"C'è chi crede in dio o nel denaro. Io credo nel cinema, nel suo potere. L'ho scoperto da ragazzino, mi ha aiutato a fuggire da una realtà in cui ero infelice. È una delle forme d'arte più alte che l'uomo ha concepito. Credo nel suo futuro."
(John Carpenter)

lunedì 29 agosto 2011

127 ore

127 ore

Aaron Ralston è un alpinista solitario che nel tempo libero si inoltra nel deserto americano per esplorarne le conformazioni rocciose, senza avvisare nessuno. La sua ultima escursione avviene durante un weekend in cui è libero da impegni di lavoro: le cose, però, non vanno come dovrebbero e, dopo aver messo il piede su una roccia instabile, il nostro si ritrova incastrato in un crepaccio, con la mano bloccata da un masso. Iniziano così ore di attesa, durante le quali Aaron ripensa alla sua vita e a un metodo che gli permetta di liberarsi: alla fine giungerà alla più disperata delle soluzioni. Tratto da una storia vera.


Che differenza c'è fra le città deserte a causa di un morbo che ha contaminato gli abitanti trasformandoli in mostri sanguinari e un alpinista rimasto incastrato in una gola al di fuori di ogni centro abitato? C'è la pubblicità, quella che costituisce l'unico simulacro dell'umanità nel mondo post-apocalittico di 28 giorni dopo e quella che riempie i pensieri dell'Aaron Ralston di questo 127 ore, che nella solitudine provocata dall'incidente pensa alla bottiglia di Gatorade lasciata in auto. In effetti uno degli aspetti più interessanti del Danny Boyle regista è questo continuo insistere sulla merce come elemento qualificante dell'assenza. Lo stordimento sensoriale dato dal montaggio frenetico, infatti, non fa venir meno l'idea che tale sensazione si accompagni sempre alla cognizione di uno spazio che è tale in quanto definito dalle merci che lo occupano (la città abbandonata da Aaron è un continuo via vai di cartelloni e insegne), e le cui differenze si situino in una dimensione “a parte” che è tale solo in quanto non “pubblicizzabile”. In questo senso risulta anche congrua una certa visualità da videoclip che rende ad esempio estremamente patinati alcuni momenti, come quelli in cui Aaron e due improvvisate compagne di viaggio si concedono rigeneranti tuffi nell'acqua di un lago sotterraneo.

Al di fuori di quello c'è una solitudine che diventa soprattutto interiore e che provoca un movimento a sottrarre, nel quale Aaron non deve soltanto soffrire perché nessuno sa dove si trova, ma deve riflettere su uno stato proprio che è preesistente. Aaron infatti è solo già da molto tempo, per una scelta personale che non ci viene mai realmente spiegata, ma di cui cogliamo i sintomi: non risponde alle telefonate della madre, non comunica i suoi spostamenti ai colleghi d'ufficio e rompe l'unica relazione affettiva che sembrava destinata a portare qualcosa di buono. A riempire il suo vuoto interiore c'è solo la merce, quell'equipaggiamento che però si rivelerà via via superfluo, incapace di risolvere il suo problema, come il coltellino spuntato, inutile sia per scavare la roccia che lo blocca, sia per segare l'osso del braccio incastrato.

A fronte di tutto questo, 127 ore (il leitmotiv del tempo sembra anche essere ritornante nei titoli di Boyle) diventa così non tanto l'odissea fisica di un uomo costretto a lottare con la fame e le difficoltà: anzi, da questo punto di vista è interessante notare come manchino pure alcuni cliché del rapporto fra l'uomo e la natura selvaggia: non ci sono animali selvatici che attentano alla vita del nostro, il caldo non crea insopportabili disagi e la pioggia che arriva a investirlo è (forse) soltanto un'allucinazione. Molti degli errori sono anzi attribuibili unicamente al protagonista, in una sorta di reiterazione inconscia di quegli atti che gli hanno fatto scegliere inevitabilmente la solitudine come direttrice di vita.

Pertanto il film è una sorta di viaggio lisergico in una dimensione interiore che, scaricata dei cascami apparenti di un mondo basato sulla persuasione dell'autosufficienza materiale, costringe a prendere coscienza dei propri sbagli. E lo fa con una qualità visiva che, nell'alternanza di punti di vista (quello oggettivo della macchina da presa e quello “soggettivo” della videocamera cui Aaron si confessa), dei piani temporali (il presente e i ricordi) e delle possibili realtà (ciò che realmente succede e ciò che forse è sognato) crea una certa qual componente onirica: sembra insomma che tutta la vicenda sia realmente il frutto di un sogno o di una regressione psicanalitica dentro la memoria e l'inconscio del personaggio, al punto che persino il momento clou della rottura del braccio non comunica un dolore realmente autentico (pur essendo la scena certamente “forte”), in quanto rito di passaggio che nella distruzione materiale permette la rinascita interiore del personaggio.

Accusato spesso (e con ragione) di furbizia, Boyle riesce insomma a trovare un buon compromesso con il proprio narcisismo, con i virtuosismi sfrenati di montaggio e con certi accostamenti fra suono, musica e immagine, tanto da ricondurre lo stile in una forma espressiva congrua con il racconto, capace perciò di rendere il pubblico partecipe del tormento di vita di Aaron, più che della contingente necessità dovuta alla brutta situazione in cui si è andato a infilare.

Alla fine perciò si pensa alle scelte fatte e a quelle ancora da fare, e più d'uno sicuramente potrà rivedere negli sbagli del personaggio quelli magari compiuti nella propria vita: è una forma di empatia positiva, che va al di là dei facili giudizi, e che rende 127 ore un film meritevole.


127 ore
(127 Hours)
Regia: Danny Boyle
Sceneggiatura: Danny Boyle, Simon Beaufoy, dal libro Between a Rock and a Hard Place, di Aaron Ralston
Origine: Usa/UK, 2010
Durata: 90'

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