The Shock Labyrinth 3D
Ken torna nella sua città natale dopo essere stato protagonista, dieci anni prima, della misteriosa sparizione dell’amica Yuki. Ora che i compagni di un tempo sono di nuovo riuniti, però, Yuki fa la sua improvvisa ricomparsa. Quando la ragazza sviene, però, gli amici la portano in ospedale, ma solo per ritrovarsi in una struttura vuota che lentamente ridiventa quella casa degli orrori nel luna park dove, dieci anni prima, la stessa Yuki era scomparsa. L’avventura si snoda fra passato e presente e diventa un’occasione di confronto con i fantasmi del tempo e delle colpe nascoste.
Liberatosi dalla morsa opprimente dei continui sequel e remake di The Grudge, Takashi Shimizu non perde però l’interesse per un cinema horror che, nella continua rappresentazione di paure che affondano nell’inconscio e nel passato dei protagonisti, sia anche materia di sperimentazione sugli elementi propri della narrazione. La scelta del 3D va dunque in questa direzione, e permette a Shimizu di cercare una mediazione fra quella cifra più eminentemente ludica (l’ambientazione nel Luna Park) tipica degli horror che sfruttano la stereoscopia e un’applicazione della profondità tridimensionale allo spazio scenico, sempre importante nei suoi lavori per esprimere il disagio dei protagonisti.
Il labirinto evocato dal titolo, però, non è da intendersi soltanto come il tradizionale percorso da cui non si riesce a uscire a causa delle sue svolte intricate o delle false piste: sicuramente è anche questo, poiché i protagonisti si smarriscono in un ambiente che appare inizialmente delimitato e vede progressivamente sfumare i propri confini. Ma c’è di più e Shimizu riprende anche in questo caso un’idea che già era contenuta nei Ju-On (i capitoli giapponesi di The Grudge) ovvero l’applicazione dello smarrimento ai piani temporali del racconto.
In questo modo i protagonisti compiono un doppio viaggio nell’ospedale che diventa casa degli orrori, oscillando fra passato e presente: fra la loro prima visita al complesso, quando erano bambini, e quella che invece compiono ora, dieci anni dopo, per comprendere cosa era realmente accaduto. L’indagine diventa quindi sia la messinscena dei fatti passati che il completamento degli stessi, con le due realtà (i due tempi) che non solo vengono a coincidere, ma si influenzano a vicenda. Ecco dunque che l’esplorazione condotta oggi determina i fatti di dieci anni prima e ne è a sua volta “guidata”: i bambini di un tempo sono spaventati dai se stessi adulti arrivati “dal futuro” e a loro volta determinano il destino dei rispettivi alter ego.
Il principio, dunque, è quello del Nastro di Moebius e questo permette al film di perdersi in un non-tempo/non-luogo in cui gli ambienti confluiscono uno nell’altro e così fanno i protagonisti: ovviamente, poiché la vicenda è presentata come un completamento di fatti avvenuti anni prima e poiché Shimizu preferisce sgretolare la narrazione convenzionale, lo spettatore è stimolato a ricostruire mentalmente il corretto percorso della storia; e allo stesso tempo, i protagonisti adolescenti finiscono di scontare quelle colpe di cui si erano macchiati nel passato.
Come nei Grudge, infatti, Shimizu si diverte a non lasciare impuniti i torti e, di pari passo con lo sfaldamento e il rimescolarsi dei piani narrativi, lascia che l’irrazionale ottenga la sua vittoria sul reale. In questo la lezione del suo horror è a un tempo tradizionale e rinnovatrice dei meccanismi di genere poiché riesce ad affascinare in virtù della sua narrazione a rompicapo, che permette al racconto di fantasmi di rigenerarsi. Certo, resta la constatazione di quanto l’horror di Shimizu sia più contemplativo che realmente panico e capace di avviluppare i personaggi in una autentica trappola narrativa piuttosto che giocare con la tensione. L’idea insomma è che la messinscena sopravanzi le possibilità pienamente orrorifiche e quindi che lo stimolo sia più razionale che realmente viscerale.
Questo apparente limite è però riscattato da un finale visionario, nel quale Shimizu spinge alle estreme conseguenze il suo approccio, affastellando una serie di trovate, con manichini semoventi e giochi cromatici di grande fascino, che rinnovano la capacità dell’orrore di esibirsi come racconto fantasy. Le figure che affollano lo spazio scenico rappresentano dunque una moltiplicazione esponenziale della maschera basica di Kayako (il fantasma di The Grudge), riletta attraverso un’ottica barocca che mira a restituire l’idea dell’accumulo di elementi che il film pone in essere rispetto allo stesso cinema di Shimizu. L’intreccio dei vari elementi (confusione dei piani narrativi, dosaggio espressionista degli spazi e iconografie schiettamente orrorifiche) produce quindi una visione stordente che risulta oltremodo entusiasmante: giusto credito va comunque dato anche all’eccellente lavoro svolto dal direttore della fotografia Tsukasa Tanabe.
In questo modo il regista giapponese riesce a far compiere al suo cinema un passo avanti, realizzando quello che ad oggi appare come il suo film più complesso e completo. La sfida comunque continua perché è già annunciato un nuovo lavoro, Rabbit Hole che, già dai pochi minuti esibiti alla Mostra del Cinema di Venezia 2010, sembra lasciar presagire un ulteriore escalation nello studio delle iconografie di genere. Lì come qui, infatti, risalta l’immagine del coniglio come metafora della morte, sintomo anche questo di come il regista si diverta a coniugare gli opposti.
Senritsu Meikyu 3D/The Shock Labyrinth 3D: Extreme
Regia: Takashi Shimizu
Sceneggiatura: Daisuke Osaka
Origine: Giappone, 2009
Durata: 88’
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