"C'è chi crede in dio o nel denaro. Io credo nel cinema, nel suo potere. L'ho scoperto da ragazzino, mi ha aiutato a fuggire da una realtà in cui ero infelice. È una delle forme d'arte più alte che l'uomo ha concepito. Credo nel suo futuro."
(John Carpenter)

venerdì 30 maggio 2008

Guida per riconoscere i tuoi santi

Mentre promuove il libro basato sulla sua infanzia nel Queens, Dito riceve una telefonata dalla madre che lo avverte come suo padre, molto malato, rifiuti di ricoverarsi in ospedale, e lo invita a tornare a casa per convincerlo. Per il ragazzo il ritorno alla casa di famiglia è l’occasione per fare i conti con i fantasmi del passato, con quel padre che lo ha ripudiato nel momento in cui si è visto abbandonato e che per tutta l’infanzia aveva dimostrato nei suoi confronti un atteggiamento protettivo ma scostante, quasi preferendogli l’amico Antonio, che è poi finito in galera dopo aver commesso un omicidio volto proprio a salvare Dito da un delinquente del posto. Dito, dal canto suo, aveva trovato nell’amicizia con lo scozzese Mike l’occasione per fuggire dalla problematica realtà dei luoghi d’origine.

Già molte volte il cinema ha fornito agli spettatori l’occasione di assistere a debutti cinematografici basati sul resoconto di una infanzia difficile, di un conflittuale rapporto con i genitori, che spesso partono da quanto raccontato in un libro più o meno autobiografico. Nel caso di Guida per riconoscere i tuoi santi, la produzione di Sting e Trudy Styler, i riconoscimenti ottenuti al Sundance Film Festival e il cast ben assortito, con numerose star da cinema indipendente (primo fra tutti Robert Downey Jr.) rischiano poi di creare il classico effetto pregiudiziale e artificioso, di trasmettere l’idea di una pellicola furba e compiacente verso il pubblico da grande distribuzione.

Invece il film funziona, vibra, di una intensità particolare grazie a un lavoro collettivo che ha il merito di puntare tanto su una messinscena dotata di carattere, quanto su una serie di performance sincere e in grado di far emergere il realismo e la verità dell’universo rappresentato. Che si tratti di rappresentazione peraltro è lo stesso regista a dichiararlo, sia mettendo in scena un suo alter ego il cui libro dà proprio il titolo al film (il rispecchiamento quindi è preciso), sia attraverso piccoli artifici linguistici che svelano la finzione scenica: i personaggi quindi si presentano parlando in camera, vengono colti con sguardi a tratti incerti, come se fossero a disagio rispetto al proprio ruolo, creando piccoli alvei di realismo che stabilisce una certa empatia con lo spettatore. L’effetto è molto “nouvelle vague” francese, ma in realtà un possibile collegamento va cercato nel Coppola più sperimentale, quello di Rusty il selvaggio o I ragazzi della 56a strada, modello cui il film non cerca di assomigliare, ma che richiama idealmente per l’approccio fecondo adottato verso il meccanismo cinematografico.

Quello che sembra in effetti interessare a Montiel è proprio smontare la possibile evidenza della derivazione letteraria e tutto arriva a contribuire in questo senso: accanto al disvelamento del ruolo degli attori troviamo così una regia che spezza il flusso narrativo classico attraverso piccoli flash-forward che mostrano alcune azioni in anticipo; oppure piccole pause che arrivano a intercalare i momenti più concitati dell’azione, quasi rispettando i sentimenti di chi li sta vivendo, frantumandoli in singole inquadrature comunque capaci di riverberarne, attraverso il potere proprio del cinema, la forza espressiva; e infine ci sono i dialoghi: realistici, incompleti, quasi “masticati” dagli interpreti (la visione in lingua originale è d’obbligo), che spesso sovrappongono le loro voci creando una cacofonia di suoni che genera una sorta di codice interno alla comunità. Nessuno lamenta infatti di non aver compreso cosa dice l’altro e questo insieme di singole parole, mugugni, frasi incomplete, apparentemente senza senso si rivela estremamente realistico, come spesso sono i dialoghi nella vita reale, assolutamente non impostati, basati spesso sul nulla, sul piacere fisico di avere un interlocutore davanti. A prestarci attenzione, infatti, molto spesso i ragazzi del film non agiscono, ma si beano del rispettivo stare insieme, litigando anzi quando uno di loro si allontana dal gruppo, spezzando la catena di relazioni finemente intrecciata tra loro.

Montiel nel costruire i rapporti tra i personaggi non nasconde nulla, non dimentica di mettere in scena un disagio che è reale e che si estrinseca in un sentimento panico, ben colorato da una fotografia avvolgente e calda che sembra letteralmente abbracciare i protagonisti: si ha a volte la sensazione di una regia che osserva, più che dirigere, gli attori e affida alla straordinaria essenzialità dei loro gesti il procedere degli eventi. Accanto a un Downey Jr. misurato come poche altre volte, alieno dai consueti vezzi gigioneschi che gli sono propri, troviamo quindi un esordiente Shia LaBeouf, uno straordinario Channing Tatum nel ruolo del ribelle Antonio, e il veterano Chazz Palminteri, che si scrolla finalmente di dosso l’ombra del malavitoso interpretato dai tempi di Bronx per diventare un padre reticente nell’espressione dei suoi sentimenti, ma capace di provare un affetto intenso, anche duro, egoista, nei confronti di Dito.

Al di là del ritratto padre/figlio, sul quale si incentra particolarmente l’ultima parte del racconto, il film colpisce in virtù del bel ritratto di vita suburbana che mette in scena: violento, spietato, dove la sorte sembra affidata a un caso ballerino, quello che crea e disfa rovinando vite o creando possibili rapporti, dove l’amicizia ha comunque un sapore vero anche se i sogni sono destinati inevitabilmente a essere inseguiti a prezzo di grandi rinunce e trovare punti di riferimento (i “santi” invocati dal titolo) non è facile. Materiale magmatico che genera inevitabilmente conflitti, tragedie, ma è anche capace di grandi slanci di umanità e di lirismo, che connotano i passaggi più intensi dell’intera storia e le permettono di elevarsi dalla massa, non ricadendo nella retorica più banale o nel sensazionalismo di pellicole alla Sleepers.

Una bella scoperta, quella di Dito Montiel, speriamo che sappia catturarci ancora.

Guida per riconoscere i tuoi santi
(A Guide to Ricognizing Your Saints)
Regia e sceneggiatura: Dito Montiel (dal suo libro)
Origine: Usa, 2006
Durata: 96’

Intervista a Dito Montiel
Sito ufficiale americano

martedì 27 maggio 2008

Kill Bill

La Sposa è in cerca di vendetta: è rimasta per quattro anni in coma dopo essere sopravvissuta al massacro perpetrato ai suoi danni dall’ex mentore Bill nel giorno del suo matrimonio: 9 morti compresi il promesso sposo e i testimoni. Bill non sopportava di essere stato abbandonato dalla migliore delle sue assassine, che intendeva soltanto rifarsi una vita. E così oggi l’assassina, nome in codice Black Mamba, è tornata in azione: sulla sua lista i nomi dei carnefici, ex compagni di squadra, che costituiscono anche i punti sulla mappa del viaggio intorno al mondo necessario a ritrovarli e eliminarli. Fino al confronto finale con Bill.

Il bello di un regista come Quentin Tarantino è che l’uscita di ogni film serve soltanto a consacrare quell’aura cult che il titolo si è già guadagnato da tempo. Merito di una personalità registica che ha da tempo assunto l’aura del divo e che per questo rende ogni film un modello da seguire, di cui si interessano i campi più disparati dell’arte: dalla musica alla moda. Ma merito anche di una capacità stilistica che non si disgiunge mai dalla capacità di rendere godibile l’opera. In questo senso ogni suo film è tanto immediato quanto più complesso è il progetto che lo ha prodotto: affermazione che parrebbe essere contraddetta da un titolo come Kill Bill, di fatto il più “semplice” e lineare fra i suoi lavori.

In realtà proprio Kill Bill costituisce l’esempio più perfetto di come il cinema di Tarantino riesca a essere complesso e stratificato proprio quando riesce a raggiungere quella universalità che gli permette di essere fruito senza problemi dal pubblico più colto, da quello maggiormente appassionato (formato dai cosiddetti “tarantiniani”) e da quello occasionale, in cerca soltanto di un semplice svago. La storia è infatti addirittura programmatica: una vendetta, scandita in capitoli, che costituiscono le tappe del viaggio della protagonista. I flashback sono funzionali agli avvenimenti del presente, mentre il contesto è sempre ben definito e la natura derivativa è palese. Kill Bill, insomma, non nasconde di discendere da modelli più celebri, con i quali intrattiene un rapporto incentrato su tre diverse direttive: in primo luogo c’è la ricontestualizzazione di elementi estrapolati dall’alveo originale e, in più di una occasione, rivitalizzati al punto da trovare finalmente la loro giusta valorizzazione. Ascoltando infatti lo splendido brano musicale composto da Luis Bacalov e utilizzato da Tarantino per contrappuntare la drammatica e affascinante sequenza animata delle origini di O-Ren Ishii, si ha la sensazione che quella musica risalti finalmente nel modo giusto, diversamente da come accadeva nel pessimo western di Giuliano Santi, Il grande duello, per il quale era stata invece composta.

La seconda direttiva riguarda il prolungamento di tradizioni codificate. E’ il caso di Hattori Hanzo, che, sempre impersonato da Sonny Chiba per donare la sua arte di fabbro alla protagonista che gli chiede una katana (spada da samurai), si viene a inserire non come sostituto dell’eroe originale comparso nel serial televisivo Kage no Gundan, ma come suo discendente.

In terzo luogo, infine, c’è la reinvenzione dello stilema originario, il rimescolamento delle carte, che è senza dubbio l’aspetto più esaltante e in grado di sancire il talento del regista, quello che di fatto salva il film dalle facili accuse di plagio o vile scopiazzatura: il talento è tanto più evidente nel momento in cui è anzi chiara la volontà di giocare con la sapienza del pubblico appassionato, che conosce i modelli e può quindi comprenderne a fondo la rielaborazione: pertanto lo scontro fra la Sposa e O-Ren, che avviene in un perfetto contesto alla Lady Snowblood, arricchito però dall’inedita commistione con il brano Don’t Let Me Be Misunderstood di Santa Esmeralda, oppure l’evasione dalla bara, con i colpi che vengono sferrati a tempo con il ritmo imposto dal brano di Ennio Morricone L’arena, senza dimenticare il geniale rimescolamento di ruoli che permette alla classica icona eroica di Gordon Liu-Chia Hui di impersonare il malvagio e severo maestro Pai Mei (che l’attore aveva invece combattuto nei suoi film cinesi) danno la misura di un rapporto con la tradizione fecondo e non basato sulla semplice sudditanza.

Il che conduce al secondo grado di complessità del film, quello che permette allo stesso di riverberare in ogni inquadratura la sua natura di fiction senza però apparire mai falso: Tarantino non nega di giocare con il cinema, sguazza nei propri vezzi registici, sottolinea ciò che gli piace attraverso una regia che in più passaggi ha un sapore estatico, la natura stessa del set è artificiosa, spesso quasi teatrale per l’evidente uso di cavi, retroproiezioni e per la fotografia che esalta le tinte creando un quadro che sembra un’opera pop. Anche l’insieme di stili (cartoon, dal vero, bianco e nero, colore) e l’ossequio di generi spesso differenti tra loro (wuxiapian, chanbara eiga, western italiano, horror, catfight) va in questa direzione. Ma lo spettatore, pur consapevole dell’inganno che si dipana di fronte ai suoi occhi, non avverte falsità ed è anzi portato a parteggiare per questi personaggi ben tipizzati: come Tarantino crede anzi in loro e ne vive con emozione le sfide. In pratica basterebbe questo per descrivere Kill Bill come perfetto paradigma dell’inganno alla base dell’arte cinematografica, artificio per eccellenza capace di creare un’illusione che ha il sapore del vero.

Tarantino però non si accontenta e scopre le sue carte nel bellissimo confronto finale tra Bill e la Sposa, quando i due sono costretti a riflettere sulle rispettive azioni e sui loro ruoli: in questo momento capiamo come Bill sia in fondo rimasto sempre fedele a se stesso e alla sua natura di killer. Egli è rimasto sempre dentro il suo personaggio, anche laddove ha voluto esprimere amore. Diversamente la Sposa ha tentato di uscire dal ruolo, nel momento in cui la striscia del test di gravidanza è diventata blu, ha pensato di sovvertire il suo mondo per un sentimento estroflesso che la vedeva ormai madre e non più assassina. Forse anche Bill era arrivato vicino a un tale sentimento quando, dopo averla raggiunta alla chiesa dove lei stava per sposarsi, era quasi riuscito a rinunciare a lei, ma poi era infine rientrato nel ruolo del carnefice. Qui si marca la differenza tra i due, ma allo stesso tempo la loro eguaglianza: la Sposa infatti non può trattenersi suo malgrado dal portare a termine la sua missione di vendetta, forse pentendosene un attimo dopo, ma inevitabilmente realizzando il suo disegno. Forse perché lei è, come da sua stessa ammissione, una “cattiva persona”, un’assassina, come profetizzato dallo stesso Bill.

Ecco, il succo del discorso è tutto qui: uscire dai modelli per essere loro affine, in un viaggio che è una vera e propria presa di coscienza della tradizione di cui si fa parte e che si è contribuito a rifondare. Distanziarsi per ritrovarsi. Ed ecco che quel momento arriva quindi a costituire la perfetta saldatura fra l’adesione ai generi e quindi alla natura finzionale del cinema, e quel lirismo che fa palpitare i cuori e ci dice come tutto quanto si è svolto sotto i nostri occhi è stata in fondo una storia di emozioni vere, quelle che infine permettono alla Sposa di lasciarci come Madre. La massima glorificazione possibile del potere del Cinema.

Kill Bill
(id.)
Regia e sceneggiatura: Quentin Tarantino
Origine: Usa, 2003/2004
Durata: 247’

Intervista a Quentin Tarantino
Intervista a Uma Thurman e Daryl Hannah
Conferenza Stampa
Sito italiano Kill Bill volume 1

sabato 24 maggio 2008

Liver

Harry Brompton, soprannominato “Liver” dopo aver ucciso due giovani sposi e averne mangiato il fegato, esce di prigione dopo aver scontato una condanna a 18 anni. Il suo primo atto da uomo libero è recarsi a casa di Rachel McWilliams, figlia del procuratore che molto tempo prima lo aveva fatto condannare. La ragazza viene sottoposta a sevizie per ore, fra le farneticazioni del suo carnefice che brandisce una mazza da golf. Ma forse la visita non era inaspettata e un imprevisto arriva a cambiare le carte in tavola…

Ideato, scritto e prodotto dall’attore Ottaviano Blitch, che di fatto lo ha cucito totalmente addosso alla sua performance, Liver è un cortometraggio che trova nella regia di Federico Greco il viatico per elevarsi dalla massa e risaltare come opera potente e intrigante. Il bravo director romano, distintosi con l’ottimo dittico dedicato al presunto viaggio italiano dello scrittore Howard Phillips Lovecraft (Ipotesi di un viaggio in Italia e Road to L., realizzati entrambi con il collega Roberto Leggio), prende in consegna il materiale proposto da Blitch e ne fa un ennesimo tassello di un percorso artistico che, fra documentario e fiction, riflette sul labile confine tra realtà e sua rappresentazione, sugli inganni del reale e sulla finzionalità dell’opera cinematografica.

La messinscena di stampo teatrale ad ambiente unico, con due soli attori, si completa quindi attraverso un sapiente lavoro sul montaggio e sul sonoro, utile sicuramente a conferire pathos alla vicenda (in particolare nella scena che vede sofferente lo stesso Brompton), ma anche a sancire allo stesso tempo la realisticità dell’evento e il suo essere null’altro che una rappresentazione. L’assassino infatti è un istrione, pare rivolgersi a un ipotetico pubblico in un numero a metà strada fra il grand guignol e il cabaret (e in sottofondo lo scrosciare degli applausi accompagna effettivamente alcuni passaggi del “numero”), e il tutto crea un effetto molto straniante, per come stride con la crudezza delle scene di stupro e le torture inflitte alla sfortunata Rachel McWilliams. Allo stesso tempo alcune isolate inquadrature sgranate e imprecise, come fossero riprese da una videocamera che spia da chissà quale angolo della casa, spezzano la staticità dei punti di vista introducendo un ulteriore elemento di instabilità che amplifica l’idea della rappresentazione, della storia messa in scena per essere soltanto raccontata.

Il gioco di Harry “Liver” Brompton con la sua realtà è quindi orientato al possesso del comando su quanto accade: egli della scena è padrone e artefice, dopo anni passati in detenzione è finalmente libero di dare sfogo alla propria ira repressa e al proprio desiderio di controllare il mondo. Esemplare in questo senso il momento in cui zittisce con foga il telefono che aveva preso a squillare, simbolo molto chiaro del controllo che ormai detiene su quello scampolo di realtà. Il rovesciamento di prospettiva del finale in questo senso rappresenta ancora di più una sorpresa e un atto di forza che la realtà compie su di lui, per riappropriarsi del potere momentaneamente sottrattole dall’assassino.

Il film si costruisce inoltre attraverso un preciso percorso citazionista che vede Harry Brompton declamare dialoghi che riprendono famosi film, da Arancia Meccanica a The Snatch fino al celebre passo di “Ezechiele 25:17” da Pulp Fiction di Quentin Tarantino: film evocati non soltanto allo scopo di stabilire una sorta di ipotetico legame con un cinema dedicatosi nel tempo a una rappresentazione “artistica” della violenza, ma anche per stabilire una volta di più la teatralità della messinscena, l’esubero di brutalità che diviene grottesca rappresentazione di un universo mentale (quello dello stesso Liver) deviato, ma anche affascinato da se stesso e, per certi versi, pure affascinante agli occhi dello spettatore.

Il tutto confluisce nel visionario (e per certi versi anche enigmatico, visto il dubbio sollevato dalla didascalia finale) finale, dove Harry si ritrova faccia a faccia con i diversi lati della sua personalità, nell’attimo dell’agonia, mentre la splendida canzone “Signal to Noise”, nell’incisione originale di Peter Gabriel e Nusrat Fateh Ali Khan, commenta in sottofondo il dolore del momento e al contempo la sua massima glorificazione per un attore che arriva a morire in scena, massima aspirazione possibile per il proprio narcisismo. Per questo Harry si confronta con una rappresentazione oscenamente grottesca della morte e con un possibile se stesso che nel declamare i versi vede il suo viso rigato da una lacrima - i credits finali lo indicano come “Peter”, forse a suggerire un ulteriore rimando allo stesso Peter Gabriel, che amplia il gioco di riferimenti dell’intera opera, come in un gioco di scatole cinesi.

L’uso delle musiche diviene quindi fondamentale tanto quanto lo sono la messinscena, le inquadrature e il sonoro, e permette di stabilire il tono del racconto, modulando i vari passaggi fino al raggiungimento del climax finale. In questo senso va segnalata anche la scelta parimenti originale di affidare invece alla voce soave di Dalida (e al suo brano “Une femme à quarante ans”, del 1981) l’apertura sui titoli di testa, utili a stabilire immediatamente la natura di fiction, ma egualmente emotivamente incandescente, della storia: una trovata che sicuramente sarebbe apprezzata dal Quentin Tarantino di Kill Bill (la mente, infatti, corre subito al Bang Bang di Nancy Sinatra che apriva il film del regista americano).

Presentato in diversi festival di settore, Liver è stato premiato al PesarHorroFest 2007 con una menzione speciale della Giuria a Ottaviano Blitch e al ToHorrorFestival 2007.

Liver
Regia: Federico Greco
Sceneggiatura: Ottaviano Blitch
Origine: Italia, 2007
Durata: 17’

Sito ufficiale di Federico Greco
Myspace di Federico Greco
Myspace di Ottaviano Blitch
Trailer di “Liver” su YouTube

giovedì 22 maggio 2008

Caparezza eroe moderno

L’uscita di ogni album di Caparezza è accompagnata sempre da grande curiosità: c’è chi la attende per rinnovare l’appuntamento con i testi intelligenti e dalla spiccata forza satirica tipici del cantante pugliese; e chi invece smania di poter scoprire le citazioni che l’artista dissemina all’interno dei video e delle canzoni stesse. In questo senso Caparezza è un perfetto esempio di autore che riesce a coniugare l’impegno con una acuta riflessione sull’immaginario transgenerazionale. Ascoltare una sua canzone non significa soltanto entrare in una realtà concreta e difficile, fatta di protagonisti vessati dalle difficoltà del vivere, ma anche intraprendere un viaggio affascinante e meraviglioso nella memoria del cinema, della televisione, dei fumetti.

Non ci stupisce quindi apprendere non soltanto che in origine la sua volontà fosse proprio quella di fare il fumettista, ma anche che il suo ultimo album Le dimensioni del mio caos nasca come “fonoromanzo”; ovvero come compendio del suo libro “Saghe mentali”: due forme espressive diverse che si intrecciano per costituire un sistema finemente intrecciato, i cui rimandi si nascondo fra le note e le parole.

Ed ecco che il primo singolo estratto dall’album (in verità diffuso dalle radio poco prima dell’uscita del CD, a mo’ di apripista) è Eroe (Storia di Luigi Delle Bicocche), che da solo è già in grado di definire perfettamente le caratteristiche del Caparezza che più ci piace. Soprattutto se l’ascolto della canzone procede di pari passo con la visione del videoclip, diretto da Riccardo Struchil (già regista per Negrita, Le Vibrazioni, Neffa e Velvet). Già perché i rimandi non sono soltanto quelli intertestuali, ma anche quelli che il “Capa” dissemina all’interno del video, che arricchisce e completa la canzone, dando vita a una precisa ricognizione sul concetto di “Eroe” nel mondo moderno.

Il brano narra infatti di un immaginario Luigi Delle Bicocche, operaio precario che, dovendo lottare giornalmente per il mantenimento della famiglia contro un mondo del lavoro vessatorio e inumano, si dimostra per questo dotato di una forza ammirevole: la battaglia infatti è infida, perché alle difficoltà tipiche della sua condizione di subordinato si uniscono le facili lusinghe dei meccanismi che promettono facili guadagni (si citano i Punti Snai, il Pachinko, i Videopoker). L’essenza è chiara: l’eroe moderno non è più quello che compie imprese sovrumane, perché è la vita stessa ad avere settato i suoi standard su un livello superiore a quello delle comuni possibilità. La lotta per la sopravvivenza diventa quindi un percorso che eleva l’uomo comune onesto a eroe.

Fin qui la lettura più immediata e semplice, che fa capo al livello “impegnato” e non risparmia frecciatine a fatti della cronaca (i privilegi giudiziari dei Savoia, l’assenteismo e i “pianisti” di Montecitorio). C’è però un secondo livello più metanarrativo, che articola la trattazione del tema attraverso citazioni più o meno esplicite: ecco quindi che Luigi da bambino sognava di diventare come Dennis Hopper in Easy Rider (quindi una persona libera dalle costrizioni imposte dalla società), il videopoker si rivela “un soggetto perfetto per Bram Stoker” (per come riesce a estorcere, come un Dracula con il sangue, tanto denaro grazie all’ingannevole promessa di una vincita destinata a non arrivare mai), mentre lui vive “nella camera 237” (quella di Shining, metafora della follia che rischia di essere generata dalla frustrazione). A questi rimandi espliciti vanno aggiunti altri pure evidenti ma meno lampanti: ad esempio la voce narrante di Michele Kalamera (celebre doppiatore italiano di Clint Eastwood) oppure certe sonorità alla Ennio Morricone nel ritornello, che, unitamente al paesaggio sabbioso del video, danno l’idea di un film western, di una realtà quindi cruda e difficile.

L’intento è quello di definire un universo iconograficamente derivativo, dove le citazioni permettono di innescare, su un testo rabbioso e deluso dalla realtà, una serie di rimandi virtuosi, riconoscibili dal pubblico degli appassionati (che quindi si sentono chiamati in causa da un linguaggio a loro noto), ma in grado al contempo di denunciare la miseria del vero, e la necessità di ritrovare e rifondare la fantasia.

Quindi gli eroi di un tempo non ci sono più o sono ridotti a simulacri di cartone, come Rambo, il guerriero Spartano, il Superman o il Grande Mazinga di cui Caparezza indossa i costumi, denunciandone la vetustà, ma anche il coté romantico e demodé. Ma allo stesso tempo quelle icone sono vere in quanto metafora di quell’eroismo genuino che è proprio dell’uomo, quello comune, e bisogna soltanto grattarne la superficie per rendersi conto che al loro interno si agita un cuore che palpita e merita rispetto. In questo senso la canzone sembra suggerire una sintesi fra l’eroica difficoltà del vivere che accomuna chi è “in trincea”, con le difficoltà di chi deve cercare di elaborare quel dolore artisticamente (come fa appunto lo stesso Caparezza) permettendo all’arte e alla fantasia di diventare specchio del reale. Un’opera di ricontestualizzazione di temi e figure nel nostro presente, che costituisce il valore aggiunto del lavoro di Caparezza, del suo brano e del video.

Ecco quindi che quando Caparezza/Luigi trascina con la corda che lo lega al collo la limousine del suo (si presume) datore di lavoro, il gesto diventa un qualcosa di epico che in una continua escalation permette al protagonista/eroe di farsi progressivamente carico di pesi ancora maggiori (una betoniera, un autobus, un trattore, un camion dei pompieri), sancendo la sua potenza e la sua volontà di non arrendersi. Allo stesso tempo il gioco dei rimandi celati ci fa tornare alla mente l’Uomo Gorilla, uno degli avversari dell’Uomo Tigre nell’omonima serie tv, che dava saggi della sua forza proprio trainando mezzi pesanti. La saldatura fra la realtà e la sua trasfigurazione immaginifica (di ieri e di oggi) è compiuta. Possiamo ancora continuare a sognare e sperare.

Sito ufficiale di Caparezza
Il video di “Eroe (Storia di Luigi Delle Bicocche)”
Il testo della canzone

martedì 20 maggio 2008

Carnival of Souls

Mary Henry resta coinvolta in un terribile incidente automobilistico dal quale esce molto scossa. Tornata a una vita normale accetta un lavoro da organista in una chiesa di Salt Lake City che si prospetta un luogo tranquillo. In realtà la serenità di Mary è turbata da strane apparizioni di figure spettrali che sembrano in qualche modo collegate a un enorme parco di divertimenti abbandonato, situato ai margini della statale che conduce in città. Un posto dal quale tutti si tengono alla larga e che Mary capisce ben presto di dover esplorare per capire le cause dei suoi incubi.

Esistono dei film che si cercano e altri che vengono invece a cercare l’appassionato. Magari sono pellicole a basso costo, di difficile reperibilità, che i circuiti ufficiali snobbano con pigrizia, ma che pure ogni tanto rispuntano fuori, per via diretta o indiretta. Film, insomma, che esistono e si palesano principalmente attraverso i rimandi incrociati che generano con altri film e che per questo dimostrano di essere importanti, tutt’altro che trascurabili! E sappiamo quindi che prima o poi torneranno a incrociare giocoforza il nostro cammino.

Chissà se nel 1962, quando Herk Harvey decise di prendersi tre settimane di pausa dai film industriali ed educativi che realizzava con la sua piccola casa di produzione per girare Carnival of Souls, il pensiero che stava realizzando un classico destinato a una carriera sommersa gli sarà mai balenato per la mente. Di certo la sua scomparsa, avvenuta soltanto 6 anni dopo, gli ha impedito di comprendere quanto il suo piccolo film avrebbe seminato nell’immaginario di più di un regista e di come la sua arte sarebbe stata in grado di smuovere forze precedentemente sedimentate in forme espressive altre: non è un mistero che il film debba non poco a un breve racconto come Accadde al ponte di Owl Creek, scritto da Ambroce Bierce nel 1891, la cui idea del finale a sorpresa era stata fino a quel momento relegata soltanto ad alcuni piccoli prodotti televisivi (esemplare in questo senso l’episodio The Hitch-Hiker della prima stagione di Ai confini della realtà).

Certo, Harvey in questo senso ha gettato il proverbiale sasso nello stagno, se consideriamo come altri registi, dopo di lui, gireranno storie che proprio sul rovesciamento di prospettive del finale trovano parte della loro ragione d’essere (pensiamo ad Allucinazione perversa di Adrian Lyne o Il Sesto Senso di M.Night Shyamalan).

Ma in verità non è soltanto questo il merito del suo film, quanto quello di aver saputo creare una tangibile atmosfera di orrore onirico dalla quale avrebbero attinto anche altre tipologie di racconto cinematografico: se viene spontaneo pensare a Wes Craven (che non a caso nel 1998 produrrà il remake) e alla sua saga di Nightmare, meno scontato è scoprire che una delle più belle sequenze de La terra dei morti viventi di George Romero (quella che vede gli zombi uscire dalle acque del fiume) rappresenta un chiarissimo rimando al lavoro di Harvey.

Shyamalan, Craven, Romero: il gotha del cinema fantastico dunque, che basterebbe da solo a tutelare il nome di Harvey come uno di quelli da tenere in alta considerazione nella storia ancora parzialmente scritta del cinema sommerso e dimenticato, utile a fare di Carnival of Souls un autentico caposcuola. Ma il film è comunque capace di brillare di luce propria, per la regia senza sbavature, che predilige punti di vista spesso anomali in grado di tracciare geometrie espressioniste negli spazi in cui si ambienta la storia; per la minimale musica d’organo che serpeggia in sottofondo, creando un’atmosfera di sottile inquietudine palpabile per tutta la durata del film; per la bellezza dell’ottima fotografia in bianco e nero, in grado di dare corposità alle figure (guidate dallo stesso Harvey nel ruolo del capo dei non morti) e ugualmente di mantenere quella sensazione impalpabile ed eterea tipica dei sogni.

E poi ancora per l’efficace figura di Candace Hilligoss, protagonista diafana, di chiara matrice hitcockiana nel suo rispondere allo stereotipo della “bionda in pericolo”, capace con la sua sola presenza di risultare tanto affascinante e indifesa quanto assente a se stessa, bramata dagli spettri e a tratti ignorata dai vivi: quello che la storia compie con lei è un gioco inquieto che la vede al contempo fulcro di tutto e distratta pedina nella scacchiera, icona del desiderio, preda dei “farfalloni” di turno, oppure oggetto di studio per lo psichiatra che tenta di iniettare realismo nella vicenda, ma anche fantasma tra i vivi e viva tra i fantasmi, fino alla macabra danza finale che rappresenta l’apice espressivo del film: altro momento in grado di generare sensazioni opposte, racchiuso com’è in un sentimento di pietà, poesia e orrore. Ma anche il momento che più di altri stabilisce la natura sbilenca e inafferrabile del film, la sua tendenza a non lasciarsi corteggiare dai facili schematismi per divenire invece opera libera. Perché in fondo Carnival of Souls non è soltanto una qualsiasi storia di fantasmi, è anche un malinconico oggetto filmico pregno di un particolare sense of wonder e questo, più di ogni altra cosa, è sufficiente a consigliarlo.

Carnival of Souls
Regia: Herk Harvey

Sceneggiatura: Herk Harvey, John Clifford
Origine: Usa, 1962
Durata: 74’

Il film su Internet Archive
Il racconto “Accadde al ponte di Owl Creek

venerdì 16 maggio 2008

Fuori dalle corde

Michele “Mike” Lo Russo è un giovane pugile che ha visto interrompersi la sua promettente carriera dopo una sconfitta e per questo è tornato a Trieste, dalla sorella Anna, che ha investito sulle sue vittorie l’unisca speranza per riscattare entrambi dalla povertà. Mike cerca di ripartire da zero, ma le difficoltà e il bisogno di denaro lo spingono a partecipare ad alcuni incontri clandestini. La scelta gli procura il disprezzo del suo vecchio allenatore e della stessa Anna, ma Mike va avanti, convinto com’è di poter vincere e di smettere quando vorrà. Trascinato nella spirale degli eventi imparerà a conoscere il mondo nel quale si è rinchiuso e i sacrifici che lo stesso comporta.

Frutto di una coproduzione italo-svizzera e girato nella nostra lingua, Fuori dalle corde è un interessante esempio di come sia possibile raccontare una storia, anche già vista, in modo appassionante se dietro la macchina da presa c’è un regista capace di mantenere la focalizzazione sugli eventi, dimostrando al contempo una ricerca stilistica e un controllo dei mezzi non comune. Uno dei grandi mali della nostra attuale cinematografia è infatti da ricercarsi nell’eccessiva adesione ai canoni estetici e ritmici imposti dalla fiction televisiva, che rende pertanto difficile distinguere un prodotto pensato per il grande schermo, da uno girato per il piccolo.

Fulvio Bernasconi, che proprio dalla fiction proviene, avendo girato nel 2003 il poco noto La diga, dimostra in questo senso di essere una voce fuori dal coro, ama gli argomenti poco esplorati e ha uno sguardo curioso ma non alieno rispetto alla produzione attuale: indaga il sottobosco degli incontri di boxe clandestini, ma allo stesso tempo ossequia una certa tradizione di cinema civile che usa le storie per radiografare una realtà difficile, fatta di fatiche e privazioni, ancora più rilevanti se consideriamo come lo sfondo sia quello del Nord-Est italiano, da più parti indicato come l’autentico “polmone produttivo” del Paese. Probabilmente bisognerà un giorno iniziare a riflettere sul percorso che pellicole come questa, o Riparo di Marco Simon Puccioni o La sconosciuta di Giuseppe Tornatore (giusto per citare due esempi recenti), al di là dei difformi esiti artistici, stanno descrivendo in questa realtà fino a poco tempo fa non considerata o comunque lasciata sullo sfondo rispetto a una regionalizzazione che ha sempre prediletto altre aree della nazione.

Fuori dalle corde è quindi un film di conflitti, sociali e familiari, ma anche di contrasti ambientali ed emotivi: la ricchezza del Nord-Est è messa a confronto con l’estrema precarietà in cui si muovono i protagonisti, costretti a vivere in case sul perenne orlo del pignoramento o occupando appartamenti concessi da altri; la nobiltà dello sport è rovesciata di segno in un continuo gioco di sopravvivenze che spinge a combattere in ring sordidi o, a volte, allestendo macabri spettacoli per spettatori lucrosi e compiacenti e dove l’amicizia è bandita in favore della perenne rivalità. Scenari e storie che pensavamo relegati ad altre epoche, realtà e cinematografie, ma che ora tornano a bussare alla porta dello spettatore.

Certo, la caratterizzazione generale non manca di seguire a tratti strade consolidate, facendo riferimento a facili cliché, che rendono prevedibile più di un passaggio: conviene a questo punto soffermarsi sullo stile, cupo e nervoso, scelto dal regista. Bernasconi gira quasi tutto il film con la macchina a mano, sta addosso ai protagonisti, riesce a creare tensione con poco e utilizza una fotografia poco contrastata, dove spiccano le tinte più scure, quasi a conferire un look noir al suo film, oppressivo e teso. E si affida alla fisicità del suo protagonista principale, Michele Venitucci, attore finora distintosi per ruoli in commedie e, per l’appunto, serie televisive, che opera una radicale trasformazione del suo personaggio-tipo, lavorando sulle sfumature: ne viene fuori un personaggio nervoso, istintivo, sofferente, la cui caparbietà si intreccia con la fragilità interiore di chi è in parte responsabile di quanto gli sta accadendo e in parte vittima degli eventi. Una performance non a caso premiata con il Leopardo d’Argento come miglior attore al Festival del cinema di Locarno 2007

I comprimari non gli sono da meno, e alcune scelte in questo senso sono a dir poco inusuali, rinnovando la capacità del regista di sperimentare soluzioni inedite: basti pensare alla scelta quasi paradossale di affidare a un volto noto della tv più commerciale quale è il presentatore/showman Mauro Serio il ruolo del manager che procura a Mike gli incontri. Il rischio del ridicolo involontario era in agguato, ma l’attore fa il suo dovere senza strafare e riesce a risultare credibile nel ruolo.

Paradossalmente chi convince meno è invece proprio il nome più affermato, ovvero quello della pur brava Maya Sansa, che nel ruolo di Anna appare una scelta poco indovinata, peraltro svilita da un tono grave nella recitazione che in molti passaggi risulta artificioso. Il suo personaggio viene inoltre estromesso dalla scena con troppa facilità, nel momento in cui la parte finale del film decide di concentrarsi unicamente sul protagonista.

A parte questi difetti, che ci auguriamo Bernasconi sappia analizzare per migliorare la forza narrativa dei suoi lavori successivi, siamo di fronte a un prodotto non privo d’interesse e che ci auguriamo possa trovare quanto prima una distribuzione in sala, essendo il film attualmente circolato soltanto in ambiti festivalieri.

Fuori dalle corde
Regia: Fulvio Bernasconi
Sceneggiatura: Vincenza Consoli, Fulvio Bernasconi
Origine: Svizzera/Italia, 2007
Durata: 86’

Sito ufficiale
Interviste video al cast tecnico e Making Of

mercoledì 14 maggio 2008

Paranoid Park

Alex, giovane skater di Portland, Oregon, è un adolescente che trascorre le sue giornate fra rassegnazione e indifferenza rispetto alla realtà che lo circonda: figlio di genitori separati, vessato da una fidanzata nei cui confronti non prova alcuna emozione, ha nella sua tavola l’unica consolazione e, grazie a lei e all’intraprendenza dell’amico Jared, un giorno raggiunge il mitico “Paranoid Park”, luogo culto dove si riuniscono gli amanti dello skateboard. Deciso a tornarci nel weekend, Alex vede però venir meno la presenza di Jared e vi si reca da solo: coinvolto da alcuni ragazzi nelle loro scorribande, per errore causa la morte di una guardia ferroviaria. L’inchiesta che ne segue lo costringerà a fare i conti con i sentimenti repressi.

Non ci sono in giro molti registi come Gus Van Sant, capaci di passare senza soluzione di continuità dal mainstream al cinema low-budget mantenendo sempre uno spirito fieramente indipendente. Un’indipendenza che non è vezzo, ma una vera e propria condizione dell’anima, capace per questo di riflettere sullo stile cinematografico, sulla sottile linea che divide il cosa raccontare dal come e che per questo porta ogni sua opera, anche la meno riuscita, a risultare in ogni caso un oggetto filmico curioso e particolare, con il quale è stimolante confrontarsi.

Paranoid Park è in questo senso un film che ha molto da dire: a un livello più immediato è un’indagine nell’apatia di una giovane generazione, che però non viene affrontata con piglio sociologico, quanto con uno sguardo curioso, ma anche partecipe, umanistico. La ricerca stilistica scompone la narrazione costruendo, nella prima parte, una struttura a puzzle, utile per restituire l’idea di un universo interiore diviso e caotico, dove la ricomposizione dei pezzi si accompagna alla progressiva presa di coscienza di Alex circa il fatto commesso. Il ragazzo ha infatti rimosso l’omicidio di cui si è reso involontario artefice, come probabilmente è abituato a fare con ogni suo sentimento e il suo immaginario è quello ritratto negli inserti a metà strada fra il sogno e il documentario, dove vediamo gli skater in azione, pedinati nei loro rituali, osservati all’altezza delle loro tavole mentre compiono quelle prodezze che li appagano, li elevano dalla massa ma allo stesso tempo li caratterizzano e li definiscono.

In questi momenti Van Sant si dimostra un regista in sintonia con i suoi personaggi, capace pertanto di emozionare con il lirismo naturalmente derivato dal comprendere e dal riuscire a trasmettere l’emozione che pervade i giovani eroi della tavola a ruote: i gesti sono amplificati dal ralenti e diventano quasi astratti, amplificando la sensazione di sogno, rendendo il tutto un po’ epico, sicuramente stupefacente.

Questa prima parte è però anche quella che stabilisce il legame con uno dei più celebri film del regista, ovvero Elephant, chiamato in causa attraverso le carrellate e i pedinamenti dei protagonisti lungo i corridoi della scuola. Van Sant si autocita come a voler rendere chiaro qual è il contesto in cui si trova ad agire, ma subito si distanzia dal precedente lavoro abbandonando la struttura a incastri per concentrarsi, nella seconda parte, sui pensieri di Alex, ricomponendo i passaggi che lo hanno portato a compiere il gesto violento e non voluto, e qui il ritmo rallenta, diventa ancora più attento alle sfumature. Liberata la struttura narrativa dai balzi temporali e da ogni artificio di sceneggiatura, quello che resta è l’essere umano nella sua complessità, ma anche nella sua lampante verità. Che rimane però un meccanismo insondabile.

La regia indugia sui primissimi piani di un protagonista enigmatico nel vuoto che riusciamo a cogliere nel suo sguardo, comunque permeato da una dolcezza non comune, che è quella delle persone indifese rispetto a un mondo che non li sa accettare e del quale a loro volta non si sentono parte. L’interrogatorio del poliziotto che tenta di “comprendere” i meccanismi e la fenomenologia della comunità di skater si risolve per questo in un momento dal sapore un po’ grottesco, si ha sempre la sensazione di un ingannarsi reciproco, di una distanza che anche nei momenti di avvicinamento sempre resta a dividere i due gruppi e i due mondi.

Alcune crepe però si aprono progressivamente nella storia di questo giovane ragazzo di Portland: il bisogno di raccontare a qualcuno quanto è successo si fa strada nella sua anima e la paura per l’errore si accompagna al bisogno di una figura di riferimento del quale forse Alex non aveva mai sentito davvero la mancanza, ma che d’improvviso diventa importante. Qui Van Sant gioca le sue carte nel modo più toccante perché evita ogni giudizio e si limita ancora una volta al ruolo di semplice osservatore, lasciando che Alex trovi nella parola scritta (come nel sottovalutato Scoprendo Forrester) la via per trovare un (possibile?) punto d’equilibrio nel suo animo.

In fondo è l’anima del protagonista la vera protagonista del film, la componente gialla viene infatti abbandonata in fretta, la risoluzione del caso resta in fuoricampo e l’attenzione ai sentimenti del giovane skater diventa il fulcro di tutto, l’elemento in grado di definire a sua volta il film e di elevarlo dalla massa, facendolo risultare emozionante e vero.

Paranoid Park
(id.)
Regia e sceneggiatura: Gus Van Sant, dal romanzo di Blake Nelson
Origine: Francia/Usa, 2007
Durata: 85’

Conferenza stampa sul film al Festival di Cannes 2007
Sito ufficiale francese
Sito ufficiale inglese
Speciale sul film

lunedì 12 maggio 2008

Speed Racer

Dopo aver perso il fratello Rex in una gara automobilistica, il giovane Speed Racer è diventato un asso del volante allo scopo di riabilitarne il nome: perciò gareggia con la sua auto Mach 5 in un campionato dove però tutto è già deciso, come gli rivela spietatamente il manager Royalton, che vorrebbe annetterlo alla sua scuderia. Forte dell’indipendenza sempre difesa dal padre, ingegnere meccanico, Speed combatte contro il potere rappresentato da Royalton, imparando a sue spese le insidie della competizione e la necessità di diventare un tutt’uno con la sua auto.

Un ritorno gradito, quello dei fratelli Wachowski, troppo ingenerosamente accantonati dopo le affascinanti derive della trilogia di Matrix e che oggi rientrano, letteralmente, in pista per trasporre su grande schermo un cartoon di culto proveniente dal Giappone degli anni Sessanta: la serie Superauto Mach 5 Go! Go! Go!, creata da Tatsuo Yoshida per lo Studio Tatsunoko, è infatti ossequiata con riverenza dal versante estetico (l’aderenza di attori e mezzi al modello è maniacale) ma gioca poi le sue carte sul piano di una libertà formale che ci dice molto sulle possibile strategie applicabili al cinema del terzo millennio.

L’intento dei due fratelli terribili è infatti quello di far compiere un balzo in avanti alle tecniche del moderno cinema digitale, già sperimentato da altri registi con 300 e Sin City, creando un ibrido che stia a metà strada fra il divertissement più infantile e la riflessione teorica sulla smaterializzazione dell’immagine, riconfigurata secondo l’estetica del cartoon: la fotografia esalta per questo i toni pop e riduce quasi a zero la profondità del campo per riprodurre la bidimensionalità del disegno animato, mentre le coreografie pirotecniche concretizzano il sogno di ogni bambino che almeno una volta abbia tentato di far compiere alle sue automobili giocattolo le prodezze più impensate, in barba a ogni regola stabilita dalla gravità, dalla fisica e dallo spazio-tempo.

Speed Racer è perciò un film dove si respira un senso di grande libertà e di voglia di rompere gli schemi, ma anche di palpabile divertimento e di voglia di stabilire una contagiosa empatia con lo spettatore, grazie a un quadro ricchissimo di particolari e di movimento. In questo senso la storia stessa si eleva chiaramente a un livello metaforico riproponendo le tematiche del già citato Matrix: la rottura di un sistema oppressivo che costringe la vitalità degli esseri viventi in schemi dove ogni gerarchia è già stata decisa, e ogni partecipante è già incasellato in un ruolo. Come il messianico Neo, Speed si pone dunque ancora una volta come elemento di rottura rispetto al già visto e al già fatto, e trasporta il film verso un’astrazione visiva che nel vorticoso finale impasta i colori e descrive geometrie a folle velocità: le linee cinetiche attraversano lo schermo descrivendo geometrie fantastiche che si ritrovano anche negli sfondi onirici dove agisce il fratellino Spritle con la sua scimmietta Chim-Chim, e lo spazio viene fluidificato in un continuo scorrere di inquadrature dove gli stacchi fra una scena e l’altra avvengono vorticosamente, con un effetto a tendina che di fatto iscrive ogni luogo nel successivo e trasmette l’illusione di una continua danza delle immagini. E’ il momento in cui prende vita il sogno del piccolo Speed, che all’inizio del film vediamo durante le ore di lezione a scuola immergersi negli scenari della corsa e disegnare sul suo quaderno le scene della gara, poi “animate” facendo semplicemente scorrere le pagine, come agli albori della macchina-cinema.

La storia cede quindi il passo alla sperimentazione visiva, e procede attraverso gli archetipi che sono poi quelli della più classica fiaba: un sogno inseguito a lungo e una comunità/famiglia che accoglie l’eroe e lo sostiene nei momenti di difficoltà ricordandogli come il lavoro di squadra e la connessione con il mondo (e con le sensazioni trasmesse e provate dalla sua auto) siano la carta migliore per vincere. L’accento posto sui buoni sentimenti non è stucchevole poiché rientra nella categoria del gioco infantile, quasi naif nella sua ricercata ingenuità, utile a fornire alcuni punti fermi allo spettatore lungo la vorticosa strada percorsa dalla Mach 5. Non è casuale che rispetto al cartoon l’accento sulle prodigiose capacità della vettura siano tenute in second’ordine e che i suoi fantastici gadget (che i produttori giapponesi ripresero dalla mitica Aston Martin di James Bond dopo aver visto Missione Goldfinger) siano utilizzati molto poco rispetto alla durata globale. Perché questo è un cinema focalizzato soprattutto su una parificazione uomo-macchina che quindi non crea scompensi e vantaggi a favore di una delle due parti: la vittoria non a caso arriva quando Speed capisce che deve armonizzare se stesso alla vettura, capirne le necessità e sfruttarne la forza, creando una sinergia nuova che scavalchi le dicotomie classiche.

In questo senso capiamo meglio anche il vituperato finale di Matrix Revolutions con la sua pacificazione uomo-macchina, primo tassello di un percorso volto proprio al superamento della semplice vittoria di una sola delle due parti in campo. Ai due fratelli interessa una deriva nuova, un sincretismo che mescoli gli opposti e crei delle soluzioni originali. Che è poi quello che il film fa, rivelandosi allo stesso tempo estremamente smaliziato e innovativo dal versante visivo e narrativamente semplice e di facile fruizione. Ben distante, per fortuna, dalla malizia che si ritrova in altri esperimenti di cinema digitale (pensiamo agli Spy Kids di Robert Rodriguez) o al freddo accademismo dell’ultimissimo Robert Zemeckis.

La solidità del progetto è peraltro garantita dal team di effettisti capitanati dall’ottimo John Gaeta (allievo del Douglas Trumbull di 2001: Odissea nello spazio) e da un cast di tutto rispetto dove, accanto a grandi nomi come Susan Sarandon e John Goodman troviamo volti cult come Richard Rountree (mitico interprete di Shaft) e l’astro emergente Emile Hirsch, reduce dal bellissimo Into the Wild di Sean Penn.

Speed Racer
(id.)
Regia e sceneggiatura: Larry e Andy Wachowski, dalla serie animata creata da Tatsuo Yoshida.
Origine: Usa, 2008
Durata: 135’

Sito ufficiale italiano
Sito ufficiale americano
La trama della serie animata
Tatsuo Yoshida su Wikipedia
Video del film con sigla italiana del cartoon

venerdì 9 maggio 2008

Mobile Suit Gundam

Anno 0079 dell’Era Spaziale: un terribile conflitto è scoppiato tra la Federazione Terrestre e il sistema di colonie orbitanti che fa capo al Principato di Zeon. Dopo che nei primi otto mesi di guerra entrambe le parti hanno sopportato ingenti perdite, si è giunti a una situazione di stallo che sembra sbloccarsi quando la Federazione costruisce il Gundam, un prototipo di robot dotato di prestazioni superiori rispetto ai modelli usati da Zeon. A pilotare il Mobile Suit si ritrova del tutto casualmente il giovane Amuro Ray, arruolato forzatamente nell’equipaggio della White Base, l’astronave federale di ultima generazione che, dopo essere stata attaccata durante il primo viaggio, si ritrova dietro le linee nemiche: attraverso numerose battaglie l’equipaggio segna numerosi punti a favore della Terra e impara gradualmente a conoscersi e a fare fronte comune contro i problemi personali e militari. Il duello fra Gundam e Zeon si incarna nella rivalità che immediatamente si stabilisce fra Amuro e Char Aznable, il più valoroso guerriero del Principato spaziale, che in realtà nasconde un passato drammatico. Entrambi scopriranno nel corso della guerra di essere dotati di poteri psichici, nuovi esemplari della razza di Newtype destinata a guidare l’umanità verso la fine dei conflitti.


La recente uscita in DVD ha finalmente permesso di godere nel migliore dei modi della serie animata di culto creata nel 1979 da Yoshiyuki Tomino, donandole una visibilità finora mai garantita dai confusi passaggi televisivi: forse la verità è che Mobile Suit Gundam ancora oggi risulta un cartoon troppo avanti rispetto agli standard settati dalle programmazioni impazzite del piccolo schermo italiano, per la ricchezza dei suoi contenuti e per la fitta continuity che rende ogni episodio un piccolo tassello di una storia più grande e perfettamente compatta (nelle intenzioni originarie di Tomino non a caso si nascondeva il desiderio di realizzare un film dal vero).

Di più: Gundam è avanti anche rispetto alle aspettative dell’anime-fan medio, troppo spesso attento a classificazioni e a divisioni fra “tominiani” e non, e che per questo nel tempo si è preoccupato soprattutto di evidenziare la netta cesura che la storia marca rispetto alle serie robotiche classiche alla Mazinger. Lo scenario stavolta è realistico e credibile poiché viene meno tanto l’elemento extraterrestre, quanto il classico nemico che riverbera gli spettri della mutazione corporea (pensiamo ai cyborg mikenei del Grande Mazinger), quanto un intreccio che affonda le sue radici nella Storia e nel Mito (il regno Jamatai di Jeeg Robot o l’Impero dei dinosauri di Getter Robot). Allo stesso modo il robot (ribattezzato “Mobile Suit”, armatura mobile) è un modello costruito in serie all’interno di un contesto bellico dove vediamo le due parti in causa (la Terra e le colonie orbitanti) impegnate nella realizzazione di modelli sempre più potenti per la vittoria (quindi niente Istituti di ricerca sull’Energia Fotoatomica, Fortezze delle Scienze o laboratori privati di vario genere): il pilota quando combatte ha a disposizione un numero di colpi limitato, poche armi e un libro di istruzioni per capire quali sono i comandi. Tutto molto credibile insomma.

In realtà, se adottiamo una prospettiva più distaccata è facile rendersi conto di come Tomino, pur negando molte delle regole care al genere classico dei Super Robot, nello stesso tempo ne riutilizzi e ne affermi nuovamente molti cliché: ecco dunque che la White Base viene a porsi come moderna variante dei laboratori classici, o che il Gundam è comunque un robot di livello superiore, dotato di una corazza inscalfibile e di prestazioni che lo elevano di parecchio dai modelli concorrenti, rendendolo unico e quindi non serializzato. E allo stesso tempo alcune delle sue armi (come le Spade Laser) sono tutt’altro che “credibili” se analizzate da un contesto scientifico. Inoltre, sebbene la vicenda rispetti la continuity, Gundam è costretto ad affrontare una battaglia in ogni episodio, rispettando quindi la regola principale del genere robotico e non facendo venir meno spettacolo e tensione.

Il discorso quindi non deve focalizzarsi troppo sulle regole o sugli schematismi narrativi perché l’originalità non è il fine della storia, e il lavoro di Tomino ha ben poco di autocelebrativo o referenziale: l’obiettivo finale è infatti quello di prendere lentamente per mano lo spettatore guidandolo verso derive inaspettate, allo scopo di aprire una via che poi saranno altri (pensiamo alla saga di Macross) a completare per condurre il genere verso nuove coordinate.

D’altronde non si può pretendere che Tomino non abbia ossequiato alcuni modelli, come la saga di Star Wars (nonostante il regista abbia dichiarato il contrario, i debiti verso Luke Skywalker e soci sono troppo evidenti per poter essere smentiti), ma soprattutto è importante notare come abbia tentato di scardinare in modo progressivo la centralità del robot per imbastire un racconto dalla qualità squisitamente umana. In questo senso Mobile Suit Gundam applica alla saga di fantascienza un impianto tipico della soap opera o del feulleiton, mostrandoci protagonisti che imparano a crescere fra mille difficoltà, facendo i conti con le prime pulsioni amorose (pensiamo al commovente arco narrativo che vede coinvolti Amuro e Matilda, oppure a quello di Garma Zabi e Icelina), e i loro destini risultano a volte invischiati in complesse trame familiari che preludono a tragiche conclusioni (esemplare in questo senso il personaggio di Char).

Il vero snodo fondamentale è quindi dato dall’introduzione dei Newtype, super-individui che costituiscono la vera chiave per l’affrancamento dell’uomo dal suo robot (è infatti in quel momento che le prestazioni di Gundam diventano “lente” rispetto alla maturazione cui è raggiunto Amuro) e che perciò riafferma, insieme al messaggio di speranza per il destino dei popoli in lotta, anche la centralità dell’essere umano come creatura superiore: concetto da non intendersi secondo le interpretazioni più aberranti delle dottrine nietzschiane, e infatti sono i miseri umani di Zeon a fare proprie le teorie superomiste più radicali, diventando tragico spettro del nazismo. Viceversa siamo invece più vicini a uno spiritualismo di marca comunque laica e non strettamente religiosa, che ricerca nella realtà quotidiana alcune figure-guida che possano fornire un messaggio di conciliazione e pace (e anche in questo caso si può tracciare un altro parallelo con Star Wars e i Cavalieri Jedi). Il destino dei robot, insomma, è ormai segnato e trattandosi di un’opera di fantascienza, la reale sostanza iconoclastica del lavoro di Tomino risulta davvero significativa.


Mobile Suit Gundam
(Kido Senshi Gandam)
Regia: Yoshiyuki Tomino
Sceneggiatura: Hiroyuki Hoshiyama, Yoshihisa Araki, Masaru Yamamoto, Kenichi Matsuzaki, Yoshiyuki Tomino (da un’idea di Hajime Yatate e Yoshiyuki Tomino)
Origine: Giappone 1979
Durata: 42 episodi

mercoledì 7 maggio 2008

La guerra dei mondi (2005)

Ray Ferrier, operaio navale rozzo e immaturo, sta trascorrendo il weekend con i figli quando il mondo viene improvvisamente attaccato da una razza aliena la cui potenza si rivela inarrestabile: con i loro tripodi, nascosti in un tempo indefinito nelle viscere della Terra fino al momento dell’invasione, gli extraterrestri sterminano ogni difesa e usano il sangue umano per fertilizzare il terreno e renderlo idoneo alla crescita delle piante del pianeta d’origine. Per Ray e i ragazzi l’unica speranza è riposta nella fuga verso Boston, dove si trova Mary Ann (l’ex moglie del protagonista), facendosi largo in un mondo devastato, fra le violenze degli alieni, le paure degli uomini e le indecisioni di un carattere che non ha mai voluto assumersi le proprie responsabilità.

Ci voleva Steven Spielberg per iniziare una riflessione sulle attuali possibilità di rappresentazione dell’Apocalisse e sui modi di rielaborazione della ferita prodotta dalla tragedia dell’11 settembre attraverso i linguaggi di genere. Quale modo migliore, dunque, se non quello di tornare ancora una volta al classico romanzo di Herbert George Wells che per primo aveva dato forma alla fobia per l’attacco improvviso di una minaccia dai confini talmente vasti da risultare inafferrabili? D’altronde i decenni passati hanno già dimostrato perfettamente la natura paradigmatica della storia, la sua capacità di adattarsi ai vari contesti storici e l’abilità nel toccare i nervi scoperti della società, solleticandone paure e ossessioni, veicolando perciò una potenza emotiva non trascurabile. Così era stato nel 1938 della trasmissione radiofonica di Orson Welles (alla vigilia di un nuovo conflitto mondiale) e poi nel 1953 della prima trasposizione cinematografica (in piena ossessione da Guerra Fredda e “pericolo rosso”).

Per fare questo Spielberg fa sua la lezione appresa sul set di Salvate il soldato Ryan e si immerge nel vivo dell’azione, unendo la suspense alla voglia di far prendere i giusti tempi al racconto, rallentando dove serve, come nella magistrale sequenza dell’emersione del primo tripode dal terreno, dove tutto è dilatato, quasi sospeso e ci si sofferma sulle sensazioni della gente, con un taglio che ha un sapore più realistico del solito, che ci appare familiare: è la tempistica e il tipo di racconto dell’attentato alle Torri Gemelle, dei servizi dei telegiornali che all’epoca riprendevano il fatto, sapientemente adeguata al linguaggio della fiction. Alla spettacolarità fragorosa delle sequenze catastrofiche, poi, corrisponde sempre uno sguardo spaesato e sorpreso degli interpreti, un dettaglio sugli occhi persi nella vana ricerca della comprensione di ciò che sta accadendo. Quando i fulmini e le strane formazioni nuvolose fanno la loro comparsa, o quando il tripode emerge dal sottosuolo la gente che si affolla sul luogo più che spaventata è sorpresa, a tratti quasi meravigliata e divertita, sicuramente perplessa, cerca di comprendere cosa stia accadendo, salvo rendersi conto troppo tardi della verità. Qui Spielberg rovescia di segno una delle figure retoriche tipiche del suo cinema, ovvero l’estasi e la meraviglia di fronte all’evento inatteso, che era quella propria degli Incontri ravvicinati: la curiosità dello sguardo prelude alla scoperta dell’orrore (non a caso Ray incita spesso la figlia Rachel a tenere gli occhi chiusi e in un caso arriva anche a bendarla) e gli unici occhi che riescono davvero a relazionarsi con la reale portata dell’evento, ovvero quelli impersonali e asettici delle videocamere più o meno professionali che fanno capolino qua e là, sono destinati a restare materia debole, che cade per terra continuando inerzialmente a filmare, oppure a fornire poca materia per lo scoop delle troupe televisive.

La razionalità è dunque bandita e in questo senso l’unica cosa da fare è fuggire. Infatti il film adotta una prospettiva che a tratti risulta quasi grottesca, delirante, affastella immagini improvvise senza spiegazioni (il treno infuocato che continua la sua corsa impazzito sulle rotaie), affida al caso e all’istinto la sorte dei suoi personaggi e riprende anche lo splendido finale del romanzo, che dimostra come non sia l’abilità degli uomini, ma la provvidenza a garantire loro la salvezza. Un messaggio che è una sorta di dichiarazione di resa all’impalpabile, al non comprensibile dalle forze dell’intelletto e della razionalizzazione, ma anche un forte appello alla speranza e alle qualità proprie dell’essere umano, destinato naturalmente a sopravvivere.

Attraverso una struttura che dunque attinge molto dal romanzo originario e cita anche il capostipite del 1953 in più passaggi, Spielberg realizza una versione comunque autonoma dai modelli, dove i protagonisti sono costretti a vere e proprie performance fisiche, nell’acqua e nel fuoco, e noi spettatori siamo partecipi dell’esperienza sensoriale. Già, perché La guerra dei mondi è una delle più incredibili esperienze cui siamo stati resi partecipi negli anni: come evidenziato poco sopra, infatti, non è un film da “capire”, ma da vivere fisicamente, capace come pochi di trasmettere il senso del baratro nel quale ci si ritrova improvvisamente scaraventati, di far sentire piccoli di fronte alla minaccia globale, tutti uniti di fronte a un pericolo inarrestabile. Un film dove ogni artificio tecnico è quindi orientato a far risuonare le corde dell’animo: dagli ottimi effetti speciali della Industrial Light Magic, alla fotografia abbacinante di Janusz Kaminski, che utilizza luci “sparate” e immerge tutto nel rosso del sangue o nel bianco dei corpi polverizzati dal laser dei tripodi, al colossale lavoro del reparto sonoro, che bombarda i sensi creando un effetto stordente, che trova nel cupo suono delle macchine aliene il suo acme. E le sequenze memorabili in questo senso si sprecano, dalla fuga sul traghetto al tesissimo nascondino nella cantina, ai vari momenti in cui le percezioni sono sollecitate e tarpate attraverso il passaggio dalla luce al buio, dalla calma al caos (e in quei momenti la sensazione di immersione in quella guerra evocata dal titolo è davvero forte).

E’ questa componente a costituire il cuore pulsante del film, a fronte di una costruzione dei caratteri meno indovinata, maggiormente ossequiosa di una serie di cliché (nonostante l’interessante scelta di affidare a un divo come Tom Cruise un ruolo da persona immatura e un po’ sgradevole), che hanno fatto storcere il naso a parte del pubblico, ma che comunque non sminuiscono la forza emotiva dell’insieme. E’ il potere del cinema, dopotutto!

La guerra dei mondi
(War of the Worlds)
Regia: Steven Spielberg
Sceneggiatura: Josh Friedman e David Koepp, dal romanzo omonimo di Herbert George Wells
Origine: Usa, 2005
Durata: 112’

Intervista a Steven Spielberg
Sito ufficiale americano
Articolo su H. G. Wells
Analisi critica del romanzo

lunedì 5 maggio 2008

Saw: La saga dell'Enigmista

Con tutta probabilità, fra dieci o vent’anni, quando si vorranno tracciare le coordinate dell’horror di inizio millennio, una saga come quella di Saw verrà ricordata come una delle più significative di questi anni, a prescindere dal reale valore artistico delle singole pellicole: ci troviamo infatti di fronte a una serie che come poche altre ha saputo assurgere dalle pratiche basse (in senso figurativo, narrativo e soprattutto economico) agli allori del grande pubblico, reinventando al contempo un filone e codificando un’estetica che ha fatto scuola, tanto da creare un sottogenere denominato icasticamente “torture porn”: qualcosa in più del semplice splatter movie, insomma, dove la dimensione della carne martoriata assume una connotazione differente rispetto a quella delle grandi saghe anni Ottanta come Nightmare o Re-animator, più vicina alle efferatezze del reale, aliena dall’afflato fabulistico che rendeva grandi i boogeyman come un Michael Myers o un Fred Krueger o dal lirismo epico dell’Hellraiser di Clive Barker. Quello che si palesa all’occhio dello spettatore (parte in causa nella vicenda, come suggerisce il sibillino titolo che ammicca al verbo “to see”, “vedere”) è un orrore ammantato di normalità, dove il killer di turno (interpretato dall’ottimo caratterista Tobin Bell) è un malato terminale di cancro, dedito a una malsana crociata contro l’ignavia del presente, di chi non dà alla vita il giusto peso.

Una questione di prospettive dunque, per una vita da alcuni rifiutata e trattata con sufficienza e da altri anelata come un dono prossimo a sfuggire: ma è una prospettiva non filosofica, quanto estetica e teorica. Perché in sé la saga finisce naturalmente per diventare un polo attrattore di pulsioni malsane che sono quelle di una realtà attraversata da orrori quotidianamente elargiti al pubblico, che costringono il cinema ad espandere ancora una volta le frontiere del visibile - e ciascuno scelga i possibili riferimenti, dalle guerre, alle torture nelle carceri militari, alle violenze consumate con rassegnata inevitabilità nei contesti più disparati. Il quadro risulta per questo più oscuro e lercio, il dolore è tangibile e fisico, le luci diventano acide e le tinte sono incupite: più che il rosso del sangue dominano il verde e il nero, i colori degli umori corporei di un mondo incancrenito. Prospettiva estetica, appunto.

Ma allo stesso tempo entra in gioco una dimensione che è quella di genere, del meccanismo thriller che nelle mani dei due registi al momento transitati dietro la macchina da presa (James Wan e Darren Lynn Bousman) diventa una sorta di prolungamento dei sadici rituali tipici dei Reality Show (più volte tirati in ballo nelle sceneggiature), ovviamente amplificati all’ennesima potenza. La prova da superare, la trappola pronta a far scattare il suo inesorabile meccanismo di morte, sono il riflesso di un sentire la vita come proscenio dove ogni gerarchia è bandita e tutti sono potenziali giocatori che devono mettere in palio le proprie inibizioni, i propri sentimenti, definiti attraverso le azioni del passato e le scelte del presente per potersi garantire un futuro.

Il meccanismo di genere si presta poi a interessanti elaborazioni che coinvolgono ancora una volta il punto di vista, attraverso l’uso del classico “twist ending”, il finale a sorpresa che rivela quasi sempre come la prospettiva da cui andava inquadrata la storia fosse tutt’altra rispetto a quella enunciata in apertura di gara, di come la verità spesso si annidi nei piccoli indizi e nelle parole sussurrate dal killer/giudice. Un demiurgo a sua volta sottoposto a inevitabili processi di revisione del proprio ruolo, un po’ carnefice, un po’ vittima, il cui passato è svelato progressivamente per arricchire e stratificare la già complessa macchina di relazioni con le vittime e i discepoli di turno. Prospettiva teorica quindi.

Inquadrando poi la saga nella storia dell’horror recente, ci si rende conto delle sue filiazioni più o meno riuscite (dagli Hostel di Eli Roth, agli esperimenti isolati come Captivity), ma soprattutto di come sia fra i pochi franchise a vantare un sequel realizzato con cadenza annuale, con una progressiva logica di delirante accumulo delle trappole e una continua impennata nella classifica delle efferatezze su schermo: a ripensare oggi ai postulati teorizzati da Wes Craven e Kevin Williamson con la saga di Scream (il sequel è più spettacolare e con più morti, il terzo capitolo è quello che fa il punto della situazione) vien da pensare come Wan e Bousman abbiano applicato la regola in modo quasi certosino, da bravi scolari del sadismo.

E in fondo è proprio qui il cuore di tutto: la capacità di osservare una perfetta pianificazione, attraverso una narrazione stratificata e conscia dei linguaggi, delle derive passate e presenti del genere e degli immaginari dai quali attingere, senza abbandonare una deriva più marcatamente sgangherata, exploitation, tale da far credere che si sia di fronte a un prodotto febbricitante di una qualche malsana energia. Di sicuro in sintonia con i gusti del pubblico attuale, come dimostra il costante successo di una storia che, giunta momentaneamente al quarto capitolo e nonostante la dipartita del protagonista, non accenna a volersi fermare.

(Per un inquadramento storico-critico del “torture porn” e della saga di Saw si consiglia la lettura del Nocturno Dossier n.67 “The Incredibile Torture Show”)

La saga sul sito Lionsgate (in inglese)
Sito dei fans: Officialsaw.com (in inglese)
Sito di Tobin Bell (in inglese)
Sito italiano di Saw IV

sabato 3 maggio 2008

Biblioteca EC Comics

Davvero una bella iniziativa questa della 001 Edizioni, che da alcuni mesi ha dato alle stampe la raccolta integrale e filologica delle storie a fumetti pubblicate nei celebri albi americani della E.C. Comics, Tales From the Crypt e Weird Science, dedicati rispettivamente all’horror e alla fantascienza.

E’ un altro importante tassello di memoria che viene quindi recuperato, e ci permette di far luce su quella che potrebbe essere definita come la quarta “pietra angolare” dell’immaginario fantastico anni Cinquanta degli Stati Uniti, insieme ai film di fantascienza di Jack Arnold, alle apparizioni televisive di Vampira e alla serie tv Ai confini della realtà. Cinema, televisione e fumetto, inestricabilmente legati tra loro a formare un tessuto narrativo e iconico fecondo e iconoclasta, dall’impatto epocale e devastante nella storia del costume americano, buono per indagare nelle fantasie oscure di un periodo da sempre dipinto come l’apoteosi del viver felice, pulsante però di umori immaginifici e di storie che aspettavano solo di essere raccontate.

A raccogliere la sfida fu un placido omone di nome William Gaines, che aveva ereditato alla fine degli anni Quaranta il piccolo impero cartaceo degli “Educational Comics”, guidato dal padre Max, scomparso prematuramente in un incidente navale: intenzionato a diventare insegnante di chimica, William Gaines si buttò a capofitto nella nuova impresa, rovesciando completamente di segno lo standard sino a quel momento tenuto dalla casa editrice, specializzata in storie dall’alto valore educativo/pedagogico (racconti dalla Bibbia, albi a sfondo scientifico e via citando), e dando così sfogo all’interesse per il fantastico condiviso con lo sceneggiatore Al Feldstein. Il nome stesso del marchio fu cambiato in Entertaining Comics e, nel 1950, l’antologia di racconti polizieschi Crime Patrol divenne The Crypt of Terror, per poi assumere, dopo tre numeri, la denominazione definitiva di Tales From the Crypt, presto affiancata da The Vault of Horror e The Haunt of Fear, mentre la collana western-avventurosa Saddle Romances mutò in Weird Science.

A completamente del restyling vennero introdotti i celebri “host”, come il Guardiano della Cripta (che da noi divenne il celebre Zio Tibia), il Custode della Tomba e La Vecchia Strega (li potete ammirare in basso nel divertente disegno di Al Feldstein che li vede riuniti insieme allo stesso William Gaines), che avevano il compito di “introdurre” i vari racconti con un salace commento, destinato a esaltare soprattutto l’humor nero delle storie. Già, le storie: poco ricordate o messe in secondo piano rispetto alla rivoluzione iconografica di un fumetto che si accollò il compito di esplicitare i sottotesti e mostrare creature e scene di violenza inaudite per gli standard del fumetto dell’epoca, diventando antisegnani di quel filone oggi noto come “splatter”!

Altra caratteristica significativa degli albi fu la loro capacità di mediare fra gli immaginari di tutte le epoche fino a quel momento trascorse, dal periodo d’oro dell’horror cinematografico degli anni Trenta (con in testa i film di mostri della Universal) al noir degli anni Quaranta, a classici della letteratura come “Le mani di Orlac”, di Maurice Renard, fino ai kammerspiel laceranti e basati su una rigida osservanza degli schemi del thriller cari ad Alfred Hitchcock. Vittime predestinate di una sorta di beffarda legge morale erano gli uomini di ogni estrazione sociale alle prese con le proprie debolezze inconfessate e lasciate esplodere: una follia che apre le porte all’elemento soprannaturale, come logico strumento di equilibro contro le malefatte, contro l’incapacità di tenere a freno l’irrazionalità delle pulsioni che spesso sfocia nella mostruosità interiore, nell’omicidio o nel tradimento delle persone fidate.

Alle penne di Al Feldstein o dello stesso Gaines si accompagnava una squadra di valenti disegnatori dal taglio difforme: c’era il tratto corposo e molto fisico, spesso volutamente grottesco, di Johnny Craig e Jack Davis, o gli stili più moderni e visionari di Wally Wood e Graham Ingels. Di sicuro fra queste pagine è transitata una delle migliori selezioni di talenti dell’epoca, tanto da far preoccupare la concorrente DC Comics che, si mormora, cavalcò per questo l’onda del malcontento perbenista che arrivò ben presto a presentare il conto a Gaines per la sua irriverenza. La pubblicazione del libro “Seduction of Innocents”, dello psichiatra Frederick Wertham, che nel 1954 teorizzava il legame fra i fumetti EC e la delinquenza giovanile, costrinse l’editore a cessare le pubblicazioni, chiudendo una fortunata stagione e portando alla creazione del Comics Code Authority, organo preposto al controllo preventivo e all’eventuale censura delle storie troppo violente.

Distribuite negli anni in Italia spesso in forma di antologia e da lungo tempo introvabili, le storie della EC oggi tornano a noi con un’edizione che al momento prevede 10 albi (nel momento in cui scriviamo sono usciti 4 volumi su 6 di Tales From the Crypt e 2 su 4 di Weird Science). Rileggendole, e superate le ovvie ingenuità di un approccio che ha almeno mezzo secolo sulle spalle, si prova il sapore dell’immersione in una realtà altra, meravigliosa nella sua mostruosità, divertente ma a tratti anche drammatica per la lucidità con cui è capace di costruire brevi racconti morali (se non proprio moralistici) con pari attenzione alla componente spettacolare e a quella psicologica, evidente nei tormenti e nei sensi di colpa degli sventurati protagonisti. Ma anche, e soprattutto, spicca una formula capace di far propri gli stimoli e creare un immaginario dal quale attingeranno le forme di intrattenimento più disparate, dal cartoon (con la serie giapponese di Bem il mostro umano) alla televisione (con l’italiano Venerdì con Zio Tibia e la serie di telefilm americani Tales From the Crypt), oltre ovviamente al cinema, che vede nel Creepshow di George Romero l’esempio più macroscopico dell’influenza esercitata da Gaines, Feldman e compagni sulle future generazioni di creatori di sogni (e la notizia di un progetto riguardante proprio un biopic su Gaines ad opera di John Landis non è che l’ultima della serie). Anche per questo tutti noi siamo un po’ debitori a questi fumetti e oggi possiamo celebrare la loro arte con più cognizione di causa.

Sito della 001 edizioni
La storia di Zio Tibia
Sito di Al Feldstein

giovedì 1 maggio 2008

Sotto le bombe

Libano 2006. Dopo 33 giorni di bombardamenti da parte dell’esercito israeliano è entrato in vigore un cessate il fuoco sotto l’egida dell’ONU. Zeina, da Dubai torna dunque nel suo paese natale per ritrovare il figlio Karim, che vive in un villaggio del Sud. Arrivata a Beirut cerca un passaggio, ma nessuno ha il coraggio di intraprendere un viaggio che si preannuncia costellato di pericoli. Alla fine è Tony, autista di taxi, ad accompagnarla: l’uomo è cristiano, mentre Zeina è sciita. Il viaggio alla ricerca di Karim diventa per i due un’occasione di confronto fra realtà differenti, sullo sfondo di un paese devastato dalla guerra.

Ancora un atto di fede nel cinema, ancora una folgorazione nel buio della sala. E’ quella che ci fa provare Philippe Aractingi con questo suo film, inseguito con pervicacia e con notevole rischio personale: Sotto le bombe nasce infatti come risposta alla distruzione portata dal conflitto israelo-libanese dell’estate 2006, come tentativo non soltanto di testimoniare il dolore del e per il paese sventrato dai bombardamenti, ma anche come atto creativo che si oppone allo smantellamento della realtà in atto. Un cinema capace dunque di fondere l’impegno alla passione e allo slancio artistico: ed è un cinema che si materializza in seguito a un urgenza, che non perde tempo e che vede Aractingi impegnato con una scarna troupe e pochi attori professionisti (il resto lo faranno le persone reali, che in quel momento soffrono e tentano di sopravvivere nella caotica situazione bellica) nei giorni stessi del bombardamento, per filmare le prime scene. Il resto è venuto dopo, quando il cessate il fuoco ha permesso di dare il via alla seconda fase delle riprese, quando si è potuto organizzare la storia e permettere alla toccante vicenda di Zeina di diventare cinema.

La componente documentaristica si è quindi fusa a quella di fiction, testimoniando il doppio registro sul quale il film viaggia continuamente, quello dello sguardo empatico sulla realtà, ma anche quello artistico, che attraverso la finzione cerca di guidare lo spettatore in un percorso umano di rara sensibilità, emozionante e capace di elaborare il dolore producendo un risultato vitale. D’altronde lo stesso Aractingi è un personaggio molto singolare in questo senso, ha un passato da documentarista, ma si è poi distinto con un musical, Bosta (inedito in Italia), che è risultato un enorme successo commerciale ed è stato candidato ai Premi Oscar 2006, e ne ha testimoniato la personalità eclettica e in grado di unire le influenze più disparate.

Sotto le bombe è in questo senso un film composito, dove non a caso l’intera progressione è attraversata da sentimenti difformi: ci sono momenti leggeri, dove il sorriso arriva a stemperare la drammaticità della situazione, e altri invece molto duri, e tutto si riassume nel paesaggio, che è il vero terzo personaggio dell’azione. Uno spazio di rara bellezza come è quello del Paese dei Cedri, che la macchina da presa accarezza con intensità e partecipazione, rendendo tutti noi partecipi dei colori e dei sapori di una terra che non merita il martirio cui è sottoposta. Uno spazio, perciò, anche ferito, costellato di macerie la cui miseria contrasta drammaticamente con i colori caldi della terra e dei paesaggi illuminati dal sole.

L’opposizione molto forte tra vita e morte, solarità e macerie, si riflette ovviamente anche nella dicotomia esistente tra Zeina e Tony: non soltanto per la diversa estrazione culturale e religiosa che rende i due personaggi opposti, ma anche per l’evidente differenza di ceto, lei ricca, ben vestita e affascinante, lui proletario e impacciato. Lo sguardo di Aractingi non giudica, ma cerca le occasioni perché i due possano imparare a conoscersi, siamo capaci di apprezzarsi per la rispettiva carica umana, possano comprendere i rispettivi dolori e le difficoltà che hanno attraversato nel corso della loro vita. L’esperienza comune diventa per questo qualificante e ogni piccolo arco narrativo assume un significato preciso nell’insieme, permettendo al rapporto di perdere la sua caratura opportunistica e merceologica: la ricerca di Karim, quindi, diventa ben presto per entrambi una necessità umana, che li vede uniti dopo che lui aveva inizialmente accettato di attraversare il paese soltanto dietro la promessa di un lauto compenso.

Allo stesso tempo, però, Aractingi è attento a non cadere nelle facili trappole del sentimentalismo spicciolo e un po’ ruffiano, ma lavora anzi sui dettagli, sui piccoli gesti e le situazioni, non esplicitando mai quanto si va sviluppando fra i due viaggiatori, dribblando il facile approdo amoroso e raccontando invece di una solidarietà umana: possiamo vederla come un’amicizia, un affetto, ma ciò che conta è la progressiva comunanza di vedute che permette ai due di superare gli ostacoli frapposti dalla società, dal ceto e dalla formazione religiosa per aprirsi a un universalismo molto forte, che costituisce il messaggio di speranza del film.

Aractingi non emette giudizi politici o storici sulle responsabilità delle fazioni in lotta, non ci parla di Israele o degli Hezbollah, poiché non è interessato ad accusare, quanto a cercare un punto di fuga che permetta al suo film di ambire a un universalismo che lo renda adatto a ogni situazione di sofferenza, empaticamente vicino a ogni persona che soffre ed è privata del diritto alla propria felicità. La scelta è ambiziosa, ma condotta con sincerità ed è sostenuta dalle eccellenti prove d’attore di Nada Abou Farhat, che regala a Zeina una bellezza e una intensità che è quella delle persone autentiche, lacerate da un dolore profondo, e di Georges Khabbaz, noto attore comico mediorientale, definito da Fabio Ferzetti una sorta di “Benigni arabo”, che è un Tony stralunato e tenero, mai sopra le righe.

Per trutto questo Sotto le bombe scalda il cuore e affascina nella sua progressione che, a dispetto delle sopraccitate difficoltà con cui è stato realizzato, si rivela molto agile, gratificata da un buon ritmo che non disperde mai la forza dei singoli eventi, ma conferisce al tutto una encomiabile compattezza, dispiegando l’intero arco emotivo prediletto dalla storia con garbo ed efficacia. E per questo riesce nella mirabile sintesi di commuovere e divertire.

Accolto da un lunghissimo applauso alla proiezione pubblica delle Giornate degli Autori della Mostra di Venezia 2007, Sotto le bombe è un grido contro ogni ingiustizia, una delle più belle sorprese delle ultime stagioni cinematografiche.

Sotto le bombe
(Sous les bombes)
Regia: Philippe Aractingi
Sceneggiatura: Philippe Aractingi e Michel Léviant
Origine: Francia/UK/Libano, 2007
Durata: 98’

Intervista a Philippe Aractingi
Sito ufficiale del film (in francese e inglese)
Il conflitto israelo-libanese del 2006