Captain America: Il primo Vendicatore
1941. Il giovane Steve Rogers sogna di arruolarsi nell'esercito per combattere i nazisti, ma il suo fisico gracile sembra precludergli ogni possibilità. La sua ostinazione, però, convince il Dr. Abraham Erskine a utilizzarlo come cavia per l'esperimento che, nelle speranze dell'esercito, dovrebbe servire a creare un corpo di Super Soldati. L'operazione si rivela un successo, ma i nazisti uccidono Erskine subito dopo l'esperimento, impedendogli così di creare nuovi campioni. Rogers diventa così un'attrazione per le masse da convince a investire sui titoli di guerra, ma il suo sogno è combattere in trincea, contro i nazisti e l'Hydra del “Teschio Rosso” Johann Schmidt, la divisione speciale di ricerca dell'Asse che in segreto sogna di scalzare lo stesso Hitler e dominare il mondo. E quando Roger otterrà la sua occasione, portandola a termine con successo, inizierà la leggenda di Capitan America.
Come già ribadito in passato, i vari titoli che formano l'esalogia dei Vendicatori sono caratterizzati da un approccio sostanzialmente industriale alla materia d'origine, in quanto mere riduzioni di un'opera cartacea preesistente. Ciò è evidente anche nella scelta dei registi, dove l'unica eccezione di un autore come Kenneth Branagh (responsabile non a caso di quel Thor che si staglia finora come il miglior lavoro dei cinque già realizzati), è controbilanciata da un mestierante come Jon Favreau (artefice dei due Iron Man) e un regista “in cerca d'autorialità” e pertanto ibrido come Louis Leterrier (suo L'incredibile Hulk).
In uno schema così fortemente definito, la variabile imprevista si rivela però proprio l'unico regista che merita la qualifica di director professionale, Joe Johnston, autore di quest'ottima pellicola su Capitan America. Regista da sempre sottovalutato e abile narratore, Johnston è infatti uno di quelli che un tempo avremmo definito “artigiani”, capaci cioè di mettere in scena un'opera narrativa con ottimo gusto spettacolare e senza cercare l'alibi di una forzata autorialità: fatto che, peraltro, non gli impedisce di lavorare da sempre sottotraccia inserendo nelle sue pellicole degli elementi tematici, non sufficienti a definire una vera e propria poetica, ma comunque capaci di ispessire i termini del rapporto fra il suo sguardo e la materia trattata. Ecco dunque che Captain America rinnova la capacità di Johnston di lavorare sull'intervallo esistente fra due differenti dimensioni che, nel caso specifico, sono quella esteriore dell'icona e il retroterra motivazionale dell'uomo.
Il personaggio di Steve Rogers, infatti, rappresenta una classica figura a metà fra il realismo della guerra e la superficialità di un meccanismo spettacolare che abbisogna di icone capaci di elevare le gesta di un popolo e un esercito a livello mitico. Johnston iscrive il suo eroe esattamente in quello spazio intermedio fra i due opposti: non siamo messi a conoscenza delle reali motivazioni che spingono il giovane soldato a voler combattere a tutti i costi il male, ci vengono fornite solo evasive spiegazioni sull'odio per i prepotenti e quand'anche sono tirate in ballo possibili velleità di ripercorrere la strada paterna, il tema viene poi lasciato cadere in tutta fretta senza essere mai recuperato (neppure quando Rogers si ritrova a salvare gli uomini di quello stesso battaglione nel quale aveva militato il genitore). Steve Roger, insomma, più che un personaggio è l'espressione di una dinamica fenomenologica, in base alla quale ci si aspetta che il protagonista assuma il suo ruolo centrale nella storia, senza troppi interrogativi. L'aspetto sul quale più si dilunga la storia, infatti, non è tanto l'eroismo acquisito da Capitan America: anzi, è molto interessante notare come Johnston riesca a ossequiare la forza mitica dell'eroe negandone sostanzialmente qualsiasi capacità superiore. A parte pochi e ben dosati momenti in cui lo vediamo compiere balzi da primatista olimpionico, oppure lanciare il suo celebre scudo, Capitan America è infatti nulla più che un abile e acrobatico guerriero in maschera, che combatte i nemici corpo a corpo senza fare sfoggio di particolari capacità superiori a quelle di un Indiana Jones qualsiasi.
Questa “medietà” dell'eroe è ciò che gli permette di non elevarsi al di sopra di quel popolo che pure si troverà a rappresentare, ma che invece lo rende un personaggio pari ai commilitoni, restituendogli una dimensione che prima gli era negata: Capitan America, insomma, è un individuo che riesce a far prevalere la propria umana “normalità”, al contrario di Steve Rogers che, nella sua natura gracile e problematica, era l'autentico outsider della storia.
Ne consegue che Cap trova se stesso solo quando riesce a ossequiare una natura iconica e spettacolare che lo renda centrale in uno spazio definito unicamente in quanto fiction: le tappe del suo percorso sono tutte scandite dal tema della rappresentazione. Si comincia con l'arruolamento, in cui l'unica motivazione reale – al netto dei pretesti enunciati in precedenza e di scarsa sostanza – è la propaganda che incita il giovane a fare domanda. I manifesti nelle strade, i cinegiornali, spingono per una corsa alle armi che lo vedono in prima fila, fiero difensore di un ideale e oppositore dei bulli che nel buio della sala cinematografica gridano il loro irrispettoso disappunto verso eventi che non sentono come propri. Il secondo movimento è la sua trasformazione in icona mediatica per convincere le folle a investire nei titoli di guerra: qui Johnston sembra compiere una rievocazione in chiave vaudeville degli stessi temi denunciati da Clint Eastwood in Flags of Our Fathers, per effetto dei quali la macchina propagandistica sembra essere l'unico elemento che legittima l'esistenza di un conflitto che la pellicola lascia per il resto in perenne fuoricampo. Anche quando infatti Capitan America inizia a combattere sul serio, lo spazio che delimita è totalmente cinematografico, iscritto fra le velleità di un cattivo inverosimile (il Teschio Rosso) e i lasciti spielberghiani di un'avventura piena e dai toni quasi steampunk (non a caso Schmidt rimprovera il Fuhrer che perde tempo a “scavare nel deserto”, in un chiaro rimando a I predatori dell'Arca Perduta). Il movimento finale è quello della traslazione di Cap nel presente, attraverso il geniale espediente dell'ibernazione, ripreso dai fumetti originali: anche in questo caso il risveglio del personaggio avviene attraverso una rappresentazione che però l'eroe per la prima volta sembra non assecondare, lasciando intravedere una possibile deriva problematica demandata a futuri sequel.
La caratura “di mezzo” di Capitan America racchiude in questo modo l'essenza stessa di un personaggio il cui senso è quello di riverberare la verità attraverso la finzione, come testimoniato dal fatto che la sua importanza storica è sempre stata più simbolica che reale: la lettura dei suoi albi, infatti, non lascia trasparire particolari qualità narrative, affascinando più per il portato metaforico dell'eroe che per le reali vicende da lui descritte. Questa, più di altri, è la caratteristica precipua di una nazione (gli Stati Uniti d'America) in perenne ricerca di simbologie, miti e metafore che ne legittimino il ruolo nel mondo. Joe Johnston era la persona giusta per questo, e il suo film si dimostra pertanto vincente. Ora aspettiamo di vedere cosa ci riserverà Joss Whedon con l'ultimo capitolo della saga, The Avengers, in uscita nel 2012.
Captain America: Il primo Vendicatore
(Captain America: The First Avenger)
Regia: Joe Johnston
Sceneggiatura: Christopher Markus, Stephen McFeely (ispirato al fumetto creato da Joe Simon e Jack Kirby)
Origine: Usa, 2011
Durata: 124'
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