare ogni spunto in modo intelligente per dare vita a una storia compatta e coerente. La regia di stampo televisivo, tipica della serialità anni Ottanta, riesce per una volta a non apparire sciatta, ma funzionale al realismo ossequiato dalle tematiche della storia e per questo amplifica l’idea di una serie ben orchestrata.

La recente uscita in DVD della due miniserie originali e della successiva serie tv di 19 episodi permette quindi di riscoprire oggi un meritato cult, relegato erroneamente nei polverosi meandri della nostalgia e invece ancora in grado di riverberare la sua vitalità.

Sito di Visitors Italia
Gli episodi della due miniserie V su Wikipedia
Gli episodi di Visitors serie tv su Wikipedia
Servizio di Canal Jimmy dedicato a Visitors
La sigla di Visitors serie tv su You Tube

martedì 15 luglio 2008

5 è il numero perfetto

Un’opera felicemente universale nonostante si iscriva in un momento storico preciso e in una realtà ben specifica: d’altronde ci troviamo di fronte a un fumetto (o meglio a una graphic novel) che pur rivendicando in ogni tavola una natura a metà strada fra il noir e l’onirico, appare anche immediatamente concreto, reale, palpitante di vita. E’ quell’unione di opposti che fa sussultare il cuore e rende immediatamente chiaro come si sia di fronte a un qualcosa di significativo.

5 è il numero perfetto perché rappresenta le cinque parti del corpo: due braccia, due gambe, una testa e sintetizza perfettamente come il centro del racconto sia l’uomo, in particolare un anziano guappo della Napoli inizio anni Settanta, Peppino Lo Cicero, ormai lontano dai giochi delle parti che hanno insanguinato la capitale partenopea nell’infinita odissea della guerra fra bande malavitose per il controllo del territorio. Il lavoro, come nella più classica delle tradizioni artigianali, è stato ora trasmesso al figlio, che lo porta avanti in modo metodico, impiegatizio, ma una sera, inaspettatamente, viene ucciso dalla sua vittima designata. Per Peppino Lo Cicero giunge così il momento di tornare in pista per vendicare il suo erede, in una sfida contro vecchi amici e nemici che gli faranno riassaporare il sapore del passato, ma anche capire gli sbagli e le ingenuità di ieri e di oggi.

Per raccontare i sentimenti che agitano i suoi protagonisti Igort adotta una prospettiva che di volta in volta si avvicina e si allontana dai luoghi e dalle emozioni in campo: è quasi verista nell’uso del dialetto napoletano, ma è assolutamente apolide nel mondo che disegna, dove non cerca scorci tipici della Napoli più nota, ma crea invece un universo dai contorni indefiniti, dove l’ambientazione partenopea è sfruttata quasi soltanto per le iconografie che riesce a garantire (l’invadenza dei simboli religiosi, le case piccole e costruite quasi una sull’altra): addirittura potremmo essere in un'altra città e dobbiamo aspettare parecchie pagine per vedere uno scorcio tipico dei vicoli del centro storico che ci rassicuri. Prima c’è solo pioggia, come in un polar e un impasto di bianchi e neri che definiscono lo stile prediletto dall’autore, il bicromatismo.

In realtà bisognerebbe usare il termine “tricromatismo”, perché Igort al canonico bianco e nero (un nero spesso, denso, che ha la consistenza della pece e che definisce ma volutamente anche soffoca il quadro) accompagna una costante sfumatura grigio-azzurra, quasi metallica, che conferisce agli spazi e anche alle figure anche una certa trasparenza, incorporeità.

In questo modo la storia si apre a una porosità che le permette di incorporare, nonostante la sua immaterialità, archetipi ben definiti: ecco dunque le sparatorie dove si utilizzano due pistole (come nel cinema d’azione di Hong Kong), i fumetti di supereroi e antieroi “neri” italiani o il cinema che proietta un vecchio film di arti marziali. E la griglia utilizzata per la divisione delle tavole in vignette non è rigida, ma anzi è utilizzata secondo le esigenze del momento, frantumata in micro-vignette che focalizzano l’attenzione su piccoli dettagli in sequenza, che “fermano” particolari altrimenti destinati a essere travolti dalla storia e dall’incedere degli eventi. Fino ai momenti più dichiaratamente onirici e visionari, dove i contorni sfumano e le simbologie prendono il sopravvento.

Un noir complesso e dalla qualità pittorica, quindi, dolente nell’incedere nonostante un’ironia che corre sottotraccia senza abbandonare mai i personaggi, quasi a voler descrivere l’assurdità di un mondo normalizzato sulle logiche della violenza e su un sistema di regole tanto arcaico quanto privo di reale senso e soprattutto di umanità: il modo migliore in fondo per mantenere quello sguardo allo stesso tempo coinvolto e distante che rende l’opera magistralmente narrata, perfettamente immersa negli umori della vicenda ma al contempo distaccata, disillusa, pronta a rivelare i cambiamenti di fronte e i risvolti più inaspettati e che per questo ritrova in quell’inestricabile groviglio di emozioni e doveri la cifra di quell’umanità altrimenti perduta. Il che inevitabilmente conduce alla parabola personale di Lo Cicero, non un boss ma una pedina dell’organizzazione, legato ai ricordi di un passato lontano e idealizzato (la moglie defunta è rievocata con ali di angelo) che deve fare i conti con un presente dove tutto è cambiato salvo rendersi conto alla fine proprio dell’assurdità delle regole, della necessità di un gesto di pietà che tenti di riscattarlo e che gli faccia capire chi sono gli amici sui quali fare affidamento.

Davvero un personaggio emozionante, come in fondo emotivamente molto forte è tutta la storia raccontata nei capitoli (ovviamente anch’essi cinque), concepiti, in ossequio all’universalità del lavoro, in giro per il mondo: l’ispirazione venne infatti a Igort mentre si trovava a Tokyo, nella prima metà degli anni Novanta, per poi prendere forma tra Indonesia, Italia e Francia. In mezzo i problemi editoriali del primo marchio che aveva accettato di pubblicarla (Phoenix) e infine l’approdo in forma integrale presso le edizioni Coconino (fondate dallo stesso Igort): in tutto quasi un decennio di lavoro, fortunatamente ripagato da una folta attenzione che ha reso l’autore uno dei nostri più apprezzati artisti, e poi pubblicazioni anche in molti paesi esteri e un progetto per una prossima trasposizione cinematografica. Nel frattempo chi volesse colmare la lacuna e recuperare il fumetto non perda tempo, ne vale la pena.

5 è il numero perfetto
Scritto e disegnato da: Igort
Pubblicato da Coconino Press e Rizzoli
176 pagine
1994-2002

Intervista a Igort
Sito di Igort
Blog di Igort
5 è il numero perfetto in mostra al Comicon 2007

venerdì 11 luglio 2008

Collateral

Max fa il tassista a Los Angeles da 12 anni: un lavoro che però gli appare momentaneo, finalizzato unicamente a raccogliere i fondi per dare vita a un servizio di noleggio limousine. Una sera, dopo aver ospitato nel suo taxi l’affascinante procuratrice Annie, Max conosce Vincent, affabile, vincente, con il piglio dell’uomo d’affari, che lo convince a portarlo in giro per la città per concludere alcuni contratti. Troppo tardi Max si rende conto che il suo cliente è un killer e che il suo viaggio per Los Angeles è finalizzato ad eliminare i testimoni di una causa sostenuta proprio da Annie. Inizia così una lunga notte di tensione, scandita dal difficile rapporto che inevitabilmente lega Max a Vincent.

Da tempo siamo abituati a pensare a Michael Mann come a un grande regista in grado di elevare le forme del cinema noir a una statura tale da dare vita a un’epica metropolitana. Collateral in questo senso non fa eccezione e riesce a trarre, da una sceneggiatura di buon livello ma che in altre mani avrebbe dato vita a un thriller alquanto convenzionale, un autentico capolavoro. Gli snodi della storia pongono in essere un confronto fra due protagonisti attraversati da una sorta di specularità, come i due lati della proverbiale medaglia: entrambi brillanti nel loro lavoro, affabili nei modi, dediti alla rispettiva causa, capaci di muoversi in maniera disinvolta nello spazio di cui sono assoluti dominatori (quello degli ambienti chiusi per Vincent, della strada per Max) e anche caratterizzati da un rapporto non facile con i familiari (il padre violento per l’uno, la madre brontolona per l’altro). Ciò che è diversa è la loro attitudine verso il mondo, nei cui confronti il tassista è indeciso, incastrato in un ruolo di spettatore che lo pone ad aspettare sempre una futura occasione forse destinata a non vedere mai la luce; il killer invece è aggressivo, capace addirittura di slanci di rabbia degni di un animale feroce (come il coyote che a un tratto compare sul percorso del taxi in una splendida scena dal sapore onirico) e risoluto a portare fino in fondo la sua missione. Addirittura nonostante entrambi pianifichino le rispettive esistenze con grande meticolosità, sfruttando un computer per catalogare le informazioni a loro care, la sensazione più forte è che Max sia in parte vittima degli eventi, mentre Vincent riesca ad adattarsi alle situazioni, a improvvisare e “seguire il flusso”, accetti cioè quella percentuale di rischio che il titubante Max non riesce invece ad accollarsi. Questo perché Vincent, in quanto personaggio attivo nei confronti della realtà, ne conosce il lato più oscuro, l’avidità che spinge all’assassinio ma anche l’indifferenza che impedisce a un uomo morto nella metropolitana di ricevere soccorso in un tempo ragionevole.

E’ chiaro pertanto che la notte trascorsa a confronto con un simile individuo costituisce per Max una esperienza formativa che gli permetterà di maturare alcune caratteristiche vincenti e lo spingerà a mollare il lavoro perennemente temporaneo per prendere in mano la sua vita. E fin qui c’è la storia raccontata dal film e scritta da Stuart Bettie.

Poi si arriva al livello che invece investe direttamente il lavoro di Michael Mann e la parte tecnica del film, che il regista americano padroneggia con la sicurezza di un narratore navigato, sfruttando pienamente, come pochi sono in grado di fare, tutto il complesso di forze che ruota intorno alla costruzione materiale del film e che permette allo spettatore di godere di uno spettacolo pieno e appagante: ogni singolo elemento è perciò utilizzato in senso estensivo, traendo il massimo dalle sue potenzialità. Michael Mann in fondo è sempre stato attento soprattutto al rapporto fra l’estetica e il contenuto dei film e di come quindi lo stile sia importante per trasmettere determinate sensazioni al pari dei fatti inseriti in sceneggiatura: per questo motivo Collateral è un film che prima di tutto trasmette il piacere della visione, risulta affascinante e suadente allo sguardo, ma anche denso, quasi “corposo” nella estrema forza che ogni singolo fotogramma trasmette, e ogni scena, potenzialmente, diventa subito un pezzo di storia del cinema, così come il film si rivela immediatamente un classico già alla prima visione.

Mann utilizza quasi totalmente macchine da presa digitali per catturare il look di una metropoli che ha un sapore alieno, con i palazzi in vetro contrapposti a una strada infida, dove brulicano piccola e grande criminalità, le discoteche sono luoghi che uniscono frenesia fisica a grande senso di spaesamento e le luci disegnano una geografia di colori impastati e zone d’ombra davvero degne di un grande noir. Allo stesso modo è sfruttata espressivamente la musica, proveniente dagli ambiti più disparati (la radio del taxi, la discoteca, oppure da fonti extradiegetiche) e che in accordo non solo alla fotografia, ma anche ai movimenti degli attori, trasmette il senso di una danza, di un muoversi ritmico e armonico delle inquadrature, ma anche l’alienazione piena della metropoli: proprio la sequenza in discoteca, cadenzata dal remix di Ready Steady Go di Paul Oakenfold, è destinata da questo punto di vista a restare negli annali.

Gli attori, infine, che non sono soltanto dei corpi iconici sui quali il regista si diverte a giocare (basti pensare al look assolutamente inedito di un Tom Cruise brizzolato che sembra scaturire direttamente dalle intercapedini della città di vetro e acciaio), ma anche figure dove ogni dettaglio, dal modo di vestirsi, a quello di muoversi e di pronunciare ogni battuta (e per fortuna il doppiaggio italiano è ottimo) apporta qualcosa allo stile e all’impatto visivo del film amplificando il senso di un’esperienza piena che in un solo fotogramma già contiene la forza di tutta la storia e di tutto il mondo che interessa a Mann. Quello che rende il film assolutamente imprescindibile.

Collateral
(id.)
Regia: Michael Mann
Sceneggiatura: Stuart Bettie
Origine: Usa, 2004
Durata: 155’

Conferenza stampa con Michael Mann, Tom Cruise, Jada Pinkett Smith
Approfondimento sulla colonna sonora
Sito ufficiale americano
Fansite di Tom Cruise (in inglese)

mercoledì 9 luglio 2008

Red Hot Chili Peppers: Otherside

Terzo singolo estratto dall’albo Californication che, uscito nel 1999, risulta a oggi il più grande successo commerciale dei Red Hot Chili Peppers, Otherside è un brano affascinante e ipnotico, attraversato da una misteriosa energia, che trova il suo completamento in un videoclip altamente suggestivo e diventato giustamente di culto. Diretto dalla coppia Jonathan Dayton e Valerie Faris (in seguito autori dell’acclamato film Little Miss Sunshine), il breve film introduce lo spettatore in una realtà inquietante che attinge visivamente da stili avanguardistici del primo Novecento: espressionismo e cubismo in primis, ma va anche aggiunta una vaga influenza futurista, dichiarata dagli stessi registi.

Non siamo di fronte a un video che tenta di esplicitare direttamente il testo, abbastanza sfuggente e incentrato poeticamente su una tensione a un “altro lato” mai direttamente chiarita: c’è chi sostiene che si tratti di un brano dedicato alla memoria di Hillel Slovak, ex chitarrista della band scomparso nel 1988 per overdose di eroina, ma più in generale è possibile rintracciare nelle parole una sorta di malinconia provocata dal desiderio di raggiungere una visione del mondo più stratificata, aperta a un “altrove” invocato come via di fuga da una vita vissuta senza desideri e entusiasmi, in preda alla solitudine (“Pour my life into a paper cup”).

Proprio da questo punto di partenza prende le mosse il video, che si apre sulla figura di un uomo riverso al suolo, circondato da rami spettrali e subito condotto in ospedale da un’ambulanza: il bicromatismo della fotografia è rotto soltanto da pochi sprazzi di colore, che sanciscono chiaramente il modello del cinema espressionismo tedesco degli anni Trenta, richiamato soprattutto dal design di palazzi e sfondi, con linee spezzate che deformano gli ambienti dando loro una sensazione opprimente e di perenne decadimento, che esteriorizza l’angoscia cantata da Anthony Kiedis, il front-man del gruppo. E’ interessante notare a questo proposito come lo sfondo nel quale si articolano le disavventure dell’ignoto protagonista non sia statico, ma sia parte attiva del video e come tale “suonato” dai membri della band: il piatto di un grande orologio posto in cima a una torre, ad esempio, diventa la batteria di Chad Smith, mentre una lunga corda è martellata da John Frusciante a mo’ di chitarra, e il bassista Flea si districa fra cavi sospesi ad alta quota a mo’ di fili del telefono, in uno strano contorcimento che ha il sapore del tentativo di restare in equilibrio, congiuntamente al desiderio di produrre i suoni desiderati: il suo affanno nel compiere le azioni sembra testimoniare quasi il suo voler inseguire il brano piuttosto che generarlo e in questo senso l’impressione che se ne ricava è che i membri della band siano prigionieri di questa strana realtà “altra”, dominata dalle angosce del protagonista.

Proprio lui che vediamo in effetti subire, in una sorta di deriva kafkiana, controlli da minacciosi medici, lo vediamo lottare contro un drago sputafuoco ritratto con effetto cubista, essere attaccato dalla propria ombra (un riflesso dell’onirico Vampyr di Dreyer?) e patire poi l’aggressione di un minaccioso corvo mentre sta volando sfruttando due enormi labbra dipinte su un muro come ali. In tutto questo c’è anche una fuga attraverso un complesso di scale che omaggiano la celebre litografia di Maurits Cornelis Escher Relatività (1953), capolavoro sulla compresenza di diverse prospettive e forze di gravità che danno vita a una realtà architettonica dove complessi di scale e porte si intrecciano (un lavoro che al cinema ha già influenzato varie opere, pensiamo a una celebre sequenza di Labyrinth di Jim Henson).

In effetti proprio la citazione da Escher costituisce un possibile paradigma del video, poiché sancisce proprio la specularità e la circolarità di un universo onirico dove l’ordine è sovvertito e così le prospettive, le dimensioni e le coordinate: ecco dunque che l’ambulanza percorre il quadro lungo la linea della profondità di campo, ma poi l’inquadratura si ribalta e quello che un attimo prima era il margine superiore diventa la strada sulla quale il veicolo raggiunge l’ospedale. Allo stesso modo l’intera struttura narrativa è composta da un insieme di scatole cinesi, forse sogni dello stesso protagonista, che nell’approdo al finale riportano all’inquadratura iniziale, e quindi all’otherside invocato dal titolo.

Il risultato di questa suggestione di immagini e influenze è un lavoro che riesce a trarre dall’angoscia una sorta di lirica poesia che affascina per il sostrato colto dei riferimenti, ma soprattutto meraviglia e colpisce a livello emotivo e fonde perfettamente musica e immagini permettendo alle due opere (brano e videoclip) di mantenere una propria specificità valorizzandosi a vicenda: in fondo anche in questa specularità si riverbera la tensione all’otherside che costituisce il fulcro di tutto.

Sito ufficiale dei Red Hot Chili Peppers
Il video di Otherside su YouTube
Il testo della canzone

lunedì 7 luglio 2008

Ken il guerriero: La leggenda di Hokuto

In seguito alle numerose guerre che, in una continua escalation, hanno trascinato l’umanità verso la catastrofe, il mondo è ormai ridotto a una landa desolata, preda di dominatori senza scrupoli e dove vige la legge del più forte. In questo scenario Kenshiro, ultimo successore della Divina Scuola di Hokuto e custode dell’omonima e letale arte marziale, deve confrontarsi con il crudele dittatore Sauzer. Lo scontro è sorvegliato anche dai due fratelli di Ken: Toki, malato ma giusto difensore dei deboli, e Raoul, ambizioso conquistatore che sogna di dominare il mondo. La missione di quest’ultimo è spalleggiata da Reina, una giovane guerriera che vede nel condottiero l’uomo che potrà forse riportare ordine nel Caos e guidare la sua terra natale verso un nuovo futuro di ordine. Nella lotta contro Sauzer, Kenshiro trova anche un prezioso alleato in Shu, un combattente cieco che tanti anni prima gli aveva salvato la vita e che oggi tenta di contrastare l’avanzata del tiranno.

Possiamo considerare questo film celebrativo delle gesta di Ken il guerriero come un perfetto esempio dell’attuale momento storico, in cui si continua a prediligere (o quantomeno a dare grande rilevanza) la riproposizione di eroi e gesta già note al pubblico, sull’onda delle celebrazioni (in questo caso i 25 anni del fumetto) e dell’effetto nostalgia. Fortunatamente la linea che sembra aver guidato i realizzatori non è parassitaria rispetto al manga e alla vecchia serie tv, ma predilige un approccio che, al rispetto e alla rievocazione nostalgica del già fatto, accompagna una rielaborazione narrativa utile a far emergere nuove prospettive e a esaltare i nuclei tematici in precedenza compromessi dalla logica della narrazione seriale.

Questo duplice approccio da un lato ridimensiona le possibili aspirazioni del film, che, oltre a condensare molti eventi in poco tempo con un ritmo molto spedito, per essere fruito al meglio presuppone la conoscenza delle opere originali, di cui è da considerarsi come elemento complementare ma non succedaneo (e quindi si rivolge principalmente a un pubblico di appassionati); dall’altro però rende l’insieme un po’ più organico di quanto non fosse in passato, giustificando elementi fino ad oggi rimasti poco approfonditi e permette anche di ricomprendere sin d’ora nel progetto generale della saga i capitoli realizzati in un secondo momento (pensiamo al viaggio di Kenshiro nella terra degli Shura, che nella serie tv erano relegati nella seconda stagione).

L’aspetto più interessante è dato dall’adeguamento della storia agli scenari e ai gusti contemporanei: l’elemento della guerra atomica, di stretta attualità negli anni Ottanta ancora vessati dalla Guerra Fredda, è stato rivisitato in un’ottica più generale che mostra la devastazione finale come conseguenza di un continuo ricorso alla forza da parte delle varie superpotenze mondiali, una sorta di costante stato di tensione alimentato dagli isolati focolai che scoppiano in vari punti della terra per motivi etnici o religiosi (decisamente uno scenario più vicino alla nostra attualità); allo stesso modo è cambiato lo schema all’interno del quale si inseriscono i personaggi, i ruoli di buoni e cattivi sono sin dal principio meno definiti (l’unico che ancora rispetta appieno il suo status di malvagio è Sauzer), le loro gesta appaiono più chiare e così anche i rapporti fra i sessi.

Da questo punto di vista l’inedito personaggio di Reina (creato graficamente da Tsukasa Hojo, autore di Occhi di gatto e City Hunter, qui nel ruolo di guest-designer) arriva a sancire una importante differenza rispetto all’approccio del passato, introducendo un punto di vista femminile che non è soltanto quello dell’amore materno o della compagna cui viene delegato il compito di perpetrare la memoria delle gesta combattive maschili: al contrario, Reina è un personaggio moderno e sfaccettato, la cui missione al fianco di Raoul è motivata da una profonda convinzione nelle sue capacità, al punto tale che la ragazza arriva a disubbidirgli quando ritiene che l’ordine sia in conflitto con la sua visione e spesso si fa carico di iniziative personali. Reina è dunque una persona emotivamente ben delineata, è lei a definire il ruolo della crociata di Raoul (in precedenza troppo sbilanciata verso la mera sete di potere), a rivelare le intenzioni positive radicate nel suo profondo, i suoi scatti d’orgoglio e quindi di umanità: caratteristiche queste ultime che nell’opera originale erano invece ritardate e delegate a una serie di colpi di scena finali.

Ma Reina è anche un personaggio che ama e con la sua passionalità si contrappone perciò sia alla misericordia di Shu (che presuppone il sacrificio e dunque l’annullamento della persona) che alla crudeltà di Sauzer (che intende irridere l’amore, da lui paragonato a una forma di debolezza) e in questo si pone in perfetta continuità con la missione di Kenshiro, che unisce appunto forza e calore umano, diventandone una sorta di speculare.

L’esaltazione di questi temi curiosamente si accompagna a un forte ridimensionamento dell’azione e della violenza tipici della storia originaria e procede di pari passo con uno stile visivo sontuoso nei disegni (che, con le dovute modernizzazioni, si rifà alle tavole originali disegnate da Tetsuo Hara) ma altalenante nell’animazione, poco fluida e inferiore agli standard tipici delle produzioni animate da grande schermo. Il piacere di vedere comunque nelle sale cinematografiche una storia che nella sua forza epica aveva forse da sempre aspirato a simili approdi, è comunque in grado di accontentare i fans dell’amatissima saga.

Ken il guerriero: La leggenda di Hokuto [Director’s Cut]
(Shin Kyūseishu Densetsu Hokuto no Ken: Raoh-den Junai no Shō/ Fist of the North Star – Legends of the true savior: Chapter of death for love)
Regia: Takahiro Imamura

Sceneggiatura: Nobuhiko Horie, Yoshinobu Kamo, Katsuhiko Manabe, ispirata al manga di Buronson e Tetsuo Hara
Origine: Giappone, 2006
Durata: 95’

Sito italiano
Sito francese
Sito ufficiale giapponese
Sito Yamato Video, curatore dell’edizione italiana
Hokutonoken.it: sito italiano su Ken il guerriero

venerdì 4 luglio 2008

I dannati e gli eroi: Il cinema di Guillermo Del Toro

E’ sorprendente notare come l’epoca attuale fatichi a tributare i giusti riconoscimenti critici ai registi più interessanti emersi nel recente passato: un atteggiamento spesso pavido e titubante induce a non tentare approfondimenti di cineasti ancor giovani, ma che già hanno dimostrato di possedere una cifra stilistica molto personale, laddove invece proprio nell’investimento sui nomi nuovi si dovrebbe fondare l’attività di chi “ragiona per immagini”.

Per fortuna isolate iniziative non mancano e in questo senso la monografia I dannati e gli eroi, dedicata a Guillermo Del Toro, che Alessio Gradogna ha realizzato per la collana Cinema delle edizioni “Il Foglio” merita attenzione: 200 pagine con un apparato iconografico ridotto ma funzionale permettono infatti al lettore interessato all’opera del regista messicano di approfondire i 6 lungometraggi diretti dallo stesso nell’arco di quindici anni (dal 1993 a oggi) gettando anche un ponte verso Hellboy II – The Golden Army (in arrivo questo mese nelle sale) e evidenziando temi, stili e figure di un cinema da ascrivere ai territori del fantastico ma che non manca di realismo e sensibilità.

Lo schema del libro è semplice e chiaro: un’introduzione alla figura di Del Toro attraverso cenni autobiografici, dichiarazioni dello stesso e una prima disamina generale dei tratti distintivi (tematici e stilistici) del suo cinema, per poi lasciare spazio a un’analisi puntuale dei singoli film. Chiude il tutto una carrellata sui progetti a venire, le schede di tutti i lavori del regista, l’indice analitico dei film citati e la biblio/web-grafia.

L’aspetto più interessante, che risalta immediatamente, sta nel rigore con cui Gradogna affronta l’analisi dei lavori di Del Toro, con uno stile certamente partecipe rispetto a ciò che viene illustrato, ma comunque sempre rigoroso, senza cadere nella facile trappola della cinefilia militante che spesso si traduce in una disamina acritica dell’opera, in una scontata apologia del regista. Del Toro, ci viene detto subito, non è un Maestro (d’altronde la sua opera è ancora in divenire e simili bilanci è meglio delegarli a un tempo futuro) ma un regista interessante e capace, di cui interessa approfondire le influenze, i modelli e la fattura del suo lavoro. Dargli quindi ciò che gli spetta, senza nascondere alcuni limiti presenti in parte della sua produzione, è un atteggiamento corretto, che permette sia al lettore occasionale che a quello invece appassionato e, perché no, partigiano, di trovare un fertile terreno di confronto nei contenuti.

Altro aspetto meritorio del libro è la capacità di evidenziare le connessioni tra i vari lavori del regista, attraverso un’analisi puntuale che punta a valorizzare gli elementi che ritornano nell’arco della filmografia, sia a livello tematico (l’infanzia violata, il rapporto conflittuale con la religione cattolica, la fobia per gli insetti) che stilistico (l’uso del prologo esplicativo e del montaggio alternato): il tutto mira proprio a creare un sistema di riferimenti interno alle varie pellicole, che si accompagna a quello più evidentemente citazionistico, per stabilire chiaramente come si abbia a che fare con un autore consapevole di ciò che vuole e capace di ottenerlo con i mezzi a disposizione. D’altronde abbiamo a che fare con un regista che ha sin dall’inizio praticato in modo fecondo la commistione di generi, linguaggi e riferimenti, ha lavorato sia a Hollywood che fuori e con budget molto diversi tra loro, e in questo senso la sua opera si presenta in modo molto composito: l’horror vampirico, il “beast-movie”, il cinecomics, il dramma storico a tinte fantastiche e la fiaba sono gli archetipi dai quali i vari film attingono e con i quali si confrontano e pertanto l’analisi di ogni singola pellicola è preceduta da un articolo che contestualizza il lavoro nel genere o filone di riferimento.

Un ulteriore aspetto che merita di essere segnalato è il modo in cui viene condotta l’analisi, rifuggendo l’altra facile trappola del “contenutismo” di matrice un po’ accademica che rischia di rendere il lavoro freddo, eccessivamente pindarico e contorto: al contrario la scrittura di Gradogna è attenta nel cercare di restituire anche le peculiarità stilistiche e tecniche che Del Toro utilizza per dare ai suoi film il look che tutti conosciamo: ecco dunque che l’eviscerazione dei temi si accompagna a uno studio dei movimenti di macchina e dell’apporto fornito da musiche e fotografia (quasi sempre del grande sodale Guillermo Navarro) per l’approdo al risultato finale.

Il risultato è un volume ricco di interessanti informazioni e riflessioni, che riesce a essere analitico ma allo stesso tempo a fornire un quadro generale abbastanza chiaro del cinema di Del Toro, è piacevole da leggere e in grado di fornire molto materiale con cui confrontarsi. Alcune pecche riguardano delle sbavature nel lavoro di redazione, che lasciano spazio a qualche refuso o a piccole ingenuità espositive, ma nel complesso si tratta di un bel libro che merita di essere segnalato.

Alessio Gradogna ha già alle spalle un’altra pubblicazione, ovvero il libro Tokyo Sindrome – Le nuove frontiere dell’horror giapponese, scritto insieme al collega Fabio Tasso e il suo blog Cinemystic è raggiungibile attraverso il link a destra, nel riquadro dei blog amici.

I dannati e gli eroi – Il cinema di Guillermo Del Toro
Scritto da: Alessio Gradogna
200 pagine, 15,00 euro
Edizioni Il Foglio – Marzo 2008

Sito Edizioni Il Foglio
Fansite di Guillermo Del Toro (in inglese)

mercoledì 2 luglio 2008

Jackie Brown

Jackie Brown è una matura hostess di una piccola compagnia aerea che collega gli Stati Uniti e il Messico: a causa di piccoli precedenti penali, la donna non può aspirare a niente di meglio di quel lavoro mal pagato e perciò “arrotonda” le sue entrate compiendo piccoli traffici di denaro per Ordell, criminale e venditore d’armi. Un giorno però i Federali la colgono in flagrante, grazie a una soffiata di un dipendente dello stesso Ordell smanioso di guadagnarsi la libertà dopo essere arrestato. Per Jackie ora si profilano due inquietanti scenari: la prigione o la morte per mano di Ordell, che elimina spietatamente chiunque possa intralciare i suoi piani. Un inaspettato alleato si rivela però essere Max Cherry, addetto all’ufficio cauzioni entrato in gioco per conto dello stesso Ordell, che rimane molto colpito dall’avvenenza e dalla forza d’animo di Jackie. Lo scenario che si profila è una grossa truffa che permetta alla donna di incastrare Ordell rubando anche il suo denaro, senza far sospettare nulla ai Federali.

All’epoca della sua uscita nelle sale, Jackie Brown portava sulle spalle l’inevitabile fardello di essere la pellicola successiva all’exploit di Pulp Fiction, che aveva rivelato al mondo il talento di Quentin Tarantino. Le aspettative di critica e pubblico, pertanto, influenzarono non poco il giudizio, facendo parlare di pellicola “prudente” o meno scoppiettante di quella che l’aveva preceduta, laddove, in tempi più recenti, il film non solo si è guadagnato un certo seguito, ma addirittura parte della critica lo ha lodato come pellicola matura e stilisticamente sorvegliata, chiaro segno di un Tarantino in continua evoluzione (interessante notare come questa tesi sia stata spesso portata avanti per denigrare invece le pellicole successive come Kill Bill).

Ora che sono passati poco più di dieci anni (il film è del 1997) si può tentare un approccio distaccato, che contestualizzi maggiormente la pellicola nell’ambito della produzione filmica di Tarantino: a questo proposito il regista stesso, nelle interviste, dichiara che Le iene e Pulp Fiction sarebbero da ascrivere a un unico universo tematico e forse anche narrativo, speculare a quello di Kill Bill. In questo scenario Jackie Brown fa la parte dell’outsider poiché sarebbe invece da iscrivere a un terzo universo, quello dello scrittore Elmore Leonard (la fonte è in effetti il suo romanzo Rum Punch).

E’ un buon punto di partenza per evidenziare come in effetti il film possegga caratteristiche uniche all’interno della filmografia di Quentin, è il primo (e al momento unico) adattamento da un romanzo e il suo situarsi in maniera perfettamente centrale nella sua attuale produzione (terzo di cinque film) ne esalta ancora una volta la natura “fuori schema”. Certamente Tarantino compie un’operazione nel segno del rispetto per le regole codificate dal grande romanziere americano, cercando di interfacciare il proprio mondo con il suo senza grossi scossoni e il risultato è un film che sebbene riverberi molti stilemi di quello che oggi viene definito lo “stile Tarantino”, per il resto è autosufficiente, né pulp né tantomeno sfacciatamente citazionista.

Questo aspetto si comprende meglio se consideriamo l’omaggio al cinema blaxploitation all’interno del quale il film è stato immediatamente inquadrato, complice la centralità offerta all’attrice Pam Grier, splendida icona del genere. Quella che vediamo in azione non è Coffy e nemmeno Foxy Brown (nonostante la similarità del nome), ma una donna matura alle prese con il problema della sopravvivenza e dell’incedere spietato del tempo, che deve fare i conti non soltanto con il suo presente, ma anche con gli errori del passato che rischiano di minare il suo futuro. Il tutto viene da lei risolto senza coinvolgersi in pirotecniche azioni, ma con l’ingegno e un approccio basato sul non detto e sul suggerito, grazie al quale Jackie riesce a convincere i suoi nemici della propria buona fede. Allo stesso tempo, però, quando vediamo la protagonista impugnare una pistola contro un temibile Ordell che minaccia di avere ragione di lei non riusciamo a non “vedere” in quel momento un chiaro riflesso proprio di eroine come Coffy e Foxy Brown; e quando Jackie è in prigione, con indosso i tipici panni da galeotta, la memoria corre ai film del genere “Women in Prison” interpretati dalla stessa attrice.

Il punto è proprio questo: Jackie Brown è un film di evocazioni, che non usa le citazioni in maniera diretta, ma sfrutta comunque l’eco che le immagini riescono a creare, creando un’aura mitica all’interno della quale i personaggi possono comunque far emergere la propria umanità. In questo senso, rispetto ai film precedenti e ai successivi, lo schema è totalmente rovesciato: gli incastri della sceneggiatura e i rimandi ipertestuali (al romanzo e ad altri film) non sono funzionali ai personaggi, ma esattamente il contrario, è la storia a essere al servizio di un’epopea dove ciò che conta sono i caratteri. Questo permette al film di vantare, all’interno di uno schema evidentemente di fiction, una forza realistica ed emozionante che cattura il cuore dello spettatore e che si esprime nelle piccole pause, nei gesti esaltati in modo discreto ma fermo dalla regia e dal grande controllo sulle prestazioni fornite dallo splendido parterre di attori, inquadrati con una certa enfasi, quasi idolatrati dalla macchina da presa. Non a caso Tarantino lo definisce come un film che cresce dopo le ripetute visioni grazie alla forza dei caratteri (e come possibile modello cita Un dollaro d’onore di Howard Hawks).

L’aspetto più interessante di tutto questo approccio, però, sta nel fatto che lo stesso arriva a contaminare in un modo che d’ora in poi risulterà ineludibile, il cinema stesso di Tarantino, aprendo margini di lirismo e umanità in un cinema fino a quel momento incentrato su una forte tipizzazione: Jackie Brown in questo senso è l’antisegnana della Sposa di Kill Bill e il suo conflittuale rapporto con Ordell e con Max Cherry anticipa il complesso legame tra Uma Thurman e il Bill di David Carradine. In questo senso Jackie Brown diventa non più un film da inquadrare come un outsider nel cinema di Tarantino, ma anzi come un punto di svolta che permette allo stesso di maturare un’evoluzione che nelle opere future permetterà agli elementi topici dei primi film (tipizzazione, citazionismo, divertimento palese nella creazione degli incastri di sceneggiatura) di essere ben presenti senza disperdere mai la forza umana dei personaggi. Un film da riscoprire.

Jackie Brown
(id.)
Regia e sceneggiatura: Quentin Tarantino, dal romanzo “Rum Punch” di Elmore Leonard
Origine: Usa, 1997
Durata: 154’

Intervista a Quentin Tarantino
Intervista a Pam Grier
Intervista a Robert Forster
Pagina di Wikipedia su Jackie Brown