"C'è chi crede in dio o nel denaro. Io credo nel cinema, nel suo potere. L'ho scoperto da ragazzino, mi ha aiutato a fuggire da una realtà in cui ero infelice. È una delle forme d'arte più alte che l'uomo ha concepito. Credo nel suo futuro."
(John Carpenter)

mercoledì 19 novembre 2014

Torino 2014

Torino 2014


In un'annata che sembra aver rappresentato una sorta di “resa di conti” per molti grossi festival nazionali (si vedano le critiche al programma veneziano e le polemiche su Roma, con Marco Muller che ha annunciato di considerare chiusa l'esperienza di direttore), il Torino Film Festival si presenta con la forza della continuità. La direzione passa ufficialmente a Emanuela Martini, dopo vari anni spesi sul campo come coordinatrice generale, e il programma è ricco di titoli (quasi 200), con nomi di qualità (Woody Allen, Susan Bier, Tommy Lee Jones, Bruno Dumont, fino a Jerry Schatzberg che firma il manifesto, visibile qui sopra), come sempre cercando di tenere insieme un'appetibilità “popolare” con una selezione non banalmente glamour.

Non tutto è oro ciò che luccica, in ogni caso, visti i problemi di budget che hanno portato alla limitazione delle sale, ma è chiaro come Torino cerchi di difendere un'autonomia artistica guadagnata sul campo e che ha portato ad assorbire anche bene gli scossoni del 2006, quando la manifestazione fu investita dalle polemiche per il cambio del gruppo di lavoro: la nuova squadra è ormai rodata e ha saputo mantenere le caratteristiche del festival, anche in rapporto a un mercato che diventa sempre più esigente nelle aspettative e avido nelle risorse.

Come sempre grande attenzione anche alla sezione di ricerca di Onde, che apre con il nuovo film di Eugene Green, già protagonista, nel 2011, di un indimenticabile omaggio. E poi i vari spazi retrospettivi, a cominciare dalla seconda parte del “viaggio” nella New Hollywood, dopo l'entusiasmante appuntamento dell'annata 2013. Difficile anche solo scegliere un singolo titolo fra i tanti realizzati in quell'irripetibile stagione, ma per chi scrive si prospetta finalmente la realizzazione di un sogno, con la proposta dei primi film di Steven Spielberg, Duel e il leggendario Lo squalo, saggiamente proposti insieme per mostrare la continuità di un talento indipendente che, senza colpo ferire, è poi transitato direttamente nei gangli degli Studios rivoltandoli dall'interno!

Lo sguardo al passato, dopotutto, serve proprio per offrire una maggiore consapevolezza verso quegli scenari futuri che la manifestazione piemontese ha da sempre così a cuore. Anche per questo, la proposta di classici non ci si esaurisce nella retrospettiva “ufficiale”. A molti cinefili, l'edizione 2014, offrirà infatti l'occasione di rivedere (o, in molti casi, vedere per la prima volta) sul grande schermo alcuni capolavori assoluti in edizione restaurata, come Il gabinetto del dottor Caligari, Via col vento, Allegro non troppo e Profondo rosso. Basta un simile poker d'assi per farci desiderare di essere già a Torino. Ci si vede in sala!


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mercoledì 29 ottobre 2014

Lucca 2014

Lucca 2014

Dopo tre anni si torna alla fiera di Lucca Comics & Games e la sensazione non è tanto quella di un ritrovarsi, di un riprendere una “routine” quanto di un dover reimparare: perché in questi anni la fiera si è ingrandita, lo spazio Movies ha assunto una dimensione più “piena” e gli eventi si sono moltiplicati, nel tentativo (sempre meno velleitario) di rendere merito all'importanza di un evento ormai classificato fra i principali del mondo, anche più del celeberrimo Comic-Con di San Diego. Immaginate poi quanto la cosa assuma proporzioni grosse se già dal manifesto di Gabriele Dell'Otto si sottolinea la “Revolution” organizzativa, con una città impiegata in modo più estensivo, molteplici proiezioni e tanti eventi.

Ci sarà sicuramente di che divertirsi, nell'impossibilità di cogliere la pienezza di un evento che sarà comunque bello vivere nel suo spirito di cartina di tornasole della moderna industria dell'immaginario, tra fumetti, cinema, cultura giapponese, giochi di ruolo e videogame. Una tappa ormai obbligata per chi intende correlarsi allo spirito dei tempi e dei meccanismi che foraggiano la cultura popolare.


Per il programma si rimanda al sito ufficiale. Ci si vede a Lucca!


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giovedì 23 ottobre 2014

Harlequin

Harlequin

Il Senatore Nick Rast è un uomo molto potente e ora ha di fronte a sé l'occasione di una vita: la misteriosa morte in mare di un collega gli ha infatti aperto le porte per un seggio nel governo, una nomina su cui puntano molti potenti investitori, disposti a tutto pur di proteggere il loro protetto. Ma, nel privato, la cagionevole salute del figlio Alex, ammalato di leucemia, rischia di vanificare ogni felicità. Una sera, però, il bambino guarisce grazie all'intervento di Gregory Wolfe, un misterioso individuo apparentemente dotato di poteri magici. Da quel momento Wolfe si stabilisce in casa del Senatore, esercitando un grande fascino su sua moglie Sandy. Ma chi è realmente Wolfe? La sua è davvero magia o un'abile truffa? E cosa vuole dalla famiglia Rast?


Per alcuni, il produttore Antony I. Ginnane è il “Roger Corman australiano”, per la spregiudicatezza con cui ha sempre tentato di riprodurre “in piccolo” le dinamiche del cinema più grande, attraverso una formula ibrida, ambiziosa nei risultati e nei nomi che di volta in volta riusciva a coinvolgere, ma estremamente scaltra e “popolare” nell'uso delle pratiche più “basse”, con sesso e violenza a far sempre capolino. La sua fortuna inizia con il successo di Patrick, che gli apre le porte dei mercati esteri e lo spinge a provare un tipo di cinema australiano nei fatti, ma capace di apparire appetibile anche al di fuori dei confini nazionali grazie al coinvolgimento di attori americani e inglesi. E' in base a questa dinamica che avviene il suo incontro con David Hemmings, celebre interprete di Blow Up e Profondo Rosso, che alla fine degli anni Settanta sta tentando il passaggio dietro la macchina da presa: le sue prime regie, però, non hanno avuto il successo sperato, e così l'attore inglese si lascia convincere a unire le forze con quello spregiudicato produttore australiano, che sembra in grado di assicurargli i mezzi per proseguire la carriera. Il primo passo, comunque, lo vede soltanto attore, in questo Harlequin, dove la sua presenza garantisce anche l'approdo di Robert Powell, all'epoca sulla ribalta per l'interpretazione da protagonista nel Gesù di Nazareth di Franco Zeffirelli. A dirigere c'è invece Simon Wincer, futuro artefice di D.A.R.Y.L. e Free Willy, che sotto l'ala di Ginnane ha già realizzato Snapshot.

La storia, scritta dall'esperto Everett De Roche (lo stesso di Patrick), parte da presupposti alquanto ambiziosi: l'intenzione è infatti quella di attualizzare la vicenda del monaco Rasputin e della sua influenza sulla famiglia dello Zar Nicola II di Russia (e in particolare sulla zarina Aleksandra), ottenuta grazie alla guarigione del figlio Aleksej dall'emofilia. A questo si unisce l'influenza storica pure garantita da un incidente che, nel 1967, aveva visto il primo Ministro australiano Harold Holt sparire nel nulla dopo essersi tuffato in mare. Il titolo Harlequin (che in America diventa Dark Forces) ammicca invece all'Arlecchino di Goldoni, chiamato esplicitamente in causa nel travestimento finale di Wolfe. L'influenza di Ginnane si vede in un paio di momenti shock e in almeno una scena di nudo, ma per il resto Wincer impone un taglio elegante e decisamente lontano dagli standard tipici del cinema exploitation, più vicino perciò a thriller ad alto budget come Il presagio. L'uso del Cinemascope e le efficaci musiche di Brian May (soltanto omonimo del celebre chitarrista dei Queen) contribuiscono a creare l'atmosfera giusta.

La natura ibrida viene così sfruttata a livello narrativo, sfruttando l'ambiguità che circonda il personaggio di Wolfe, sostanzialmente positivo e capace di aprire orizzonti interessanti e vivificatori, ma sempre ammantato da un'aura di mistero circa le sue reali capacità. Le barriere che il mago abbatte sono quelle del deperimento fisico (la malattia del piccolo Alex), ma anche quelle dell'ipocrisia che domina nel contesto familiare alto borghese, attraverso un disvelamento degli interessi che gravitano attorno alla figura del Senatore Nick Rast, per il quale ogni azione si inserisce in una rete di necessità, doveri e privilegi imposti a se stesso e a chi gravita nella sua orbita.

Ne consegue un interessante tentativo di articolare la dicotomia magia/realtà nel senso di uno scontro fra l'apparenza e la sostanza: in tal modo Wolfe si offre come presenza proteiforme, un po' mago, un po' messia, un po' maschera da commedia dell'arte, trasformista e satirico per come mette in crisi i ruoli dei protagonisti, spingendoli a liberarsi dai doveri imposti da una vita finalizzata soltanto agli interessi particolari. La natura insufficiente di alcuni effetti speciali viene riscattata da un Robert Powell perfetto nel ruolo, gigionesco e dunque consapevole nello “staccare” il personaggio dalla realtà circostante per aprire il racconto a una prospettiva altra, che sia punto di vista privilegiato sulla politica e la società dell'epoca. In tal modo i personaggi diventano protagonisti di una continua oscillazione, dove il potente Senatore Rast si rivela adultero, debole e manovrato dai suoi investitori, mentre sua moglie abbandona i panni della devota consorte per lasciarsi conquistare dal nuovo arrivato, cui confida tutte le sue celate frustrazioni. Il piccolo Alex (su cui non a caso si chiuderà la storia) diventa così il terreno di coltura su cui forze contrapposte agiscono per forgiare una realtà divisa fra spregiudicato bisogno e un afflato più libero e panico, ben sintetizzato dalle continue inquadrature su gabbiani, mari e elementi naturali.

Ma è ancora più interessante il fatto che questa crisi del rapporto verità/finzione si sposi alla particolare anima di un film che fonde uno sguardo realistico e un approccio fantastico, unendo analisi politica e uso dell'elemento magico; la struttura è a cerchi concentrici, e ogni possibile livello di fruizione alza ulteriormente la sfida delle sensazioni che si tenta di far provare allo spettatore e delle tipologie di racconto che si possono inserire nell'insieme. Per certi versi è il punto d'approdo assoluto dell'idea di cinema composito di Ginnane, ambientata in un “non luogo”, con interpreti britannici, artigianale e quasi psichedelico nella sua bizzarria eppure capace di prendersi sul serio con un tono da cinema adulto: una strana formula che, peraltro, si situa anche bene fra una certa sensibilità più rarefatta tipicamente anni Settanta e una voglia di alzare la posta in gioco, più vicina agli Ottanta.

Il rischio, naturalmente, è quello di creare disorientamento e apparire perciò come un progetto confuso, che gioca con l'accumulo di spunti senza riuscire a dare compattezza all'insieme: resta, comunque, un esempio interessante e particolare di cinema di genere capace di osare soluzioni inattese.

Il film è inedito in Italia, e il resoconto si basa sulla visione dal DVD australiano della Umbrella Entertainment.


Harlequin
Regia: Simon Wincer
Sceneggiatura: Everett De Roche
Origine: Australia, 1980
Durata: 92'

giovedì 9 ottobre 2014

Mimic (Director's Cut)

Mimic (Director's Cut)

Per sconfiggere un morbo che ha colpito i bambini di Manhattan, la scienziata Susan Tyler crea in laboratorio una nuova specie di insetti, i Judas, capaci di secernere un enzima mortale per gli scarafaggi che veicolano il virus. Tre anni dopo tutto sembra tornare alla normalità, ma Susan si imbatte in strane manifestazioni che sembrano far presumere un'evoluzione degli Judas, nonostante il loro codice genetico fosse stato “programmato” per farli morire dopo aver adempiuto al loro compito originario. Esplorando i condotti della metropolitana, la scienziata, insieme al marito Peter, del centro di controllo malattie infettive, scopre così che i Judas sono diventati enormi e riescono anche a imitare le fattezze degli esseri umani, per mescolarsi a loro nella notte e attaccarli per poi cibarsene. L'avventura nel sottosuolo vede insieme anche Josh (assistente di Peter), il poliziotto Leonard, e il lustrascarpe Manny, cui i Judas hanno rapito il figlioletto Chuy.


Per il grande pubblico che nel 1997 non aveva visto Cronos (da noi passato in sordina unicamente su Tele+), Mimic rappresentò l'occasione per conoscere Guillermo Del Toro e il suo cinema fatto di creature mostruose mescolate a un senso fiabesco dell'avventura. Per il regista, però, il film ha rappresentato per anni una ferita aperta, destinata a ricucirsi soltanto nel 2011, con l'uscita della Director's Cut. Le ragioni del dissapore furono da un lato la coeva disavventura del rapimento compiuto ai danni del padre – fatto che spinse il regista ad abbandonare il Messico, in modo da non esporre i suoi cari a ulteriori problemi; dall'altro lato, le vicissitudini produttive causate dai contrasti con i fratelli Weinstein della Miramax, che, al solito, pretendevano l'ultima parola sul girato, arrivando a imporre cambiamenti, tagli e nuove riprese ad opera di registi non accreditati (fra i nomi coinvolti, pare, anche Robert Rodriguez). Per fortuna, la fama acquisita dal regista nel tempo, ha permesso l'uscita della sopracitata Director's Cut, che rivede il montaggio, elimina le scene aggiunte arbitrariamente per garantire qualche superficiale salto sulla poltrona e approfondisce alcuni spunti. Del Toro ha infatti avuto accesso ai materiali originali, reintegrando alcune parti espunte dai produttori, pur non potendo contare sulle scene pensate ma non girate: l'idea originale, ad esempio, prevedeva un finale più cupo, con i protagonisti che, una volta in superficie, scoprivano che i Judas avevano conquistato la città, mentre ora resta l'unico e più positivo ending effettivamente realizzato.

In ogni caso, la possibilità di vedere il film che Del Toro avrebbe voluto, permette di apprezzare una migliore costruzione delle atmosfere e della suspense, unitamente a un più fitto intreccio relazionale che, ancora una volta, dice del forte precipitato umano delle sue storie. Susan è infatti abbastanza distante dalle tipiche eroine del cinema d'azione e fantastico coevo: lontana dall'androginia delle amazzoni cameroniane, è donna (una delle prime scene che la mostra con solo l'intimo addosso), moglie e madre (la Director's Cut aggiunge il dettaglio che la protagonista è incinta), ben rappresentata da una Mira Sorvino capace di passare senza soluzione di continuità da una intrinseca dolcezza, a un grinta da guerriera nel confronto con i mostri. La sua figura tara in questo modo il tono di un racconto costruito attraverso una fitta rete di rapporti affettivi e parentali, che si rispecchia poi in una società complessa e stratificata. Quello che il film mette in scena, infatti, è un mondo composito, che la macchina da presa di Del Toro indaga nei suoi anfratti, attraverso un continuo fluire fra l'alto (la New York cittadina) e il basso, con le gallerie che riportano agli albori della metropoli. Il tutto mentre la storia passa in modo altrettanto disinvolto, dalla modernità estrema degli esperimenti sul DNA all'atavica attrazione/repulsione per gli insetti e per le loro naturali capacità di adattamento.

In questo scenario, malattie e mostri si accaniscono contro gli strati più deboli della popolazione, attaccano una fabbrica clandestina con operai cinesi costretti al lavoro clandestino (altra scena presente solo nella Director's Cut) e colpendo i bambini. Sebbene le figure preposte a combattere il pericolo siano sostanzialmente riconducibili alla sfera delle autorità (lo scienziato Peter, il poliziotto Leonard), l'impressione è quella che sia necessario uno sguardo più sfumato e capace di fondere i vari livelli di questo mondo “a strati”: ecco dunque la figura di Chuy, che ricolloca nell'universo Deltoriano l'icona del bambino afflitto da apparenti problemi relazionali e capace con le sue particolarità di stabilire un collegamento tanto con gli umani che con i Judas. In lui ritroviamo sia il gusto fiabesco del racconto gotico ispanico di cui Del Toro è valoroso rappresentante, sia la continuità con i piccoli protagonisti di Cronos, La spina del Diavolo e Il labirinto del fauno, che testimonia la prospettiva privilegiata “dal basso” fornita da figure più “a latere” rispetto a quelle istituzionalizzate, che pure servono a mandare avanti il racconto.

A tutto ciò si unisce il consueto e già evidente amore per una messinscena estremamente teatrale nella composizione degli spazi e che si compiace di un gusto tattile per la concretezza dei luoghi e dei corpi, con i bellissimi uomo/insetto (creati dal grandissimo Rob Bottin), che riecheggiano umori da Fantasma dell'Opera e contribuiscono lo spostamento dalla cifra gotica tipica di queste storie a una visualità più marcatamente espressionista. I contrasti esasperati e la predominanza di colori tenui è rotta saltuariamente da improvvisi viraggi della fotografia su tinte più forti, utili a restituire lo spettro emozionale più vasto che la storia chiama in causa. Proprio la cura dell'immagine e il senso corposo delle inquadrature, insieme a un gusto particolare per la dilatazione temporale, permette al film di conservare una sua genuinità nonostante gli anni trascorsi: dove l'invecchiamento si vede tutto è negli insufficienti effetti digitali (usati per animare i Judas in movimento), tipici di un'epoca ancora acerba nell'utilizzo di simili tecnologie.

Sebbene il film resti non particolarmente distante dalla versione già vista in sala, il nuovo lavoro compiuto dal regista gli dona maggiore compiutezza, soprattutto nella prima parte in cui si stabiliscono i termini del racconto. La parte finale indugia maggiormente in un concept alla Alien (complice anche la presenza di Charles S. Dutton, già visto in Alien3), anticipando il barocchismo del Del Toro più aperto alle istanze del grande pubblico, come lo ritroveremo in Pacific Rim, Blade II o nel dittico di Hellboy. Poco o nulla da aggiungere, invece, sui due seguiti realizzati per il solo mercato dell'home video.

L'edizione Director's Cut è visibile nel Blu-Ray Disc della Eagle Pictures.


Mimic
(id.)
Regia: Guillermo Del Toro
Sceneggiatura: Matthew Robbins e Guillermo Del Toro (basata sul racconto di Donald A. Wollheim)
Origine: Usa, 1997
Durata: 112' (Director's Cut)


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martedì 7 ottobre 2014

Inn of the Damned

Inn of the Damned

Gippsland, Australia 1896. Il cacciatore di taglie americano Cal Kincaid riesce a catturare (e poi uccidere) il fuorilegge Biscayne dopo una ricerca durata otto anni. In questo lasso di tempo, Biscayne è stato protetto da Caroline e Lazar Straulle, una coppia di anziani austriaci che gestiscono una locanda nell'entroterra. Un trauma è sepolto nel passato dei due: anni addietro, infatti, un uomo misterioso ha rapito e fatto sparire i loro figli, e, da quel momento, gli Straulle eliminano chiunque capiti nella loro locanda, mossi come sono dall'atavico terrore che ogni avventore possa costituire una minaccia alla famiglia. Quando però, a cadere vittima dei due anziani assassini è l'amico poliziotto Moore, Kincaid inizia a indagare fino a scoprire la verità.


Non c'era solo Night of Fear tra i progetti che Terry Bourke aveva presentato al network ABC: l'entusiasta regista australiano aveva infatti già pronto anche il soggetto di Inn of the Damned, poi bloccato dal naufragio della serie Fright. Bourke però non era tipo da arrendersi e riuscì infine a portare a compimento il suo progetto un paio d'anni dopo, anche se i rapporti fra la produzione e l'Australian Film Development Corporation portarono a lungaggini che fecero slittare l'uscita al 1975. Alla fine il film risultò il più costoso fra quelli realizzati fino a quel momento in Australia, complice anche l'ambientazione d'epoca. Un dato, quest'ultimo, che risulta alquanto curioso, considerata la natura quasi autarchica dell'operazione, con Bourke che si occupa di regia, sceneggiatura e co-produzione, mentre il socio (e co-produttore) Rod Hay è accreditato anche come montatore e supervisore alla post-produzione. Nel cast poi, la presenza, in un breve ruolo, di Carla Hoogeveen, riporta gli spettatori alla precedente esperienza di Night of Fear, amplificando l'idea della “factory”. L'ambizione era in ogni caso alta, l'intenzione era infatti quella di realizzare un prodotto di grande respiro con star internazionali: il ruolo di Caroline Straull era stato infatti pensato per Joan Bennet, ma divergenze di vedute con la direzione che Bourke voleva imprimere al soggetto, spinsero poi al rimpiazzo con Dame Judith Anderson, la celebre mrs. Danvers di Rebecca la prima moglie.

Il legame con Hitchcock è rivendicato dallo stesso Bourke, che definiva Inn of the Damned un “Hitchcock a cavallo”, con chiaro riferimento alla componente thriller, qui riletta in una curiosa chiave western, e sostenuta anche dalle notevoli e versatili musiche di Bob Young, capaci tanto di reggere il respiro epico delle scene avventurose (si veda la sequenza dei titoli di testa), quanto i momenti di tensione all'interno della “locanda dei dannati”. In effetti, il dato eclatante della pellicola sta nella sua commistione di elementi eterogenei, tali da renderlo un campione di bizzarria: ciò è evidente non solo per l'accostamento dei due generi sopracitati, ma anche per una progressione frammentata, in cui di volta in volta Bourke si lascia tentare da curiose digressioni che, alla fine, spiegano la durata eccessiva di quasi due ore. Il film è sostanzialmente diviso in due parti, la prima con la caccia a Biscayne e la seconda, invece, più concentrata sul meccanismo thriller/horror e sulle imprese degli Straulle. Non c'è whodunit, i ruoli sono chiari fin dal principio e Bourke gioca con la tensione, in un modo opposto a quello mostrato in Night of Fear.

Nonostante la censura dell'epoca obiettasse l'eccessivo sadismo, Inn of the Damned privilegia infatti un approccio più meditato e basato sull'esplorazione della tensione, con omicidi fuoricampo e una dilatazione dei tempi che, soprattutto nel confronto finale, raggiunge la sua maggiore efficacia. Lo stile si fa mediamente più ragionato e solo in alcuni momenti lascia intravedere quella cifra barocca che avevamo notato nel precedente lavoro – in particolare si segnala il flashback con ampio uso di grandangoli che deformano i volti e restituiscono così il particolare clima di angoscia del rapimento dei bambini; e poi la già citata sequenza dei titoli di testa che ritrae la corsa della carrozza con alcuni tagli d'inquadratura molto dinamici e prospettive esasperate, degni precursori dello stile che sarà poi reso grande da George Miller in Mad Max e nei suoi vari epigoni – l'operatore non a caso è Peter James, oggi affermato direttore della fotografia a Hollywood. In mezzo trovano spazio momenti grotteschi (quelli con Biscayne e il suo complice ubriacone) e persino una straniante scena lesbo-incestuosa fra una matrigna e la figliastra (interpretata dalla Hoogeveen). La frammentazione è palese anche nell'impianto visivo, più potente e efficace nei momenti topici, con frequenti cadute nella piattezza durante i passaggi di raccordo, con particolare riferimento alle scene in esterni.

Un prodotto che dunque staziona in un limbo a metà fra l'operazione per un pubblico ampio e dinamiche basate sull'accumulo di situazioni, tipiche del cinema exploitation: si può comunque ritrovare l'inquietudine sull'identità di un'Australia che nasconde sordidi segreti nel privato ed è afflitta dal timore per l'invasione dei propri spazi, come già visto in Night of Fear: stavolta, però, entra in gioco un elemento multietnico ben legato a una prospettiva che è fuori tanto dalle grandi metropoli, quanto dalle aperture dell'Outback, regalandoci un territorio selvaggio ma privo di aperture – le location furono rintracciate nel Galles del Sud. Uno spazio aperto che però è anche abbastanza “chiuso” e capace perciò di riflettere le ossessioni dei personaggi con un taglio da fiaba nera. Sarà anche per questo che l'operazione mantiene un suo strano fascino, nonostante la debolezza della struttura generale e la scarsa coesione narrativa, segno di come, nonostante tutto, l'intensità con cui Bourke credeva nelle proprie capacità sia riuscita a donare una certa specificità al progetto.

Poiché l'ostracismo iniziale si era ritorto in pubblicità gratuita per il precedente Night of Fear, in questo caso il Commonwealth Board non limitò la circolazione del film, limitandosi a un forte divieto per sadismo e scene di nudo. Ciò non impedì comunque l'ottimo incasso e una breve distribuzione anche negli Stati Uniti, tanto che oggi il film si fregia di una certa aura cult. Il produttore Rod Hale, nel commento audio presente nell'edizione DVD di Umbrella Entertainment lo definisce addirittura un classico. Questo resoconto è basato proprio su quell'edizione, essendo il film inedito in Italia.


Inn of the Damned
Regia e sceneggiatura: Terry Bourke
Origine: Australia, 1975
Durata: 118'

sabato 4 ottobre 2014

Sin City: Una donna per cui uccidere

Sin City: Una donna per cui uccidere

Nuove storie si intrecciano intorno al Kadies Bar di Basin City, ormai diventata la città del peccato:
Johnny è un giocatore d'azzardo molto fortunato, ma ha l'ardire di sfidare il potentissimo senatore Rourke, che non ammette sconfitte. E per questo la pagherà cara.
Il detective Dwight McCarthy viene avvicinato da Eva Lord, la donna che aveva amato alcuni anni prima e che ora ha bisogno di aiuto, minacciata com'è da un marito sadico e violento. Ma è tutta una macchinazione per impossessarsi dell'eredità. Per ottenere la sua rivincità, Dwight si rivolge a Gail e alle ragazze che dettano legge nella parte vecchia della città.
La ballerina Nancy Callahan non ha ancora dimenticato l'amato Hartigan e vuole vendicarne la morte: difficile quando l'obiettivo è Rourke. Per questo Nancy chiede aiuto all'amico Marv (che del film è quasi il collante e l'anima che commenta e tiene insieme le varie parti) e assalta la villa del senatore.


Quello di Sin City è ormai un progetto che si rinnova ciclicamente ogni dieci anni: i Novanta furono infatti caratterizzati dall'uscita del fumetto originale, scritto e disegnato da Frank Miller. In quell'opera monumentale, l'autore americano portava a compimento una pulsione narrativa e stilistica già sperimentata nei lavori per la Marvel e la DC Comics, che rielaborava i codici estetici del noir cinematografico, dando forma a geometrie stilizzate in grado di riflettere le traiettorie emotive dei personaggi. Il pessimismo esistenziale, tipico del genere, si amplificava e consolidava in una griglia di linee e segni, esasperata dal bicromatismo rotto da singole macchie di colore, tale da conferire al tutto una matrice neo espressionista.

I Duemila hanno poi visto l'uscita del primo film cinematografico, realizzato da Robert Rodriguez, che in un certo senso riportava a casa gli umori primari del genere: nel farlo, però, teneva conto delle coordinate visive settate da Miller e il risultato era uno straordinario ibrido fra le geometrie della pagina disegnata e le possibilità conferite dalle immagini in movimento. Già si evidenziava, perciò, l'intrigante contrasto fra la stilizzazione estrema di Miller e la fisicità cara a Rodriguez, con personaggi in perenne oscillazione fra una smaterializzazione data dalla loro riduzione a ombre e sagome (da cui sprizza sangue virato al bianco) e l'imponenza estremamente materica dei corpi di Marv/Mickey Rourke o Nancy/Jessica Alba.

Ora Sin City: Una donna per cui uccidere segna l'ulteriore tassello del progetto, attraverso un uso del 3D mai così consapevole delle proprie possibilità teoriche ed estetiche, perché capaci di ridisegnare le coordinate grafiche del progetto, aggiungendo una profondità in grado di esasperare ogni contrasto. Alla pulsione grafica orizzontale/verticale che ridisegna spazi e corpi sulla griglia originariamente data dal fumetto, si aggiunge uno “spessore” di corpi e oggetti che viaggiano lungo la linea della profondità di campo, permettendo infine alla vignetta originaria di risorgere come su un ipotetico proscenio (simboleggiato dalla pedana di Nancy nel Kadies Bar, non a caso autentico crocevia per i vari personaggi).

Questa natura proteiforme di un concept che trascolora senza soluzione di continuità dalla carta allo schermo, fino all'illusione dello spazio reale dato dalla stereoscopia, si riflette nella natura stessa dei personaggi, che cambiano ruolo e facce, mutano come ombre cinesi ma restano sempre creature di carne che soffrono l'amore perduto, i legami parentali recisi e la discesa negli inferi di un crimine che sembra lasciare illeso il solo Marv di Mickey Rourke (che in un divertito gioco metanarrativo ricorda come “i Rourke” siano difficili da abbattere!). Sarà per quella maschera su cui già il destino si è divertito a iscrivere geometrie ineffabili, ma Marv/Mickey resta un personaggio sospeso tra più dimensioni: imponente eppure quasi sfuggente (si allontana durante i balli di Nancy mentre tutti gli avventori non hanno occhi che per lei), forte ma ripetutamente colpito dalle pallottole, unico a essere “usato” senza inganno ma consapevolmente, ha il “potere” di “azionare” letteralmente gli spazi della città a suo piacimento. Marv è l'anima di un luogo ondivago e sospeso fra la continua riscrittura delle leggi del Bene e del Male.

Ne emerge un lavoro che è pura sperimentazione grafica, che nei passaggi migliori diventa puro gesto in libertà, opera quasi d'avanguardia in continua proliferazione di angoli, oggetti che attraversano l'inquadratura, corpi che si congelano in pose plastiche salvo poi collidere nella violenza dello scontro fisico, e che si riplasmano fra muri, acque, fiamme e fumi, apparendo ora granitici, ora fragili, ora desiderabili e eroticamente irresistibili (come la Nancy di Jessica Alba o la Eva di Eva Green, per l'appunto). L'intero impianto grafico si palesa ancor più come un curioso ibrido di passato e presente, noir e yakuza eiga, dove pistole, katane e frecce scoccate dagli angoli delle inquadrature convivono con estetiche bondage, diafani corpi anni Quaranta ed erotismo esplicito degno dei Settanta, in una sovrapposizione di stili e dinamiche che stratificano un'immagine in perenne e vorticoso ripensamento. Proprio per questo, sebbene “chiuso” nella sua dimensione noir, il film si dimostra al contrario spesso “aperto” alle varie possibili contaminazioni del caso.

La dinamica di attrazione/repulsione evocata dalle storie è infatti la stessa che poi oppone i film e i fumetti. Il passaggio terminale della conversione fumetto-film-opera in 3D marca infatti una vicinanza e, allo stesso tempo, una distanza tra le varie forme espressive che disegna uno spazio di sperimentazione totalmente libero. In questo modo, Rodriguez può permettersi di far proprio il progetto, pur continuando a rispettare alla lettera il dettato milleriano.

Per tutto questo Sin City: Una donna per cui uccidere è al contempo una trasposizione e un'evoluzione dell'idea originale, un film tanto milleriano quanto profondamente addentro a quella qualità mimetica e allo stesso tempo “infedele” (perché personalissima) che Rodriguez sta contemporaneamente portando avanti con i Machete e i Grindhouse e che ne fa uno dei maggiori e più liberi sperimentatori della messinscena e delle possibilità narrative della scena contemporanea. Un sofisticato esempio di autorialità dove al piacere materiale e quasi “artigianale” della messinscena (Rodriguez scrive, dirige, fa l'operatore, realizza le musiche, cura la fotografia, il montaggio e gli effetti speciali) si accompagna una consapevolezza teorica dei linguaggi: che poi è la stessa distanza che passa tra la palese irrealtà di un set in green-screen e la forza con cui le storie e i personaggi di carne credono nel mondo che mettono in piedi.


Sin City: Una donna per cui uccidere
(Sin City: A Dame to Kill For)
Regia: Robert Rodriguez e Frank Miller
Sceneggiatura: Frank Miller, Robert Rodriguez, William Monahan (dal fumetto di Frank Miller)
Origine: Usa, 2014
Durata: 101'

martedì 30 settembre 2014

The House of the Devil

The House of the Devil

1980. La studentessa Samantha Hughes deve traslocare dal dormitorio universitario a un nuovo appartamento, ma le manca il denaro per pagare il primo mese. Così risponde a un annuncio da parte degli Ulman, un'anziana coppia che ha bisogno di una babysitter. In realtà, appena giunta alla casa, Samantha si rende conto che dovrà badare alla madre del signor Ulman, che riposa al piano di sopra: le condizioni economiche però sono troppo vantaggiose per rifiutare e in fondo l'anziana donna è comunque autosufficiente. La sua presenza in casa serve solo per fare fronte a eventuali (ancorché improbabili) imprevisti. Samantha trascorre così la sua serata nell'enorme casa degli Ulman, ne esplora le stanze, lentamente inizia a innervosirsi per la strana atmosfera del luogo e i rumori che sente nel buio. Che i segreti della magione vadano ben oltre quello che le è stato detto?


È il più celebre film di Ti West, regista che con questo lavoro è assurto alla ribalta dei nomi più importanti del cinema horror contemporaneo. Strana ironia per un'opera che però si rifà in tutto e per tutto all'iconografia e allo stile del cinema dei Settanta, attraverso una maniacale opera di ricostruzione dell'impianto visivo dominante in opere come Quando chiama uno sconosciuto o Changeling, solo per citarne un paio. Tutto è costruito in funzione di una perfetta riproducibilità di quegli stilemi, dal colore della fotografia, ai movimenti di macchina, al look dei personaggi, in modo talmente preciso da restituire davvero l'impressione di una pellicola d'epoca. Non che la cosa in sé possa stupire chi magari aveva visto il primo film dell'autore, il gradevole The Roost, che riprendeva le atmosfere dei B-movies anni Cinquanta, con tanto di narratore alla Zio Tibia (l'ottimo Tom Noonan, che ritroviamo anche qui nelle vesti del signor Ulman, l'uomo che assolda la giovane Samantha).

Se però ci fermassimo a questo, rientreremmo nell'ovvio ambito del mero calligrafismo: un esercizio di stile ben fatto e in grado di esaurire la propria spinta nella sola riproposizione del già fatto – ipotesi che si affaccia alla mente soprattutto nella prima parte, con qualche lungaggine di troppo prima di arrivare al cuore della vicenda. Ma quando poi i presupposti lasciano spazio alla vicenda più concreta, emerge il senso dell'operazione di West: sfruttare il particolare equilibro di un'epoca capace di stare allo stesso tempo nel reale e nell'assurdo. The House of the Devil racconta infatti quella particolare temperie di un periodo storico e di un cinema dove l'elemento soprannaturale si innestava direttamente nel tessuto della società più vera. La massiccia casa di legno degli Ulman diventa il simbolo di questa particolare dinamica duale e, sotto l'occhio vigile della macchina da presa, si trasforma in un set tentacolare e insidioso, tanto un “covo” per pratiche sataniche, quanto una propaggine di un male perpetrato nella più assoluta normalità da una coppia di anziani folli, senza nemmeno trascurare l'ipotesi che tutto possa essere frutto semplicemente di stress e allucinazioni (almeno fino a un certo punto).

Se si ripensa a titoli come L'esorcista o Rosemary's Baby, si può comprendere la particolare oscillazione che interessa a West, quella pulsione demoniaca che però ha il suo setting in un contesto reale, fatto di necessità economiche (il reperire i soldi per pagare l'affitto del nuovo appartamento) e battaglie con i piccoli problemi quotidiani: Samantha è una studentessa, e sembra patire non poco la vita nel dormitorio, tanto da sognare l'approdo alla nuova abitazione come un affrancamento, una liberazione che rende quindi la sua esplorazione di casa Ulman un rito di passaggio. In fondo, sin dalle prime battute che scambia con la rappresentante immobiliare che le dovrà affidare l'appartamento, Samantha è collocata in una sfera di subalternità al mondo adulto (la donna infatti vede in lei sua figlia). Lei è per antonomasia ragazza, studentessa, figlia e badante al servizio di un mondo dove solo la capacità di approfittarsi del prossimo domina – dinamica che vale a doppio senso: Samantha accetta di adempiere al suo compito di badante dopo essere riuscita a estorcere una notevole somma di denaro al signor Ulman, approfittando dunque della sua necessità di avere qualcuno che badi alla madre anziana; ma, all'opposto, il prosieguo della serata si rivelerà una trappola ai suoi danni, con cui gli Ulman vorranno avere ragione di lei.

Questo particolare equilibrio di realismi e scivolate progressive nell'ignoto e nel maligno, è reso con un lavoro straordinario sui tempi e sulla concretezza materiale degli spazi, via via resi sempre più impalpabili e ritagliati in zone d'ombra di matrice espressionista – straordinaria, a tal proposito, la fotografia di Eliot Rockett. Anche in questo caso, West rinnova il gioco dei contrasti: da un lato, infatti, la fisicità degli ambienti e delle figure si stempera in un balletto di ombre che tiene alta la tensione; dall'altro, il corpo trova una sua centralità in un finale sanguinoso che apre il film a una cifra più delirante ed eccessiva, con azioni frenetiche, carni squarciate e piacere per un'estetica fatta di maschere spaventose e ambienti da incubo - fatti i debiti distinguo può venire in mente anche il Polanski di Repulsion. Diventa così notevolissimo anche il continuo lavoro di ridefinizione compiuto sulla protagonista Jocelyn Donahue, inizialmente tenera e capace di essere sempre centrale nell'inquadratura, salvo poi diventare quasi sfuggente man mano che la sua discesa agli inferi si palesa, fino a riacquistare in modo violento la sua concretezza nel finale, con il corpo ricoperto dal sangue. West insomma modula abilmente la visualità vintage a una dinamica più contemporanea, basata cioè sulla commistione di stili e toni. In questo modo riesce a evitare la trappola del passatismo per regalarci al contrario un racconto d'epoca per ambientazioni e stile, ma moderno e vitale per sviluppo.

I temi del satanismo e della realtà che si trasfigura in una cifra sempre più allucinata dove emerge la
sopraffazione, saranno poi alla base anche del più recente (e meno riuscito) The Sacrament, film dallo stile “Point-Of-View” che continua a testimoniare la continuità di uno sguardo capace di giocare con i linguaggi, ma sempre coerente nei temi.

Sfortunatamente, allo stato attuale, The House of the Devil è ancora inedito in Italia.


The House of the Devil
Regia e sceneggiatura: Ti West
Origine: Usa, 2009
Durata: 95'


lunedì 15 settembre 2014

Tucker & Dale vs Evil

Tucker & Dale vs Evil

Alcuni ragazzi si recano in vacanza nei boschi della West Virginia, nella zona dove anni addietro si consumò un brutale massacro ai danni di alcuni loro coetanei. Qui si imbattono in Tucker e Dale, due montanari che hanno preso possesso di uno chalet per dedicarsi alla pesca in pieno relax. Il pregiudizio porta i ragazzi a considerare i due adulti dei potenziali serial killer e così, quando la loro amica Allison viene “rapita” dai montanari (in realtà i due l'hanno salvata quando la ragazza è caduta nel lago), si innesca un micidiale meccanismo di equivoci che porta le due fazioni a scontrarsi violentemente! Nel tentativo di eliminare quelli che credono loro nemici, i ragazzi iniziano a uccidersi a vicenda e ogni tentativo di spiegare gli equivoci sembra vano: anche perché ad emergere come leader nel gruppo dei ragazzi è Chad, la cui psiche è stata seriamente compromessa da eventi che affondano nel massacro di tanti anni prima...


I cliché possono rappresentare una trappola per ogni pellicola che si rispetti, ma a un livello primario rappresentano anche un segno distintivo di un genere, che con essi si rapporta al pubblico di riferimento, in un gioco di scambi reciproci fondato sulla consapevolezza e, perché no, sulla complicità. Discorso tanto più vero quando ha a che fare con il cinema horror, di per sé uno dei più tipizzati e attenti all'interscambio di emozioni e cognizioni di forme e meccanismi narrativi con il proprio fandom. E', insomma, un discorso di identità, che una pellicola come Tucker & Dale vs Evil eleva a sistema, con esiti felicissimi.

La pellicola, diretta dall'ex attore Eli Craig, rappresenta infatti una splatter comedy basata sui meccanismi tipici dello slasher alla Venerdì 13: c'è un gruppo di ragazzi e ci sono gli hillbillies, i "campagnoli" che in queste storie ricoprono il classico ruolo di rappresentanti di una cultura primordiale e reazionaria, basata sull'eliminazione di chi invade il proprio spazio, con l'inevitabile collisione delle parti. Ma lo schema viene rovesciato con intelligenza, le vittime diventano i carnefici e gli equivoci generano quei cliché che il pubblico riconosce fino a rispondere con entusiasmo. Il lavoro compiuto da Craig, quindi, è duplice: da un lato c'è una precisa ricognizione sui topoi tipici dell'horror, che vengono derisi e smontati fino ad arrivare a una decostruzione del genere. D'altro canto, però, abbiamo poi una ricollocazione degli stessi elementi nel loro contesto, sebbene sotto una forma nuova: i ragazzi finiscono ugualmente uccisi nei modi più atroci, ma non per i meccanismi consueti. Il risultato spiazza e diverte, quindi, per la sua inventiva, senza però deludere le aspettative di un pubblico che da film del genere si aspetta precise risposte emotive, favorite dalla tensione, dal sangue, dal ritmo e dal divertimento, mai così alti negli ultimi anni.

Craig infatti non dichiara palesemente il suo intento metanarrativo - come avviene, ad esempio, in pellicole come Scream o Quella casa nel bosco - ma intrattiene un discorso extra-narrativo, che quindi il pubblico può anche non cogliere, godendo della commedia come prodotto a sé. Il punto è infatti la questione dell'identità, con cui il film gioca in maniera molto raffinata. D'altra parte, tutti i protagonisti del film sono palesemente scentrati rispetto al ruolo che pure vorrebbero (o dovrebbero) avere nella vicenda: non solo perché le vittime non sono tali e i carnefici neppure, ma perché ognuno di loro cova una serie di aspirazioni che lo svolgersi della storia rivela essere velleitarie o sbagliate. Dale crede di essere lo stupido della situazione (e dimostrerà invece il contrario), Allison ambisce a un ruolo di psicologa che però non riuscirà a onorare, non riuscendo a ricomporre le fratture interne ai due gruppi. L'escalation raggiunge il suo culmine con il personaggio di Chad che di fatto è l'autentico fulcro del meccanismo slasher, pur apparendo come figura decentrata: è lui infatti a raccontare ai compagni del massacro avvenuto in quei boschi (determinando dunque il setting della storia) e a insistere perché ai due montanari sia attribuito senza appello il ruolo dei cattivi.

Non a caso proprio in Chad troviamo uno degli elementi cardine del genere di riferimento, ovvero il trauma celato nel passato, che di solito determina il movente del killer di turno: proprio la scoperta di un simile segreto servirà qui a redistribuire ulteriormente i ruoli (una volta che tutto sembrava già inevitabilmente stravolto) per lo shodown finale. Craig insiste sia su meccanismi che sono squisitamente attribuili a un attento lavoro di scrittura, quanto su dinamiche che arrivano direttamente a coinvolgere il corpo, con personaggi che determinano il proprio ruolo fittizio in base alla propria fisicità (l'illibilly ha un aspetto poco rassicurante e stupido, le ragazze sono carine e attraenti), e che via via si “sporcano” nel gioco al massacro, fatto di sangue a fiotti, ustioni mostruose e arti rotti. Risulta straordinario in tal senso anche il casting compiuto, dove spiccano il simpatico e tenero Tyler Labine, lo stralunato Alan Tudyk (visto in Transformers 3) e la bellissima Katrina Bowden.

In tal modo Tucker & Dale vs Evil si connota non come un estemporaneo esperimento, quanto come un esemplare genuino di una tradizione che Eli Craig non vuole deridere, perché evidentemente rispetta e si ama: la visione rinvigorisce infatti figure e situazioni dei migliori classici del genere, rinnovandole con energia e facendoci provare lo stesso divertimento che avvolgeva la visione dei migliori lavori degli anni Settanta e Ottanta. Segno che proprio lavorando sul genere, senza appiattirsi sul mero ricalco, si può dare ancora linfa a un horror che negli ultimi tempi appare affetto da terribili segni di stanchezza.

Rimasto purtroppo inedito in Italia (anche in America però non ha avuto più di una distribuzione limitata, destinandosi principalmente alla fruizione attraverso l'home video), Tucker & Dale vs Evil è fortunatamente reperibile attraverso il circuito dei fansub. Se amate l'horror e i suoi classici vi conviene inseguirlo!


Tucker & Dale vs Evil
Regia: Eli Craig
Sceneggiatura: Eli Craig, Morgan Jurgenson
Origine: Canada, 2010
Durata: 89'

Trailer originale

lunedì 25 agosto 2014

Venezia 2014

Venezia 2014

Superata la boa dei 70 anni, la Mostra di Venezia riparte con l'edizione numero 71, dal 27 Agosto al 6 Settembre. Quest'anno la maggiore novità riguarda il rinnovo della Sala Darsena, la più grande del Lido, che si inserisce nel più grosso progetto di rilancio del sito - progetto che, va ricordato, è in fieri da parecchio.

Allo stesso tempo la concorrenza del Festival di Toronto si fa sempre più agguerrita: sulla carta la manifestazione canadese può vantare un parterre di nomi molto più allettante, cui Venezia cerca di rispondere anche stavolta con un programma apparentemente più rigoroso, scelto dal direttore Alberto Barbera con i suoi collaboratori. Sulla carta è un po' difficile prevedere l'esito, quindi auspico anche che si sia riuscito a far fronte a uno dei problemi dell'annata 2013, caratterizzata da tanti ottimi titoli, ma da poca varietà.

Di certo già la scelta di nominare presidente della giuria Alexandre Desplat, musicista del nuovo Godzilla, molto attivo anche fra gli indipendenti (è un sodale di Wes Anderson) e l'apertura affidata all'anomalo film di supereroi Birdman diretto da Inarritu sono segnali interessanti, magari anche spiazzanti, ma che denotano la voglia di provare a battere nuove strade!

Segnalo infine anche la sezione dei Classici restaurati: diversamente da altre manifestazioni sul cinema, Venezia non è mai stato un luogo dove le retrospettive hanno avuto la giusta centralità, proiettati come si è (legittimamente) sulle novità, ma negli anni questo spazio si è ritagliato un suo prestigio, che stavolta lo porta a sfoggiare titoli di altissima qualità come Suspense, Umberto D., I racconti Hoffman e via citando. Se il nuovo dovesse deludere, ci si potrà sempre rituffare nelle comodità del passato.

Ci si vede al Lido!


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giovedì 17 luglio 2014

Transformers 4

Transformers 4

Sono trascorsi tre anni dalla battaglia di Chicago e i Transformers superstiti sono braccati dalla Cemetery Wind, una branca segreta della CIA guidata dal fanatico Harold Attinger, che non distingue fra Autobot e Decepticon. Per fare questo, Attinger ha stretto alleanza con Lockdown, un cacciatore di taglie cybertroniano che non è schierato con nessuna fazione e il cui interesse è la cattura di Optimus Prime.
Nel frattempo, Cade Yaeger, inventore spiantato, recupera un vecchio camion arrugginito per rivenderne i pezzi e scopre che si tratta proprio di Optimus Prime. L'uomo, insieme alla figlia Tessa e al suo fidanzato Shane, si ritrova così coinvolto nella caccia scatenata da Hattinger ed è costretto alla fuga. Scopre ben presto che Hattinger è legato alla società KSI, guidata dal brillante scienziato Joshua Joyce: questi è riuscito a isolare il Transformio, il metallo di cui sono fatti i cybertoniani, per creare una nuova razza di droni-transformers. Il suo primo prototipo è Galvatron, in cui è stata riversata la memoria di Megatron. Joyce crede di poterlo controllare, ma in realtà l'ex comandante dei Decepticon sta approfittando della situazione per rivivere in un nuovo corpo.
Si crea in questo modo un triplice fronte: gli umani si aspettano di ricevere da Lockdown, in cambio di Optimus Prime, un seme cybertroniano da far esplodere per produrre Transformio in enormi quantità. In questo modo potranno produrre droni su larga scala, monopolizzando l'industria bellica americana. Megatron sta per risorgere in Galvatron, e assume il controllo della nuova armata di droni-transformers giò realizzati: il suo scopo è usare il seme cybertroniano per sterminare gli umani. Lockdown, dal canto suo, continua a cercare Optimus Prime, reclamato dai misteriosi Creatori dei Transformers. Prime con gli ultimi Autobot, insieme a Cade e agli amici umani, combatte così la battaglia finale fra le strade di Hong Kong. Al suo fianco c'è l'armata dei Dinobot, antichi Cavalieri barbari cybertroniani liberati dalle prigioni della nave di Lockdown.


Il quarto Transformers è probabilmente il film che Michael Bay ha sempre sognato di fare: quantomeno quello verso cui tutta la sua produzione e la stessa saga hanno sempre proteso! Come il seme che vediamo nel film, la pellicola riscrive l'ordine naturale del mondo, fagocitando le forme preesistenti, per portare tutto alle estreme conseguenze performative e estetiche. Così, Transformers 4 si offre sì come l'annunciato re-inizio della saga, ma anche come una ricapitolazione delle vicende precedenti. C'è un nuovo cast, il tono (soprattutto nella parte iniziale) è più fresco e leggero, i design dei robot sono implementati, ma ritroviamo scenari a noi già familiari, come il deserto del secondo capitolo o la Chicago del terzo, che già rappresentava di per sé un ampliamento della città in cui si combatteva nel capostipite. Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si tra(n)sforma.

L'operazione è favorita dalla scrittura probabilmente più involuta e banale della tetralogia: farraginosa nell'articolazione del racconto e divisa tra numerosi fronti, si dimostra rozza nella definizione dei personaggi e nella scelta del cattivo (un poco carismatico Lockdown) e quasi frammentaria nella giustapposizione delle scene, con un curioso effetto a “salti” che restituisce la buffa impressione (quasi “alla Mario Bava”) di una sceneggiatura cui siano state strappate delle pagine in corso di lavorazione per arrivare al dunque. Riesce comunque a tenere a bada l'effetto-caos grazie a una struttura generale molto schematica e priva di sorprese destabilizzanti, rimandando presumibilmente ogni spiegazione a futuri seguiti (si pensi a tutto il subplot dei Creatori e dei Cavalieri, qui soltanto accennato).

Bay affronta questo materiale con lo stesso spirito dimostrato da Joshua Joyce nel plasmare il Transformio a piacimento, rendendolo l'humus di una performance estrema, che abbraccia ed esplora ai massimi livelli la componente avanguardista già evidenziata nella saga: il film si articola così in un balletto di forme in continua ridefinizione, che giunge al suo massimo grado estetico nella scomposizione a livello atomico dei nuovi transformers-droni, autentici sciami di pixel impazziti che tagliano l'inquadratura descrivendo geometrie astratte da installazione di video-arte. Tutto questo mentre il ritmo affastella in modo forsennato scontri, situazioni e balletti di corpi e metallo, in particolar modo nell'ultima parte, dove il film letteralmente impazzisce e si libera. Se per il secondo capitolo si era parlato di Action Painting, qui forse siamo ancora oltre - fatto che curiosamente rispetta la regola per cui i capitoli pari si offrono come i più sregolati e sperimentali, a fronte della maggiore strutturazione narrativa di quelli dispari.

In particolare, Bay coglie l'aspetto più importante della banale sceneggiatura di Ehren Kruger, ovvero la capacità di articolare il racconto secondo traiettorie che rendono lo spazio filmico un autentico schema geometrico: Cade, Tessa e Shane fuggono in auto, inseguiti dagli uomini di Cemetery Wind e lo sguardo di Bay passa senza soluzione di continuità (e spesso all'interno della stessa inquadratura) dai veicoli in fuga agli interni dell'abitacolo, fino ai tetti su cui Optimus Prime e Lockdown combattono. L'impressione è quella di uno spazio unico e “chiuso” in cui si racchiude tutto il mondo, ma anche di un set articolato su numerosi “livelli”, che crea così una intelligente sponda con la struttura narrativa frammentata in tanti piccoli fronti. E se la vicenda impone poi continui spostamenti (traiettorie, appunto) da un luogo all'altro, la chiusa a Hong Kong offre nuove possibilità visive a un racconto tutto disteso sulle incredibili geometrie urbane di una città-reticolo, dove le case si accumulano l'una sull'altra, le strade si riempiono di cavi, oggetti, forme solide tonde e quadrate, mentre umani, robot e sauri meccanici sconvolgono le leggi della fisica salendo e scendendo dagli edifici sulle facciate esterne, sollevando navi e sfruttando ogni oggetto per combattere.

Il gioco sta quindi fra il continuo rimpallarsi di una tensione astratta e geometrica, e la veridicità offerta da un set materiale che richiama la concretezza del vero attraverso l'esibizione di luoghi iconici (la Monument Valley, i palazzi di Chicago, la Grande Muraglia Cinese), che Bay reitera e al contempo smonta nel gioco forsennato delle forme che vi si muovono all'interno. Ne viene fuori una vertigine di senso che rende il divertimento dannatamente serio: per la prima volta, infatti, gli Autobot uccidono gli umani e la traccia portante segue un uomo oppresso dal proprio dramma familiare e dal desiderio di assicurare un buon futuro a sua figlia. Ma, allo stesso tempo, tutto è inscritto nella capacità di trasfigurare il mondo in un'enorme e concreta area di gioco: è come se Bay applicasse l'approccio di certi film d'animazione contemporanei al Live Action, fondendo linguaggi e piani creativi. In questo senso Transformers 4 è molto più vicino a opere come The LEGO Movie di quanto non appaia, mostrandoci una visione registica radicale nella sua concezione estrema di blockbuster e di “toy movie”. Cinema di massa, eppure non per tutti.


Transformers 4 – L'era dell'estinzione
(Transformers: Age of Extinction)
Regia: Michael Bay
Sceneggiatura: Ehren Kruger
Origine: Usa, 2014
Durata: 165'


sabato 17 maggio 2014

Godzilla

Godzilla

1999. La centrale nucleare di Janjira, in Giappone, è vittima di un colossale disastro che costringe il responsabile Joe Brody a sacrificare la vita della sua stessa moglie, per impedire la contaminazione della zona circostante. L'uomo però contesta la versione delle autorità, secondo cui si sarebbe trattato di una calamità naturale, e perciò spende i successivi 15 anni a indagare sulle reali cause del disastro. Suo figlio Ford, diventato nel frattempo un tenente dell'esercito americano, lo accompagna infine nell'ultima spedizione nel sito in quarantena, dove l'aria si rivela curiosamente respirabile. Joe ha infatti ragione: il sito non è contaminato e a provocare il disastro è stata una creatura preistorica (denominata dalle autorità con l'acronimo MUTO) che si nutre di radiazioni e che ha fatto il suo bozzolo nella zona, costantemente monitorato da una squadra comandata dallo scienziato giapponese Serizawa. Ma il MUTO non è solo: già nel 1954 Godzilla, un altro e più temibile predatore, era stato individuato dalle autorità. Quando il MUTO infine si risveglia, appare evidente come la sua attività eserciti un richiamo che riporterà in superficie anche Godzilla. Per Ford la sfida è ora doppia: mettere le sue abilità al servizio dell'emergenza globale e ricongiungersi alla famiglia.


Sin dall'inizio la sfida del nuovo Godzilla presentava due grosse criticità: l'esigenza di riconciliare Hollywood con il fandom dopo la débacle della versione realizzata da Roland Emmerich nel 1998 e il rischio (ormai sempre più evidente nelle produzioni contemporanee) di costringere il talento emergente di Gareth Edwards, rivelatosi con il bellissimo Monsters, nella stretta gabbia del mero esecutore per un progetto colossale. La buona notizia è che, su entrambi i versanti, la sfida può dirsi vinta: il nuovo Godzilla è ammantato da un profondo rispetto per la tradizione nipponica, ripropone un po' tutti i canoni del personaggio con estrema attenzione e, soprattutto, riesce anche a modulare le possibilità tematiche da sempre collegate alla sua natura metaforica in senso nuovo, toccando i punti scoperti del nostro tempo e chiamando in causa i grandi traumi della Storia più o meno recente, dalle bombe di Hiroshima e degli esperimenti atomici negli anni Cinquanta, fino all'11 settembre 2001 o allo tsunami del 2004.

Al contempo, Gareth Edwards dimostra una visione coerente con quanto già fatto in precedenza e riesce nell'impresa altrimenti improbabile di realizzare un kolossal anche attento a preservare la particolarità del proprio sguardo autoriale. Questo avviene non già per il presunto “peso” della componente umana, sempre riverberata in tutte le interviste: da questo versante, anzi, bisogna registrare come il film soffra, nella seconda parte, di una forzata concentrazione su un campionario umano decisamente meno interessante di quanto le premesse non facessero sperare, con personaggi abbastanza tipizzati e non particolarmente incisivi (mentre è molto bella l'idea alla Psycho di eliminare molto presto due figure celebri e carismatiche come quelle di Juliette Binoche e Bryan Cranston). A una prima parte molto riuscita nel suo crescendo, si accompagna così una seconda decisamente più “trattenuta” e reticente nel concedere troppo campo ai mostri. Se, per certi aspetti, l'interesse di tale approccio sta nel donare al film un andamento decisamente in controtendenza rispetto ai ritmi dei blockbuster odierni, per contro è come se l'insieme avesse paura di lasciarsi realmente andare e cercasse in ogni modo di mantenere il controllo, negandosi qualunque volo pindarico nell'eccesso o nel lirismo più sfrenato, complice forse la troppa attenzione a non sbagliare, già enunciata in apertura.

La visione di Edwards resta comunque salda in virtù del progetto estetico e tematico portato avanti: Godzilla è a conti fatti un nuovo film sul ricongiungimento e sulla separazione, come già lo era Monsters ed è capace di articolare questo registro passando continuamente dal grande (i duelli fra mostri) al piccolo (l'odissea dei Brody). Così, esattamente come i MUTO che si cercano (e la scena tenerissima in cui si ritrovano cita non a caso quella più bella di Monsters), allo stesso modo Joe Brody cerca di recuperare il ricordo della moglie scomparsa attraverso l'indagine ossessiva della verità, e Ford deve poi passare per un percorso che lo porti a ricongiungersi alla famiglia, ma anche a proteggerla e per questo ad agire paradossalmente lontano dai cari. 

Il film vive tutto nell'intervallo fra l'opposizione di elementi pure uniti da una matrice comune: i mostri come divinità che rimettono in discussione la centralità degli uomini cui pure sono accomunati dall'importanza degli affetti; l'uso dell'atomica come nutrimento ma anche forza distruttiva; la fuga dal pericolo e la necessità di immergersi nello stesso; le strategie per essere sicuri di mantenere il controllo e la constatazione che il mondo è dei mostri e che ogni nostra azione è vana; il desiderio di stare insieme e la costrizione a separarsi; la menzogna e la verità che addivengono a un'unica risoluzione; il passato più remoto da cui provengono i mostri e il presente dell'umanità che si ritrova ad affrontarli e, in questo modo, a elaborare il percorso storico e tecnologico sin qui compiuto. Persino il design classico e “anatomicamente plausibile” di Godzilla, contrapposto a quello alieno e “alla Cloverfield” dei MUTO sembra rientrare in questa dinamica degli ossimori.

Il tutto funziona naturalmente laddove articola tale poetica in senso visivo, giocando con la quasi “trasparenza” dei mostri, che appaiono dalle ombre o scompaiono nel fumo, e nel continuo passaggio dalle gesta ieratiche di creature che l'inquadratura fatica a contenere, alla frenesia degli umani che fuggono o cercano di contrastare l'avanzata dei titani. A tal proposito va riconosciuto come l'uso della CGI sia ottimo e intelligente, con una particolare attenzione al body language (anch'esso un po' retrò) delle creature, tale da consumare finalmente il passaggio dall'estetica “gommosa” del kaiju eiga a quella dell'era digitale senza troppi traumi. Edwards poi ci mette del suo attraverso uno stile visivo di rara bellezza, che cerca la suggestione quasi impressionista e pittorica, come accade nell'ormai celeberrima discesa dei soldati sulla città, in una potente cornice di nuvole.

Il culmine del percorso è garantito proprio dalla convergenza che, nel finale, si viene a creare fra la figura di Godzilla e quella di Ford, dove Edwards osa la carta dell'autentico parallelismo (i due cadono dopo essersi scambiati uno sguardo e letteralmente “tornano a vivere” insieme). In quel momento il ricongiungimento inseguito per tutta la storia si concretizza per davvero e, ancora una volta, la dinamica allarga dal fatto specifico al rapporto universale, passando da Godzilla all'umanità tutta, che lo incorona ufficialmente come il suo “Re dei mostri”.


Godzilla
(id.)
Regia: Gareth Edwards
Sceneggiatura: Max Borenstein (storia di David Callaham, basata sul personaggio creato da Toho Co.)
Origine: Usa/Giappone, 2014
Durata: 123'

mercoledì 14 maggio 2014

Godzilla, di Gareth Edwards

Godzilla, di Gareth Edwards


No, non è uno scherzo, ho effettivamente visto in anteprima (e apprezzato) il nuovissimo Godzilla di Gareth Edwards, ma la recensione arriverà più in là: poiché ho in programma un altro paio di visioni, meglio aspettare e fare un'analisi meno istintiva e più meditata, non trovate? E allora perché anche solo accennarne? Perché so già che, diversamente, sarei bombardato di domande (L'hai visto? Quando ne scrivi? Proprio tu che hai scritto un libro non l'hai visto per primo? Eccetera) e dunque meglio mettere le proverbiali mani avanti.

Non vi lascio a bocca asciutta, comunque, una mia recensione di anteprima (semplice e senza particolari spoiler) la potete leggere su Fantaclassici. Qui ci aggiorniamo più avanti per quella più analitica, dopo che il film sarà diventato di "dominio pubblico".

domenica 11 maggio 2014

Principessa Mononoke

Principessa Mononoke

Giappone, epoca Muromachi (1336-1573). Ashitaka, giovane principe degli Emish, sconfigge un demone che ha attaccato il suo villaggio e che si rivela essere un dio cinghiale mutato da un'orribile maledizione. Marchiato dal male che affliggeva la creatura, Ashitaka sembra condannato a morire, ma decide di recarsi a ovest per capire cosa abbia mutato il cinghiale e vedere se è possibile trovare una cura. Giunge così alla fucina di Lady Eboshi, principale responsabile della devastazione dei boschi circostanti e causa del rancore della natura. La lotta difensiva degli animali, in particolare, è portata avanti da San, la “principessa spettro” temuta dagli abitanti della fucina, una donna che ha rinnegato la propria umanità e vive insieme ai lupi. Ashitaka cerca di entrare in contatto con lei, capirne le ragioni e cercare una impossibile conciliazione fra natura e uomini.


C'è una circolarità che rende Principessa Mononoke l'ideale completamento del percorso iniziato da Hayao Miyazaki oltre un decennio prima con l'ancora invisibile Nausicaa della valle del vento (la versione animata del 1984, ma anche quella cartacea molto più lunga e articolata, iniziata nel 1982 e conclusa nel 1994): quasi come se l'avventura di Ashitaka e San voglia porsi come evoluzione di quella storia così lungamente elaborata. Lo fa sia recuperando contesti e temi (il bosco di Mononoke, contrapposto agli scenari desolati delle lande devastate dall'uomo sono molto simili alla realtà post-atomica di Nausicaa), che alcuni isolati passaggi (la lotta iniziale contro il demone-cinghiale riprende alcune inquadrature dell'incipit di Nausicaa con l'insetto gigante).

Non che ci sia da stupirsi, considerando come il tema fulcro del conflitto uomo-natura sia presente anche in altre opere dell'autore, ma è evidente come in questo caso Miyazaki lavori su una traccia che sente come particolarmente pressante e che giustifica perciò l'urgenza espressiva di un racconto tanto capace di essere lucido nella sua trattazione “politica”, quanto trascinante e commovente nel lirismo poetico delle immagini. Ecco dunque la narrazione di un'umanità affamata di un progresso tecnologico che fagocita letteralmente la forza vitalistica e ancestrale della natura: un conflitto che non rappresenta soltanto la distruzione di un ecosistema, ma anche il doloroso solco che gli umani intendono tracciare per tagliare i ponti con le tradizioni incarnate dalle divinita shintoiste che incarnano lo spirito dei boschi. La posta in gioco diventa così altissima: tracciare un ideale punto d'origine, di letterale rinascita e riformulazione degli equilibri, affinché l'umanità possa elevarsi al livello divino, in un gioco di sopraffazione reciproca che trasfigura l'inevitabile percorso di evoluzione della specie, portando a continue escalation di violenza.

La guerra diventa così un passaggio inevitabile di una più profonda pulsione umana connaturata allo sviluppo, e il racconto si adegua con una tensione che sembra abbandonare ogni speranza circa la possibile risoluzione del conflitto: perciò il tono si fa più duro, con violenza grafica esibita e, soprattutto, una tendenza continua a restare sul terreno. Da questo versante, Principessa Mononoke è il film di Miyazaki che meno concede alla leggerezza, la classica figura retorica del volo è praticamente bandita, i corpi percepiscono la pesantezza delle armi (nonostante i tentativi di rendere gli archibugi più maneggevoli) e l'immagine restituisce sensazioni concrete, tattili, vicine alla concretezza della terra e alla visceralità del sangue, dando forma a un'opera ctonia, fino al cataclima finale che sembra davvero concretizzare il termine di ogni cosa. Il lieto fine, anche quando arriva, è comunque sempre mitigato dalla consapevolezza di ciò che è avvenuto e che forse non si potrà mai ricostituire.

Eppure, anche in un quadro così pericolosamente minato, Miyazaki crede nella possibilità di far trionfare la vita fino a quando le forze lo permettono: è per questo che, in un quadro di allucinante disperazione, il film pulsa di una meraviglia estatica riassumibile nelle sequenze mozzafiato con il Dio Bestia e tutte le creature che rendono la foresta uno spazio palpabile nella sua vitalità. E' interessante notare, in tal senso, come il film lavori sottotraccia per sabotare continuamente il manicheismo che pure lo scontro uomo-natura imporrebbe: cerca di far emergere le ragioni delle parti, una sostanziale dignità che accompagna ciascuno dei due fronti. Il punto di fuga è perciò garantito proprio dalle figure meno allineabili. Da un lato Ashitaka, segnato dalla maledizione eppure pervicacemente ancorato alla vita, che non si allinea con i due fronti ma cerca una impossibile ricomposizione: la sua è la missione di chi ha già raggiunto l'obiettivo, come si può notare attraverso il legame di profonda empatia con il suo stambecco Yakkul, che concretizza davvero l'unione uomo-natura tanto agognata.

Dall'altro lato San, la coraggiosa “principessa spettro” (come da precisa traduzione del titolo originale Mononoke Hime), che seppur schierata senza indugio con il bosco è comunque anomalo elemento umano in un contesto naturale e dunque pure lei disposta a recidere i legami con la propria tradizione pur di trovare il proprio posto. Il che fa del film non soltanto un racconto di conflitti, ma anche una grande epica, intesa come racconto di gesta che creano un tessuto di relazioni complesse, capaci perciò di trovare la loro realizzazione nella messinscena di un mondo: articolato, vasto, abile ad abbracciare tanto la concretezza della documentazione storica, quanto la libertà della sfera più impalpabile e mitica dell'immaginazione, fornita dalle visioni della natura.

Un doppio mondo completo, dove i personaggi sono essi stessi doppi, creature viventi di carne, eppure veicolo di forze soprannaturali, uomini e allo stesso tempo spettri: un mondo che è anche quello di tutti noi, insomma, con le sue regole crudeli ma giuste. Miyazaki pare lo avesse pensato come il suo ultimo film e, in effetti, la grandiosità dell'affresco e la completezza della trattazione lo rendono effettivamente una delle poche opere definitive di fine secolo.

Già passato nelle sale italiane nel lontano 2000, su distribuzione Disney e con il titolo inglese, Principessa Mononoke è ora rilanciato da Lucky Red e accompagnato da un nuovo e più fedele doppiaggio che riesce a restituire le mille sfaccettature di una trama complessa e molto attenta a lavorare sulle sfumature del mondo creato dall'autore.


Principessa Mononoke
(Mononoke Hime)
Regia e sceneggiatura: Hayao Miyazaki
Origine: Giappone, 1998
Durata: 134'


Filmografia Hayao Miyazaki:
1992 – Porco Rosso