Resident Evil Saga
Al momento conta quattro lungometraggi per il cinema, ma la saga di Resident Evil è qualcosa in più: è soprattutto un fenomeno molto facile da snobbare o maltrattare (il sottoscritto l’ha anche fatto in passato), ma che alla prova del tempo ha saputo rinnovare la metodologia del racconto transmediale, ormai fondamentale nell’industria dell’intrattenimento. Non perfetta o ramificata come quella di Transformers, l’idea portata sul grande schermo sotto l’egida di Paul W.S. Anderson è in ogni caso parte di un progetto che parte dall’universo dei videogame e passa anche per fumetti, un lungometraggio animato (Resident Evil: Degeneration) e libri.
Tutti tasselli del medesimo mosaico, fatto che rende anche vetusta la polemica sulla presunta “infedeltà” del testo filmico rispetto alla versione videoludica: vetustà accentuata anche dal fatto che si deve considerare come, pur nella sua dimensione transmediale, Resident Evil sia comunque un fenomeno derivativo, germinato nel terreno di coltura approntato da George Romero con la sua irraggiungibile Dead Saga, cui inevitabilmente le pellicole devono pagare pegno. Non a caso è interessante notare l’interscambio che peraltro esiste fra la versione Andersoniana del Mito e quella originale di Romero: la prima attinge a piene mani dalla seconda attraverso citazioni che hanno quasi sempre l’odore della rimasticatura, appiattite come sono sul rifare pedissequamente (la fine del primo Resident Evil ricalca, di fatto, l’inizio de Il giorno degli zombi); ma, allo stesso tempo, è stato grazie al successo del capostipite di Anderson che Romero ha potuto realizzare il suo splendido La terra dei morti viventi, senza dimenticare che allo stesso Romero si era pensato in un primo momento per dirigere l’adattamento del videogame, tanto che in Rete è ancora reperibile la sua sceneggiatura - invero assai modesta e bene è stato che questo cortocircuito assoluto non sia mai diventato realtà lasciando i due universi distinti (esistono comunque due spot del videogame diretti dal grande regista, raggiungibili dai link in calce).
Infatti la visione dello zombie, così come codificata da Anderson, va inserita in un contesto che è differente, prettamente autoreferenziale rispetto alla tradizione di genere e sostanzialmente avulso dalla problematicità romeriana. Fatto che naturalmente apre la porta a critiche assolutamente legittime sullo snaturamento che Resident Evil ha compiuto sull’icona, sulla sua riduzione a feticcio pop che non evoca più paure ancestrali e diventa invece semplicemente “personaggio” da sottomettere alle meccaniche narrative spettacolari. Ben altra cosa rispetto alla riflessione metalinguistica che lo stesso Romero compiva nel suo capolavoro Zombi sull’estetica pop. Ma, inquadrando il problema da una differente prospettiva, è anche vero che Resident Evil è stato capace di codificare un’estetica sci-fi horror abbastanza personale e in grado di fare scuola (pensiamo alla saga di Underworld, che pure non raggiunge la stessa compattezza), tanto di per sé costituisce l’antitesi visiva e, insieme, una possibile evoluzione hi-tech dello stesso modello romeriano (a livello puramente linguistico, s’intende). Non è dunque casuale che l’ultimo Resident Evil: Afterlife abbracci anche la stereoscopia presentandosi come il primo film a fare uso della tecnologia inventata da James Cameron per rendere realistico il 3D di Avatar. Così come non è casuale la diseguaglianza stilistica dei quattro capitoli, che fanno capo di volta in volta a un sottogenere diverso: il thriller in interni per il primo capitolo, l’incubo metropolitano per il secondo (per chi scrive il migliore della serie), il postatomico per il terzo, fino a un quarto che appare meno definito nella sua appartenenza a un filone, più legato alla necessità di sviluppare la storyline, piuttosto che di codificare un universo e un’estetica, ma che pure potremmo apparentare a un vago sottogenere action/sci-fi, con gli interni immersi nel bianco spettrale di derivazione post-Matrix.
Come nel film dei Wachowski, infatti, la sensazione è quella di un progetto in divenire, che riesce a reggere gli scossoni di continui cambiamenti in corsa, e che perciò nella sua tenuta generale risulta più interessante dei singoli film che, nella variazione di stili e registi, spesso lasciano il fianco scoperto a qualche critica e a una generica sensazione di artificiosità, pur risultando sempre godibili.
La capacità transmediale e onnicomprensiva del progetto, dunque, lo rende capace di farsi allo stesso tempo racconto della fine di un mondo, con la lotta fra la protagonista Alice e il Virus T che ha portato all’Apocalisse di un’umanità zombificata, ma anche come reificazione e riscrittura di un universo. In questo senso è interessante notare come, in definitiva, Resident Evil funzioni soprattutto quando riesce a coniugare gli opposti, continuando a produrre cortocircuiti sensoriali. Ecco dunque che un racconto di degradazione umana diventa veicolo per attrici di indubbio fascino (e più che alla protagonista Milla Jovovich penso alla splendida spalla Sienna Guillory vista nei capitoli due e quattro), che risultano esaltate nella bellezza e nell’ero(t)ismo. Ma più di tutto a funzionare e a racchiudere il “sugo della storia” sono i magnifici spot promozionali che giocano sul rapporto realtà/finzione, promozione/racconto del secondo e del terzo capitolo: una pubblicità di un prodotto di bellezza che diventa veicolo per la messinscena dell’apocalisse e un video promozionale di Las Vegas che a un certo punto si “pianta” e inizia a ripetere la stessa scena continuamente. Ecco, quell’attimo in cui il filmato si ferma e rivela la finzione e la pochezza della realtà che non esiste più perché ha lasciato spazio al deserto: in quella frattura che rimescola le carte e apre la porta a svariate possibilità c’è il senso e il cuore più vivo della saga.
1 commento:
Oooooohhh! Questa é musica per le mie orecchie, é bello vedere scritta la realtà dei fatti, non risparmi (velate) critiche a Anderson ma l'articolo riassume bene cosa rappresentano i film di "Resident Evil"....ovviamente io sono molto più magnanimo/esaltato!
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