"C'è chi crede in dio o nel denaro. Io credo nel cinema, nel suo potere. L'ho scoperto da ragazzino, mi ha aiutato a fuggire da una realtà in cui ero infelice. È una delle forme d'arte più alte che l'uomo ha concepito. Credo nel suo futuro."
(John Carpenter)

venerdì 19 novembre 2010

Due o tre cose che so di... Saw

Due o tre cose che so di… Saw

Ho già affrontato la saga di Saw – L’enigmista, ma torno volentieri “sul luogo del delitto” in occasione dell’uscita di quello che è presentato come il capitolo finale. In realtà esiste una regola non scritta dell’horror in base alla quale le serie non dovrebbero mai avere un finale: presentare un capitolo come tale serve infatti soltanto a rilanciare il franchise economicamente (perché il pubblico è attirato dalla promessa di vedere “come va a finire”); oppure, se si preferisce, possiamo rievocare quanto teorizzato magistralmente da Wes Craven nel suo Nightmare: Nuovo incubo: uccidere il mostro (o portare semplicemente a termine le sue gesta) significa rinunciare a rappresentare il Male e dunque a contingentarlo in una visione definita, lasciando quindi spazio all’ignoto e alla riproduzione del demone sotto altra forma.

Ad ogni modo, che si continui o meno nei prossimi anni, è interessante tornare sulla saga per analizzare le torsioni che la stessa ha prodotto nel corso degli ultimi film, quando l’eredità dell’Enigmista è stata raccolta da nuovi adepti che ne hanno portato avanti le gesta. In prima battuta è infatti assolutamente evidente come si sia venuta abbastanza a spezzare l’unicità iconica del villain, classicamente intesa, portando la saga verso territori affrontati con maggiore radicalità soltanto dalla serie di Final Destination. Ciò che infatti diventa preminente è il meccanismo delle uccisioni, che sopravanza l’identità di chi commette le stesse. Superata l’epoca dei boogeyman mascherati, l’horror del nuovo millennio sembra arrivare a una sorta di completa autosufficienza per cui smette di aver bisogno del mostro come figura sulla quale proiettare la sua cifra più perturbante. Il che naturalmente apre la porta anche a considerazioni tutt’altro che banali o peregrine sul ritrarsi di un genere che funziona in quanto meccanismo e non in quanto racconto che veicola sensazioni primarie. Non è un caso che l’ultimo Saw 3D sia anche il film che meno vanta la presenza sullo schermo del protagonista Tobin Bell, cui il manifesto dedica una simbolica statua, a rimarcarne la natura non tanto iconica, quanto archetipica.

La pellicola da questo punto di vista è tanto un arrivo quanto una sintesi di un percorso che la saga aveva soltanto lasciato intravedere: l’horror si cartoonizza, complice l’esigenza spettacolare imposta dalla stereoscopia che pretende arti lanciati verso le schermo e amenità del genere, e perde quindi quella cifra più buia e allucinata che avevano i capitoli precedenti, in particolare quelli firmati da Darren Lynn Bousman. Non avvertiamo il dolore dei personaggi, ma siamo invece immersi in un meccanismo che, non senza malizia, ragiona sulla rappresentazione della morte piuttosto che sulle implicazioni che essa porta con sé. Si raggiunge in questo modo una sorta di astrazione, che finisce via via per pervadere il racconto nei suoi gangli, attraverso questa continua produzione di false piste, ritorni sui luoghi del delitto e scoperte di nuove prospettive da cui inquadrare la storyline principale. E’ la logica del meccanismo seriale televisivo applicato al cinema, dove la sperimentazione e il frantumare la linearità della storia diventa l’unico metodo concepibile per un pubblico che pretende di essere sorpreso e stimolato in modo parossistico. Un approccio che, per converso, produce un cinema in continuo rimescolamento e basato sull’auto-cannibalizzazione dei propri momenti topici, continuamente analizzati, riproposti ed esibiti.

E’ un aspetto molto interessante di una saga che quindi dimostra di essere perfettamente addentro al proprio tempo. E che riscrive la storia del torture porn recente, da proiezione di un immaginario di sofferenze, filiato dagli orrori di guerre e sopraffazioni fisiche, fino alla sua rielaborazione in chiave pop, tipica dell’approccio industriale al genere. Non siamo dunque lontano da quel processo di demistificazione tipico delle derive che negli anni Trenta portavano i Mostri Universal a diventare ridicole macchiette nei vari cross-over, ma condotto stavolta con più controllo e autocoscienza del percorso che si sta seguendo, in modo da evitare un rinnegarsi profondo dei presupposti.

Nel bene e nel male è un aspetto da tener presente. Soprattutto se poi chiama in causa meccanismi tipici della cultura dello spettacolo: la sensazione che si prova durante il film è che sceneggiatori e autori abbiano infatti riflettuto – forse anche inconsapevolmente - sulle implicazioni collegate all’esibizione della violenza nel nostro presente. Si staglia pertanto come uno straordinario momento rifondativo il prologo in cui l’Enigmista attua una delle sue trappole in pieno giorno, davanti a un pubblico di ignari passanti. Il pensiero può correre al magistrale Tenebre di Dario Argento, ma qui il senso è diverso: non teorizzare l’onnipresenza del Male, che si esibisce in spazi aperti, quanto riflettere sui meccanismi propri dello spettacolo del dolore, resi celebri da format quali i Reality Show. Due ragazzi e una ragazza: un triangolo amoroso basato su ruoli definiti, in cui i due devono uccidersi a vicenda per salvare la bella. La quale naturalmente cercherà di convincere l’uno o l’altro a sacrificarsi per lei. Siamo pienamente addentro ai meccanismi che affliggono il piccolo schermo, dentro quella scopofilia dal sapore pornografico, qui riflessa nel pubblico che, pur atterrito, osserva gli eventi senza staccare mai lo sguardo, anzi fotografando e filmando l’evento con i telefonini. Probabilmente questa sequenza è uno dei momenti più alti e intelligenti della saga e finisce per diventare ossequio e, al contempo auto-sabotaggio del concept stesso. Se, infatti, l’Enigmista esibisce sempre una sorta di purezza della verità, è pur vero che agisce in un modo che al cinema horror serve in quanto meccanismo spettacolare basato proprio sull’esibizione della violenza. Pensiamo dunque anche ai corpi violanti continuamente dalle trappole, a volte anche desiderabili, come accade con quello di Jill (l’attrice Betsy Russell), che giocano scientemente con le aspettative e i sogni dello spettatore, offeso dalla loro violazione, ma anche compiaciuto dalla loro messinscena.

In tutto questo stanno i segreti e i motivi di interesse di una saga che è riuscita a espandere l’idea iniziale lungo l’arco narrativo di ben sette film e che, va ribadito, forse è più interessante che riuscita, ma può in ogni caso essere tranquillamente ascritta fra le principali del nuovo decennio.

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