Il bello di un regista come Quentin Tarantino è che l’uscita di ogni film serve soltanto a consacrare quell’aura cult che il titolo si è già guadagnato da tempo. Merito di una personalità registica che ha da tempo assunto l’aura del divo e che per questo rende ogni film un modello da seguire, di cui si interessano i campi più disparati dell’arte: dalla musica alla moda. Ma merito anche di una capacità stilistica che non si disgiunge mai dalla capacità di rendere godibile l’opera. In questo senso ogni suo film è tanto immediato quanto più complesso è il progetto che lo ha prodotto: affermazione che parrebbe essere contraddetta da un titolo come Kill Bill, di fatto il più “semplice” e lineare fra i suoi lavori.
In realtà proprio Kill Bill costituisce l’esempio più perfetto di come il cinema di Tarantino riesca a essere complesso e stratificato proprio quando riesce a raggiungere quella universalità che gli permette di essere fruito senza problemi dal pubblico più colto, da quello maggiormente appassionato (formato dai cosiddetti “tarantiniani”) e da quello occasionale, in cerca soltanto di un semplice svago. La storia è infatti addirittura programmatica: una vendetta, scandita in capitoli, che costituiscono le tappe del viaggio della protagonista. I flashback sono funzionali agli avvenimenti del presente, mentre il contesto è sempre ben definito e la natura derivativa è palese. Kill Bill, insomma, non nasconde di discendere da modelli più celebri, con i quali intrattiene un rapporto incentrato su tre diverse direttive: in primo luogo c’è la ricontestualizzazione di elementi estrapolati dall’alveo originale e, in più di una occasione, rivitalizzati al punto da trovare finalmente la loro giusta valorizzazione. Ascoltando infatti lo splendido brano musicale composto da Luis Bacalov e utilizzato da Tarantino per contrappuntare la drammatica e affascinante sequenza animata delle origini di O-Ren Ishii, si ha la sensazione che quella musica risalti finalmente nel modo giusto, diversamente da come accadeva nel pessimo western di Giuliano Santi, Il grande duello, per il quale era stata invece composta.
La seconda direttiva riguarda il prolungamento di tradizioni codificate. E’ il caso di Hattori Hanzo, che, sempre impersonato da Sonny Chiba per donare la sua arte di fabbro alla protagonista che gli chiede una katana (spada da samurai), si viene a inserire non come sostituto dell’eroe originale comparso nel serial televisivo Kage no Gundan, ma come suo discendente.
In terzo luogo, infine, c’è la reinvenzione dello stilema originario, il rimescolamento delle carte, che è senza dubbio l’aspetto più esaltante e in grado di sancire il talento del regista, quello che di fatto salva il film dalle facili accuse di plagio o vile scopiazzatura: il talento è tanto più evidente nel momento in cui è anzi chiara la volontà di giocare con la sapienza del pubblico appassionato, che conosce i modelli e può quindi comprenderne a fondo la rielaborazione: pertanto lo scontro fra la Sposa e O-Ren, che avviene in un perfetto contesto alla Lady Snowblood, arricchito però dall’inedita commistione con il brano Don’t Let Me Be Misunderstood di Santa Esmeralda, oppure l’evasione dalla bara, con i colpi che vengono sferrati a tempo con il ritmo imposto dal brano di Ennio Morricone L’arena, senza dimenticare il geniale rimescolamento di ruoli che permette alla classica icona eroica di Gordon Liu-Chia Hui di impersonare il malvagio e severo maestro Pai Mei (che l’attore aveva invece combattuto nei suoi film cinesi) danno la misura di un rapporto con la tradizione fecondo e non basato sulla semplice sudditanza.
Il che conduce al secondo grado di complessità del film, quello che permette allo stesso di riverberare in ogni inquadratura la sua natura di fiction senza però apparire mai falso: Tarantino non nega di giocare con il cinema, sguazza nei propri vezzi registici, sottolinea ciò che gli piace attraverso una regia che in più passaggi ha un sapore estatico, la natura stessa del set è artificiosa, spesso quasi teatrale per l’evidente uso di cavi, retroproiezioni e per la fotografia che esalta le tinte creando un quadro che sembra un’opera pop. Anche l’insieme di stili (cartoon, dal vero, bianco e nero, colore) e l’ossequio di generi spesso differenti tra loro (wuxiapian, chanbara eiga, western italiano, horror, catfight) va in questa direzione. Ma lo spettatore, pur consapevole dell’inganno che si dipana di fronte ai suoi occhi, non avverte falsità ed è anzi portato a parteggiare per questi personaggi ben tipizzati: come Tarantino crede anzi in loro e ne vive con emozione le sfide. In pratica basterebbe questo per descrivere Kill Bill come perfetto paradigma dell’inganno alla base dell’arte cinematografica, artificio per eccellenza capace di creare un’illusione che ha il sapore del vero.
Tarantino però non si accontenta e scopre le sue carte nel bellissimo confronto finale tra Bill e la Sposa, quando i due sono costretti a riflettere sulle rispettive azioni e sui loro ruoli: in questo momento capiamo come Bill sia in fondo rimasto sempre fedele a se stesso e alla sua natura di killer. Egli è rimasto sempre dentro il suo personaggio, anche laddove ha voluto esprimere amore. Diversamente la Sposa ha tentato di uscire dal ruolo, nel momento in cui la striscia del test di gravidanza è diventata blu, ha pensato di sovvertire il suo mondo per un sentimento estroflesso che la vedeva ormai madre e non più assassina. Forse anche Bill era arrivato vicino a un tale sentimento quando, dopo averla raggiunta alla chiesa dove lei stava per sposarsi, era quasi riuscito a rinunciare a lei, ma poi era infine rientrato nel ruolo del carnefice. Qui si marca la differenza tra i due, ma allo stesso tempo la loro eguaglianza: la Sposa infatti non può trattenersi suo malgrado dal portare a termine la sua missione di vendetta, forse pentendosene un attimo dopo, ma inevitabilmente realizzando il suo disegno. Forse perché lei è, come da sua stessa ammissione, una “cattiva persona”, un’assassina, come profetizzato dallo stesso Bill.
Ecco, il succo del discorso è tutto qui: uscire dai modelli per essere loro affine, in un viaggio che è una vera e propria presa di coscienza della tradizione di cui si fa parte e che si è contribuito a rifondare. Distanziarsi per ritrovarsi. Ed ecco che quel momento arriva quindi a costituire la perfetta saldatura fra l’adesione ai generi e quindi alla natura finzionale del cinema, e quel lirismo che fa palpitare i cuori e ci dice come tutto quanto si è svolto sotto i nostri occhi è stata in fondo una storia di emozioni vere, quelle che infine permettono alla Sposa di lasciarci come Madre. La massima glorificazione possibile del potere del Cinema.
(id.)
Regia e sceneggiatura: Quentin Tarantino
Origine: Usa, 2003/2004
Durata: 247’
Intervista a Uma Thurman e Daryl Hannah
Conferenza Stampa
Sito italiano Kill Bill volume 1
4 commenti:
Io sono una tarantiniana. Questo film è bellissimo, mi hai fatto venire voglia di rivederlo.
Ale55andra
Non ho mai amato molto i film di Tarantino, ma "Kill Bill" è veramente splendido. Cinema sopraffino, elegante, per una volta non di maniera, in cui anche lo sfrenato citazionismo, che rappresenta la cifra stilistica più evidente del regista, diventa sopportabile. Regia virtuosistica e magistrale, personaggi indimenticabili, superba colonna sonora.
Un film che è una composizione di film. Imperdibile.
Beh, "Reservoir Dogs" visto all'epoca dell'uscita (e nessuno se non la rivista Duel ne parlava...) è stato indubitabilmente un colpo di genio assoluto, entrato istantaneamente nel Pantheon dei film da portare sull'isola...e poi Tarantino si diverte, alla faccia dei critici stitici
Non so, io ho un giudizio un po' altalenante su Kill Bill. Il primo l'ho trovato bellissimo, spontaneo, divertente, perfetto per i meccanismi di attacco/difesa all'occhio dello spettatore e per la goliardia esuberante che straborda da ogni fotogramma. Il secondo invece non mi ha convinto del tutto, mi è parso un po' troppo parlato, riflessivo, studiato, inutilmente quasi filosofico. Peraltro come sai non mi ha convinto nemmeno Death Proof... io e tarantino abbiamo un rapporto molto altalenante.
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